Note: questa è la raccolta post Verso l'alba che
dedico alla coppia Ami-Alexander. Ogni capitolo avrà un
titolo semplice, che per chiarezza indicherà la data o il
periodo dell'evento che sto per raccontare, e un brevissimo riassunto
dell'accadimento principale
Per
istinto e pensiero
di ellephedre
1 gennaio 1997 - Alexander
si ammala
Cominciò alle nove del mattino, nel primo giorno
del nuovo
anno.
Alexander si svegliò nel proprio letto con Ami abbracciata
alla
sua spalla e una sensazione di malessere che avrebbe definito mal di
testa se non fosse stata tanto vaga. Provò a
scacciarla
aspettando che passasse, poi dovette portare una mano alla tempia.
Massaggiò una linea dolorante - forse un nervo, un vaso
sanguigno... O un punto di
incontro tra aree cerebrali?
Ami rabbrividì, un pulcino che arruffava le penne nel
rivedere
il giorno. Si accucciò contro di lui e
sollevò
pigra le
palpebre. «... buongiorno.»
Inspirando Alexander si sentì meglio.
«Buongiorno.»
Il sorriso di lei fu radioso e tranquillo, poi sparì nel
nulla. Allarmata, Ami si sollevò sulle braccia.
«Che ore
sono?»
«Le nove e venti.» Forse i loro corpi si
attendevano ancora un nemico da
combattere, perché quando lui era stanco era capace di
dormire anche fino alle undici del mattino.
Ami era preoccupata. «Mia madre voleva vederci alle
dieci.»
Per quale motivo?
«Me n'ero dimenticata. Ha detto che potevo passare
la notte qui se stamattina andavamo presto da lei. Per il discorso
che...»
«Ah.» Per la lezione sul sesso che Saeko-san
intendeva dare a
lui e
ad Ami.
Avrebbe quasi preferito farsi castrare. Quasi.
Lo colpì una fitta alla nuca.
«Che cos'hai?» Ami cercò di aiutarlo nel
massaggio alla testa.
«Non lo so.» Ma di solito si sentiva in quel modo
quando... «Forse sto prendendo un
raffreddore.» Dopo
l'influenza del
mese precedente. Che fortuna.
Ami cominciò ad accarezzargli la fronte, scostando i capelli
all'indietro. Il tocco dei suoi polpastrelli era studiato e
rilassante.
«Senti
male
alla gola? Al petto?»
Non gli sembrava.
«In America ti sei scoperto molto?»
Non si era curato della mancanza di una sciarpa in quei frangenti, con
la preoccupazione di lei che combatteva una guerra contro gli alieni e
un
amico con una sorella morta.
Ami comprese che il suo silenzio era frutto della stanchezza,
nonché delle
meravigliose dita con cui stava lenendo i suoi fastidi.
«Potremmo dire alla mamma che non ti senti
bene.»
L'idea era allettante, ma posticipare avrebbe solo rimandato
l'inevitabile. «No.» Per non ripensarci si
tirò su, sedendosi. «Mi preparo e andiamo. Tanto
vale
farla finita.» Si spogliò del pigiama e
cominciò a
cercare dei vestiti. Ami lo guardava.
«Che cosa possiamo dirle?»
«Lasciamo parlare lei.»
«Sì, ma ad un certo punto vorrà una
spiegazione
precisa su come è potuto... succedere. Non si
accontenterà di una scena muta. Non ammetterà
imbarazzi.»
Lui lo aveva immaginato. Ami aveva ereditato la sua determinazione
dalla
madre, ma Saeko Mizuno era meno docile di sua figlia. Per questo, nel
trattare con lei, Alexander non si era mai trattenuto nell'esprimerle
qualunque
briciolo di ammirazione sincera provasse nei suoi confronti,
mostrandosi in qualunque momento come il bravo ragazzo che - per natura
-
era.
Si era conquistato la benevolenza di Saeko-san, ma poteva
averla persa tutta per un'incomprensione che non aveva speranza di
chiarire.
Non sarebbe stato più sufficiente
sorridere e
scusarsi. «Vorrà che ci prendiamo le
nostre
responsabilità.
Le dirò che... non mi sono ritratto in tempo.»
Ami arrossì. «No. Per lei non usare protezioni
è il massimo dell'idiozia.»
«Non è quello che le hai detto?»
«Sono stata vaga.»
Meglio. «Allora diremo che... ci eravamo
preoccupati per
non aver capito come usare il preservativo. Dopo aver finito bisogna
ritrarsi
tenendolo alla base con le dita, altrimenti si rischia la fuoriuscita
di-»
«Okay» lo fermò lei, a disagio.
Alexander si divertì. A quanto pareva, durante
quella
conversazione Ami sarebbe stata la prima a vergognarsi.
«È
una
spiegazione
valida» le fece notare. «Non le sembreremo nemmeno
degli incoscienti.
Penserà
che tu ti
sia preoccupata troppo, ma non si stupirà. Sei
meticolosa.»
Parlarne di nuovo lo aiutò a mettere in prospettiva il loro
comportamento dell'ultimo mese. Erano stati davvero
folli. Lo spavento che ne era conseguito e l'essersi preparati
a
tutti gli effetti a diventare genitori forse li redimeva. Lui ed Ami si
erano
dimostrati adulti, nessuno dei due si era tirato indietro.
Ami sospirò, tormentata. «Allora
è questa
la nostra
versione?»
«Se ti sembra che tua madre sia sospettosa, aggiungi che
è successo
più volte. E che almeno una volta hai proprio
sentito che era
uscito-»
Lei fece una smorfia. «Non voglio dare tutta la
colpa a
te.»
«Dille che mi hai trattenuto tu. Trovavi così
bello stare abbracciati stretti stretti, dopo.»
Ami lo fulminò con gli occhi. «Ti stai
divertendo.»
Cercava solo di vedere il lato comico della tragedia. «Non
possiamo sfuggirle, tanto vale riderci sopra. E poi non è
forse
vero, Ami love?» Si chinò su di lei e
strofinò il
naso contro il suo. «Tu adori stare stretta stretta a me,
dopo.»
Lei cercò di abbassare la testa, ma lui la
inseguì fino a trovare un bacio sulla guancia. La fece
ridere.
Ami lo guardò, più serena. «Ti
senti meglio?»
In piedi, lui valutò il proprio stato. La sensazione vaga di
fastidio non era ancora sparita. «Magari basta non
pensarci.» Almeno, lo sperava.
Lei non insistette, un segno che - per muta promessa - lo
avrebbe
tenuto d'occhio finché non fosse stata convinta al cento per
cento della sua buona salute.
Lui non l'aveva ancora sperimentata in
versione infermiera. Da una malattia poteva aspettarsi quel vantaggio.
L'ultima volta aveva tenuto Ami lontano perché gli
esami di
ammissione alla Todai erano stati alle porte e lei non si era potuta
permettere di stare male.
«Se finisco K.O.» le disse, «mi curerai
con tanto amore?»
«Con pastiglie e impacchi freddi» sorrise Ami.
Avvicinandosi, lo baciò su una spalla. «E con
tanto
amore.
Ora mi vesto e andiamo.»
«... perciò è così che sono
andate le cose.»
Al termine della spiegazione il silenzio a tavola si protrasse per
lunghi secondi. Saeko Mizuno continuava a studiare le loro
parole come
se tentasse di ricostruire la scena nella propria mente.
Era
come
trovarsi al centro del suo tavolo operatorio, le interiora
strette nelle sue mani ansiose di dissezionare la carne.
«Perché non avete letto bene le istruzioni sulla
scatola?»
Alexander non ebbe il tempo di rispondere.
«Mamma... puoi immaginare la ragione.»
Saeko-san non disse che era da lui che voleva una risposta, si
limitò a guardarlo.
«È stata colpa mia» la
accontentò Alexander. «Erano le prime volte e io
ero... impaziente. Confuso.» Non era una bugia.
«Le prime volte?»
La domanda era chiara. «Abbiamo cominciato solo di
recente.»
Ami si fece udire mentre prendeva aria, accumulando
pazienza. «No, mamma. Io non ti chiedo delle tue
abitudini
sessuali.»
Alexander boccheggiò come un pesce: non avrebbe mai
immaginato Ami che parlava in quel modo a sua madre.
Ma lei non era sorpresa. «Hai ragione. Cercavo
di capire se mi stavate mentendo.»
«Non abbiamo motivo di mentire. Siamo qui a parlarne con
te.»
«Eppure siete riusciti a omettere la verità per
settimane.»
Alexander si intromise. «Solo perché
prima dovevamo essere sicuri che ci fossero state
conseguenze.» Non si pentì di non aver lasciato
parlare Ami: la signora si era di
nuovo attesa di sentire lui, non sua figlia. «Per quanto lei
avesse diritto di sapere, Saeko-san... Era una faccenda che riguardava
innanzitutto me ed Ami. Dovevamo essere prima noi a
gestirla.»
«Sei solo un ragazzo, Alexander.»
Nella sua testa l'accusa ebbe la voce dura di suo
padre. «So
quanti
anni ho. So che cosa ho fatto.» Smise di stringere i denti,
perché la tensione peggiorava la pressione sulle tempie,
che avevano ricominciato a pulsare.
Lasciò che la rabbia si trasformasse in decisione.
«Non sono un bambino. Ho
la possibilità di dare un tetto a una mia
famiglia, se voglio.» Vendendo la
faccia, ma il mezzo non aveva importanza. «Non ci sarebbe
mancato
niente. A parte la questione del denaro, per me non era
sbagliato
che fosse
successo con Ami. Col passare dei giorni non ero più
pentito,
ero più sicuro.» Perché poi
doveva spiegazioni a una donna che aveva
commesso lo stesso errore per cui lo biasimava, senza nemmeno tentare
di costruire qualcosa col padre di sua figlia? Saeko Mizuno si
era arresa subito, per questo Ami non aveva mai avuto una vera
famiglia.
Si massaggiò la fronte.
Maledetto raffreddore, stava arrivando. Si sentiva sempre
più debole e, quando era debilitato, era collerico.
Ami gli tenne stretto il polso, un tocco pensato per dargli
conforto. «Alexander non sta molto bene.
Per oggi
basta, per
favore.
Ti avevo già detto che stavamo gestendo la situazione. Io
ero
spaventata, ma le cose stavano... funzionando. Avevamo trovato una
nostra strada.»
Non vi furono reazioni immediate e Alexander non ne cercò
con gli occhi. Passato qualche momento, udì il
suono di una
sedia che
strisciava sul pavimento. Dei passi si avvicinarono a lui.
«Va' a prendermi lo stetoscopio, Ami.»
Dopo una breve esitazione, Ami andò. Saeko-san
prese il
posto
che aveva occupato sua figlia, spostando la sedia per mettersi di
fronte a lui.
Alexander non sollevò lo sguardo, lo tenne fermo
sulla
ginocchia. I pensieri che aveva avuto sulla signora lo fecero
sentire
in
colpa.
Saeko-san non approfittò del momento di solitudine
per
parlargli. Un attimo prima che Ami arrivasse, si limitò a un
unico segnale: mise una mano sulla sua, stringendola, poi lo
lasciò andare con una piccola pacca sulla dita.
Ami rientrò nella stanza. «Ecco lo
stetoscopio.»
«Grazie. Togliti la felpa, Alexander. Sentiamo se ti stai per
beccare l'ultima influenza.»
Contro il parere medico della sua futura suocera, quel
pomeriggio Alexander visitò il tempio Hikawa con Ami.
Saeko-san non
aveva
trovato niente di anomalo in lui, si era
limitata a fargli ingerire una pillola contro il mal di testa e un
intruglio
vitaminico.
«Ma se tu riconosci i segnali che il tuo corpo ti
dà quando sta per cedere... Riposa.»
Si erano trovati sulla strada di casa sua quando la medicina aveva
cominciato ad avere effetto sul mal di testa.
«È il
primo
dell'anno» aveva detto ad Ami.
«Andiamo a festeggiare.» Voleva anche andare a
trovare
Nanny Shoko quella sera; si rifiutava di stare male.
Ami alla fine aveva ceduto. Si era ritrovata con le sue amiche il
giorno precedente, ma aveva ancora voglia di vederle.
Era giusto che
festeggiassero e continuassero ad esser felici della loro
vittoria, insieme. Lui sospettava anche che Ami volesse
saperne di più su Usagi
Tsukino e il suo nuovo anello di fidanzamento. Tra discorsi di guerra,
alieni e misteriose entità sovrannaturali, il giorno
precedente non c'era stato tempo per le ragazze di
spettegolare sulla proposta. Lui immaginava che Mamoru
l'avesse buttata giù
in modo semplice.
'Usagi. Siamo quasi
morti, stiamo insieme da quattro anni. Ecco l'anello, sposiamoci.'
Chiba gli sembrava proprio un tipo così concreto.
D'altronde,
erano sempre le donne a ingigantire la portata di un evento che avrebbe
dovuto essere il più semplice e genuino possibile.
Quando
fosse
toccato a lui chiederlo ad Ami... No, non ci voleva pensare.
Era stato
costretto a considerare l'idea qualche settimana prima e si era
sentito
a disagio: gli piacevano l'ordine e la chiarezza, li aveva sempre
voluti nel suo rapporto con Ami. Farle una proposta di matrimonio dopo
aver scoperto che lei era incinta era una situazione che straripava di
possibili malintesi
per il
futuro.
Ami un giorno avrebbe potuto rinfacciarglielo, o semplicemente
convincersi che in altre circostanze lui avrebbe scelto di non
impegnarsi con lei in quel modo.
Nemmeno a lui sarebbe piaciuto:
associare l'idea di costrizione, di fretta, a una decisione che avrebbe
dovuto
essere presa nella più totale libertà...
Dove sarebbe finito il romanticismo? Come
avrebbe fatto capire ad Ami che nel momento in cui le avesse
chiesto
di stare con lui per tutti i giorni della loro esistenza, ci sarebbero
stati solo loro due nella sua mente, e nessun altro? Come avrebbe
potuto dimenticare davvero quel qualcun
altro,
se l'idea del suo arrivo fosse stata tanto presente tra di loro, a
renderli al contempo ansiosi e più uniti che in passato,
diversi?
Meglio che non fosse successo, già.
... Ma poteva capitare di nuovo.
Forse uno di quei giorni
Ami ci avrebbe ripensato e avrebbe deciso che voleva
un bambino subito. Era stato lui a dirle che poteva cambiare
idea in
qualunque momento, ma... era stato avventato?
Nei mesi a venire
aveva
già tante cose da fare, proprio in previsione del futuro che
progettavano insieme. Doveva trovarsi una casa nuova,
mettersi a lavorare per mantenersi, finire la tesi di laurea prima di
non avere più pomeriggi liberi, cominciare a risparmiare a
fondo perché comunque poi aveva... quanto
tempo? Poco
più di due anni, se i suoi calcoli erano esatti.
Se aspettavano oltre, lui ed Ami non avrebbero mai avuto un bambino
loro, una specie di pupazzo piccolo come Arimi Yamato, che profumava di
buono.
Il problema era che lui aveva preso in braccio quella bambina
e si
era sentito incompetente, totalmente impreparato. Se avesse potuto
sarebbe scappato a gambe
levate,
ancora
di più quando l'aveva sentita strillare e si era scoperto
incapace di aiutarla. Le aveva dato un bacio sulla testa -
perché lei gli
aveva fatto tenerezza, una reazione umana - ma aveva scalpitato
nell'attesa che Shun
tornasse a prenderla.
Si sarebbe comportato
così anche con Ami? Le avrebbe scaricato il bambino appena
avesse potuto?
Oppure, sarebbe stato diverso se si fosse
trattato di un figlio suo?
Non voleva ancora scoprirlo.
Voleva solo riprendere ad andare all'università, uscire con
Ami la sera, pensare ai prossimi esami e... vivere la
loro vita di prima. Almeno per qualche altra settimana.
«Sei distratto.»
Nel retro della stanza adibita alla vendita dei talismani, assaltata da
clienti, passò a Yuichiro Kumada una nuova scatola
di talismani portafortuna. «È il tuo
lavoro, non il mio.»
«Non dicevo per questo. Comunque, Mamoru sta già
lavorando per tre.»
Mamoru Chiba si era offerto di
aiutare Kumada
al negozio, in sostituzione di Rei Hino che era andata a prendersi
una
pausa. Chiba aveva indossato una tunica templare e si era messo
tranquillo
dietro lo
stand, a chiedere ai clienti in fila cosa desiderassero quel giorno.
Augurava a tutti buon anno nuovo e sorrideva cortese, quasi
irriconoscibile.
Alexander lo osservò. «Non ho ancora
perso la testa fino a
quel
punto.»
Kumada si caricò in braccio altri due scatoloni chiusi.
«Non devi farlo.»
«Non posso ridere a comando.»
Ma lo stava facendo Kumada, comprensivo. «Infatti ti
ho messo
nelle retrovie.»
E anche lì, si rese conto Alexander, stava causando
dei problemi.
Dannazione,
aveva ricominciato a sentirsi poco bene. Gli
facevano male le spalle e la schiena. Tenere la testa dritta era uno
sforzo.
Prima di tornare dai clienti, Kumada si girò.
«Hai un'aria strana. Vai a fare un giro per il bosco,
c'è meno
caos.»
Alexander seguì il consiglio e uscì dal
gazebo
scansando la
folla, cercando pace nel profondo del boschetto che circondava il
santuario. Camminò senza meta e finì nell'angolo
più nascosto del luogo, dove trovò... Gen
Masashi. Lui era
seduto sul parapetto in pietra che delimitava l'area.
Alexander provò a deviare per evitare l'incontro,
ma Masashi lo notò. Allontanarsi non fu più
un'opzione.
Avvicinandosi, Alexander concretizzò la vista di quello che
Masashi
teneva tra le dita della mano destra.
«Fumi.» Espresse abbastanza
disgusto in due sole sillabe.
«Si muore di freddo.»
«Hanno inventato la lana. E le bibite calde.»
«Non ti ho offerto di farti un tiro, Golden Boy.
Tieni per te i tuoi giudizi.»
Alexander aprì la bocca per rispondere, ma la sua
testa non
formulò una sola battuta intelligente.
Si adeguò al silenzio e, scostandosi di lato, si
limitò a
rimanere
lontano dal fumo della sigaretta.
Guardando l'orizzonte provò a concentrarsi
sulla calma del cielo, ma il suo cervello martellava
incessante contro la calotta cranica.
... avrebbe preso un'altra pillola. Le medicine non gli
piacevano, ma il dolore alla testa era
l'unica cosa che non poteva sopportare.
Udì un fruscìo. Masashi aveva spento la sigaretta
schiacciandola contro il
muretto. Fu rispettoso: non abbandonò il mozzicone sul
posto,
tirò fuori un fazzoletto dalla tasca interna della giacca e
avvolse il rifiuto là dentro, stringendo forte.
Espirò con un ultimo lungo soffio. «Sai
se Makoto ha mai fumato?»
«Compra verdure biologiche.» Gli sembrò
sufficiente come spiegazione.
«Già.»
Alexander lo studiò. «Stai pensando di
smettere?»
«Non è mai stata un'abitudine. Era solo qualcosa
che facevo ogni tanto.»
Non indagò. Ma Masashi aveva qualcosa da dire ed era
strano sentirsi il ricevente di una confessione da
parte sua.
Era la giornata a essere strana? Il primo giorno dell'anno,
di un nuovo anno e di una nuova vita che diventava reale nella sua
stranezza, ora che sapevano tutta la verità.
«È il primo dell'anno»
confermò Masashi.
Mettendosi in piedi, osservò il pugno che stringeva il
mozzicone
spento. «Questa era l'ultima sigaretta che
fumavo.»
«Un proposito?»
«No, uno stato di fatto. Stavo pensando che non sono
più single.»
Se ne accorgeva in quel momento?
«Mi sono reso conto che non voglio
più essere
single.» Masashi aggrottò la fronte e scosse la
testa, guardando
il mozzicone come se fosse la sua libertà perduta, una cosa
che
aveva già lasciato andare e che non rimpiangeva, ma a cui
era
ancora difficile credere.
C'era una domanda inespressa nell'aria.
Ti sei sentito
così
anche tu?
Alexander rispose. «Io non ho i tuoi blocchi
emotivi.»
«Dovevo immaginarlo. Come una ragazzina, vivi felice l'idea
della favola eterna.»
«Con più palle di te, senza lamentarmi.»
Fu la cosa sbagliata da dire. Con un grugnito Masashi si
voltò e cominciò ad andare via.
Alexander si pentì. «Ehi.»
Masashi si fermò, solo per quel
bisogno
che avevano entrambi di trovare una stabilità in una
situazione
assurda, in cui di giusto tutti e due avevano solo una ragazza.
Nell'intero pianeta erano stati solo in tre a sperimentare
quella
condizione e ora che Yuichiro Kumada si era rivelato diverso, erano
rimasti in due. Si dovevano qualcosa a vicenda.
«La tua vita non è un vizio che devi abbandonare.
Non ti sembrerà così in futuro.»
Masashi rifletté sulle sue
parole. Annuì. «Ci si vede, Golden
Boy.»
Alexander rimase solo nel boschetto, a massaggiarsi la tempia.
La sera, dopo un'altra pastiglia, andò a letto
alle sei, un orario indegno per qualunque adulto che non fosse malato.
In
pigiama, si sentiva uno straccio.
Ami era sdraiata accanto a lui, vestita e preoccupata. Continuava a
passargli la mano sulla fronte, cercando di scorgere segni di febbre.
«Non ti lascio solo, okay? Rimango qui.»
Ad Alexander piaceva vederla mentre si
prendeva cura di lui, almeno quando non c'erano di mezzo alieni
assassini pronti a uccidere entrambi. Così materna
lei era
ancora più dolce.
«In questi giorni ti è successo di
tutto...» stava dicendo Ami.
«L'ho sopportato.»
Lei sorrise piano. «Non
hai
mangiato bene, hai visitato posti con umidità molto
differenti
nel giro di poche ore... Ti sei indebolito.»
«Continua ad accarezzarmi la testa e
passerà.»
La pillola stava ricominciando a fare il suo effetto, portandosi dietro
una scia di stanchezza.
Gli venne sonno.
Ami lo baciò sulla fronte. «Riposa.»
Lui le ubbidì.
Occhi aperti, accecati.
Giorno,
in un luogo da incubo. Arco d'India, posto di morte, Ami al centro del
piazzale.
Correre da lei, urlare.
Esplosione nucleare.
Colpo al cuore, di nuovo sveglio.
In casa sua, in camera. Notte fuori dalle finestre.
Buio senza luce, pericolo. Capelli azzurri, aliena.
Scappare, sparire!
C'era energia?
Sì, dentro di lui.
Assassino, mani di morte e crac al collo per lei.
Fallimento, pugni e dolore alla faccia.
Gettato fuori dalla finestra.
Cadere nel vuoto, non fermarsi. Perduto!
Gridare, gola rotta.
Di nuovo luce, vivo.
Sveglio, dentro una bolla. In trappola.
Ami
catturata, alieno la porta via.
No nooo!
Dimenarsi, distruggersi le mani.
Tirare la moquette, prendere il
comunicatore!
Aliena con occhi grigi, ride.
Ti odio.
Arriva qualcuno, un Re.
Petto squartato, agonia.
Poi lasciato solo con morte, sentire che giunge.
Non importa. Uccide
l'impotenza, la debolezza.
Ami lontana, loro bambino muore.
Sangue sulle lenzuola, no
noo!
Soffocare, occhi di nuovo aperti.
Bambino vivo, in braccio. Piccolo, si rompe.
No!
Stringerlo piano, attento.
Bambino piange, piange. Non smette!
Orecchie fanno male, tutto fa male.
A casa, indietro, via! Senza bambino!
Lo prende Ami. Se ne va.
Delusione, amore finito.
Lasciato solo.
Si svegliò in un inferno di calore, le ossa
doloranti e lo
stomaco che saliva di prepotenza al petto. Scostò
le coperte
e
si gettò su un fianco, per vomitare tutto quello che
aveva sul pavimento.
Fuck!
Con un braccio cercò di issarsi sul comodino,
ancora più lontano dal materasso, mentre dalla bocca gli
colavano saliva e cibo dissolto, tanto maleodoranti da causargli
altri conati.
Qualcuno lo stava massaggiando sulla schiena.
«Va tutto bene, sono qui!»
Cazzo, era Ami.
Lei lo stava vedendo vomitare, e lui non
riusciva
a
smettere!
Provò a tenere su la testa, uno sforzo
mastodontico. Tutti i suoi muscoli ardevano.
Si buttò sulla schiena e si
coprì la bocca sporca con una manica del pigiama.
Ami
saltò via dal materasso. «Torno
subito!»
Alexander tremò da capo a piedi. Provava un
freddo cane, ma il suo corpo era caldo come lava.
Si rannicchiò, provò a
coprirsi. Aveva la schiena rigida come un palo e il sapore sulla lingua
era orribile. La sua testa pulsava come se stesse
per scoppiare.
What the
hell? Non era mai stato tanto
male.
«Ecco.»
Sulle labbra ebbe un panno bagnato.
Sentì le braccia di Ami attorno al collo, che gli
sollevavano la nuca.
«Questa è acqua, bevi un
pochino.» Lei gli mise sulla
bocca un bicchiere. «Vuoi sputare? Qui
c'è il
panno.»
Senza alternative, lo fece.
Lei cominciò ad allontanarsi e lui si
aggrappò al suo braccio.
«Va tutto bene.» Ami cominciò a
slacciargli i bottoni del pigiama. «Vuoi che prima ti cambi?
Lo faccio.»
«Ami...»
«Shh. Hai la febbre molto alta. Ti ho dato una
medicina, ma ora si trova sul pavimento.»
God, tremava anche lei. Era nervosa e preoccupata.
«Che diavolo...?» Come aveva
fatto lui a ridursi così?
Si tenne la testa con
una mano mentre Ami gli toglieva l'altro braccio dalla manica sporca.
Tutto il suo pigiama era madido di sudore.
«Resisti. Pulisco il pavimento, poi vado a chiamare
Mamoru. Ti curerà lui.»
«Cosa...?» Le tempie stavano per
esplodergli, tremava sempre di più. «No, per
favore...»
«Sì, invece. Vedrai che guarirai
subito.»
«Dammi un'altra medicina...» Dio,
perché aveva tanto male agli occhi? «Spegni la
luce!»
Ami si mise davanti alla lampada. «Devo chiamare
Mamoru, adesso.»
Si chinò su di lui fino
ad
abbracciarlo con tutto il corpo. Lo baciò forte sulla fronte.
Alexander rantolò. «Resta...»
«No. Ti metto un altro pigiama e vado.»
... lei stava piangendo?
«Ami...»
La sentì singhiozzare. «Riesci a tirare
su la
testa? Così, ecco il pigiama nuovo.»
Una felpa gli coprì tutta la faccia, poi
finì
arrotolata attorno al suo collo. «Cosa c'è...?
Ami...»
Lei era metodica e svelta: gli stava infilando a forza un
braccio
piegato dentro una manica. «Ho quasi fatto. Ora mi trasformo
e
vado da
Mamoru. Torno subito!»
«No, cosa...?»
Ami era già scesa dal letto. «Rimani
sdraiato!»
Lui si girò dalla parte in cui non poteva colpirlo
la luce.
Si sentiva una carcassa senza forze. Faticava a
pensare.
Udì dei
suoni, di Ami che si muoveva per la stanza. Lei aveva preso qualcosa,
forse un
lenzuolo. Lo gettò sul pavimento.
I suoi passi sparirono nel corridoio.
No, torna qui.
Ma Ami non si rifece viva.
«Mercury Crystal Power...»
Lei si stava trasformando. Per andare da Chiba, per
trasportarsi col pensiero...
Dio, la testa! Gliela stavano schiacciando
dall'interno,
faceva male!
Nel silenzio assoluto della casa si permise un lamento
patetico.
Non c'era più nessuno con lui. Era solo con quella
tortura senza senso.
Che malattia aveva preso? Perché stava
così male?
Provò inutilmente a rilassare la fronte,
boccheggiando.
Udì il proprio respiro che usciva veloce e rauco,
come quello di un
animale morente.
Cercò di eclissarsi sotto le coperte.
«È lì.»
Ami. E dei passi, che non erano di lei.
«Okay, ora vediamo.»
Chiba.
God, no no!
Non poteva farsi vedere da qualcun altro in
quello stato!
Chiba tirò via le coperte, a forza.
«Tranquillo. Concentrati sulla mia
mano.»
Il tocco delle sue dita fu come ghiaccio sulla
pelle. Alexander cercò di allontanarsene, ma venne tenuto
fermo.
Ami era nella stanza da qualche parte, lontana dal letto.
«Puoi fare qualcosa? Altrimenti dobbiamo portarlo in
ospedale.»
«Devo concentrarmi.»
Lei si zittì e Alexander riuscì ad
aprire gli occhi. Nella penombra della stanza vide
Ami china
sul
pavimento, la schiena che si sollevava e scendeva. Lei stava
pulendo quello che lui aveva rimesso. «Ami, no...»
Lei alzò la testa, il diadema di Mercurio sulla
fronte. «Shh.» Aveva gli occhi umidi mentre lo
guardava.
«Non piangere...»
Lei non disse niente e osservò Mamoru.
Lui gli teneva
una mano sulla testa. Alexander non ebbe il tempo per
prepararsi,
fu
trafitto alle tempie da una lancia, poi...
Sollievo.
La
pressione sparì dal suo cranio e in un istante lui si
riappropriò di tutti i propri sensi.
«Ami.» Quasi senza sforzo, si
spostò sul materasso.
Estatica, lei si arrampicò sul letto.
«Stai meglio?»
«Sì. Che cosa...?»
Chiba gli aveva lasciato la testa, ma ora gli
stringeva il polso. «Non agitarti. Devo finire.»
Alexander guardò Ami, in cerca di risposte.
«Forse avevi... un'infezione.»
Eh?
«Dimmi i sintomi.» Era stato Chiba a
parlare, ma non si era rivolto a lui.
«Aveva la febbre da due ore, ma era
bassa.» Ami era
ancora in apprensione. «Non gli ho dato qualcosa
perché aveva preso un'altra medicina e non sapevo se... La
temperatura è salita
all'improvviso, fino a trentanove gradi. A quel punto gli ho fatto
inghiottire un antipiretico e ho abbassato la febbre con impacchi
freddi.
Sembrava che gli stesse passando... sudava. Ma nel giro di dieci minuti
il computer mi ha segnalato che aveva toccato i
quaranta.
Lui si copriva gli occhi, il suo collo era diventato rigido...
È
in quel momento che ho pensato a...» Deglutì.
«Si è svegliato quasi subito
e ha vomitato tutto. Mi ha confermato a voce che non
sopportava
la
luce.»
«Allora...» rifletté Chiba.
«Sì. Può essere.»
Tra lui ed Ami ci fu uno scambio silenzioso, da cui lo
lasciarono fuori.
«Può essere, cosa?» chiese
Alexander.
Chiba lo fissava. «Oggi sei stato al tempio, in
mezzo alla
gente. Ma tu... stavi sul retro. Sono stato a contatto con molte
più persone di te.»
Parlavano di un contagio.
Pensieroso, Chiba scosse la testa. «Potresti averla
presa da chiunque. Anche diversi giorni fa.»
«Che
cosa?»
Chiba guardò Ami.
Fu lei a rispondere. «Un'infezione al cervello.
Procede molto rapidamente quando si attiva.»
Cioè... meningite? Era impossibile.
«È rara.»
Con tutte le cose assurde che gli erano capitate in quell'ultimo
periodo, era statisticamente fuori dal mondo che si fosse beccato anche
una malattia come quella.
Chiba non lo escludeva. «Terrò d'occhio
gli ospedali.
Per caso sei stato a contatto con qualche bambino di recente?»
No, che c'entravano i bambi-...? Capì e si
allarmò. «La nipote di Shun!»
Ami sussultò. «Calma. La bambina
avrebbe manifestato i sintomi prima di te. Se
fosse stata male, Yamato avrebbe avvisato chiunque avesse
avuto a che fare con lei.»
Sempre che Shun non fosse stato troppo devastato dalle
conseguenze della malattia per fare qualcosa. «Passami il
telefono.» Non era tranquillo.
Ami si alzò. «Lo chiamo io, tu resta con
Mamoru.» Prese il cordless dall'alloggiamento e
uscì
in
corridoio.
Chiba gli strinse un'ultima volta il polso, poi la sua mano
smise di bruciargli sulla pelle.
Poiché non lo lasciava andare, Alexander si
voltò. «Non stavo per morire.»
«Ora non lo sapremo mai.» Chiba si
allontanò e scese dal letto.
«Ho infuso il mio potere in ogni parte del tuo corpo. Non
può essere rimasto segno di ciò che ti ha causato
quei sintomi.»
Era un bene che lui non avesse più in sé
una sola molecola
di quella roba, ma ignorare cosa gli era successo era
destabilizzante. Fino a poco prima si era sentito come se
qualcosa lo stesse mangiando vivo dall'interno. «Grazie per
aver risolto.»
Chiba scosse la testa e prese la strada della porta.
Scansò coi piedi la massa di lenzuola gettata a
terra.
Alexander digrignò i denti. «Shit.»
«Non è stata colpa tua.
Buonanotte.»
Il pavimento era un disastro.
«Buonanotte.»
Ami rientrò nella stanza. «La bambina sta
bene, Yamato dice che non ha mai avuto la febbre. Gli ho detto che tu
eri a letto con qualcosa di contagioso, ma non ho voluto allarmarlo,
perciò gli ho raccontato che non sapevamo ancora che cosa
avevi.»
Era quello il problema.
Come leggendogli nel pensiero, Ami annuì.
«Ci chiamerà lui nei prossimi giorni, per sapere
di te. Ora che lo abbiamo avvertito, sa che deve stare
attento.»
Questo lo faceva stare più tranquillo.
Chiba si era fermato sulla soglia e guardava Ami.
«Se parliamo di contagio... Tu sei una persona a
rischio, Ami. Sei stata a stretto contatto con lui in queste ore,
proprio mentre manifestava i sintomi.»
Invece di allarmarsi, Ami si mise a riflettere. «Se
io cominciassi a stare male, potremmo verificare che cosa ha avuto
Alex.»
«Ami.»
Chiba gli venne in aiuto, mostrandosi più perplesso
di lui. «Ha importanza? L'ho guarito, non dovrebbe
ripresentarsi.»
«È stato a contatto con altre persone.
Mia madre, per esempio.»
Chiba aggrottò la fronte. «Controllala, e
se pensi che sia il caso, agirò su di lei. Nel frattempo
è inutile che non agisca su di te. Potresti persino essere
contagiosa durante l'incubazione, sempre che si tratti di quello che
pensiamo.» Vedendo che l'aveva convinta, Chiba le
indicò il salotto con un cenno. «Andiamo.
Riportami a
casa.»
In silenzio, Alexander gli fu grato una seconda volta.
Coprendosi il naso per evitare l'odore che aleggiava nell'aria,
uscì dalla stanza e si diresse in bagno.
Sciacquò la bocca con acqua e colluttorio e si
guardò intorno. Gli
servivano disinfettante e strofinacci.
Provò a captare rumori in lontananza, ma non ne
sentì alcuno. Ami si era già teletrasportata con
Chiba.
Recuperò un secchio dallo stanzino delle
pulizie e
cominciò a riempirlo d'acqua.
... possibile che si fosse davvero beccato un'infezione al
cervello?
Se non avesse avuto accanto persone con poteri, sarebbe morto
nel giro di poche ore.
Represse il brivido e tornò in camera sua, a
mettersi all'opera sul pavimento.
Dopo un paio di minuti, mentre era in bagno, udì un
fruscio in salotto.
Passò una seconda volta il getto della doccia sulle lenzuola
che aveva gettato nella vasca, cercando di pulirle più in
fretta.
Ami apparve alle sue spalle. Aveva perso la
trasformazione ed era inquieta, immobile.
«Sto bene» le disse lui.
«Lo so.» Lei prese in mano una confezione
di detersivo. «Fai la lavatrice stasera?»
«Sì, solo il programma rapido.»
«Non è tanto tardi. Sono solo le
nove.»
Forse, ma lei gli sembrava stanca come se non avesse dormito
da una notte intera. «È stata una buona idea
quella di chiamare Chiba.»
«Avrei dovuto pensarci prima. Se era davvero
meningite batterica, arriva un momento in cui insorgono danni
cerebrali permanenti. È capitato a un mio compagno di
classe, alle elementari. Per questo ho sospettato che anche tu... Lui
è guarito, ma il suo udito non è mai
più stato quello di prima. Nonostante questo, è
stato fortunato.»
C'era qualcosa che Alexander non capiva della reazione di lei.
«Perché ti
incolpi? Cos'altro avresti potuto fare per me?»
«Avrei dovuto rivolgermi a Mamoru prima. Ma
non volevo disturbarlo per una febbre.»
«Infatti.»
Ami si adirò. «Avrei potuto chiamare mia
madre, per chiederle se potevo mischiare l'antipiretico con
l'altra medicina.»
«Non era al lavoro questa sera?»
«Sì, ma se ti avessi dato qualcosa contro
la febbre, avrei attenuato un po' i sintomi e forse evitato
che-»
«Che succedesse qualcosa che non è
successo? Non ho danni, Ami.» Non sapeva nemmeno lui
perché stava discutendo con lei, ma quando la vide inspirare
profondamente, si ruppe. «Sto bene, love.»
Ami lo abbracciò con tutta la propria forza.
«Sembra... Sembra che non abbia mai fine. Pensavo di poter
stare
tranquilla ora che c'è pace, ma...»
«È stato un caso. Possiamo stare
tranquilli.»
Lei annuì contro il suo petto. Si staccò
piano, ricomponendosi e stringendogli la mano.
«Mamoru ti ha passato la sua energia?» le
domandò Alexander.
«Sì. Per precauzione.»
«Ha fatto bene.» Cercò di
mandar via il senso di oppressione e provò a sorridere.
«La mia stanza è inutilizzabile
stanotte.» Per l'odore, nonché per le lenzuola
ancora umide di
sudore che nessuna magia aveva asciugato e pulito.
«Dovrebbero esserci ancora le coperte nel letto dei miei
genitori. Se non trovo un'altra stanza, ci sistemiamo
lì.»
«Sì. A mia madre dirò che
stanotte sei stato male. Se fa delle domande, ma non mi
importa.»
Lo aveva immaginato. «Sorry per quello
che hai visto. Non è stato il lato migliore di me.»
«Non scherzare.»
Ne aveva bisogno. «È passata,
Ami.»
Lei sollevò gli occhi. Lo
guardò, poi fece quel mezzo sorriso mogio di quando si
rassegnava
a qualcosa di inevitabile. «Vado a controllare le stanze del
piano inferiore.» Se ne andò, senza lasciargli il
tempo di domandare altro.
«Mia madre ha lasciato un messaggio in
segreteria.»
Con quelle parole attirò l'attenzione di Ami.
«Per augurarmi buon anno nuovo» le disse
Alexander.
«Ha detto che domani verrà una squadra di
operai per montare la nuova scala tra i due piani.»
«Andrò via presto allora.»
Non era per questo che lui l'aveva informata. Era stato solo
un
tentativo di fare conversazione. «Sei ancora
spaventata?»
«... Sì.»
«Stanotte dormiremo abbracciati, hm?»
Cercò di guardarla negli occhi, ma nell'osservarlo lei
diventò ancora più esitante.
«Mentre avevi la febbre... Hai avuto degli
incubi.»
Ah sì? Non lo ricordava. «Deliri. Con
quella temperatura...»
Ami non fu completamente d'accordo. «Mormoravi
qualcosa. Forse stavi sognando quello che ci è capitato coi
nemici, ma...»
Lui rimase ad attendere una conclusione.
«Ma?»
Ami terminò di lisciare l'angolo delle coperte sul
proprio
lato e passò a sistemare i cuscini sul letto che avevano
scelto, in una camera per gli ospiti. «Hai parlato
di un bambino.»
Alexander sentì il cuore in gola.
«Sì?»
«Sì.»
Capì dal tono di lei che non vi aveva associato
parole piacevoli. «Avevo la febbre.»
«Lo so.»
«Certo, ma non mi sei ancora stata vicina
mentre sto male. Voglio dire... Prendi oggi: ero irritato e di cattivo
umore. Non gestisco bene le situazioni complicate quando sono
malato.» Forse si stava affossando da solo, perché
Ami si era impietosita.
Non poté accettarlo. «I sogni non sono lo
specchio della verità. Tirano fuori le sensazioni
più istintive, è vero, ma le acuiscono. Le
peggiorano.»
Ami si sedette sul bordo del letto, la mano che non smetteva
di sistemare la superficie della trapunta. «Anche io ero
spaventata per il bambino. Va bene esserlo o... essere sollevati che
non ci sia.»
Lui le aveva fatto dei discorsi nelle ultime settimane, fino
alla
fine di quella loro vicenda. Aveva detto e provato cose che non erano
false.
«La bambina di Yamato.»
Ami si voltò a guardarlo.
«Me l'ha fatta tenere in braccio. Lei piangeva
così
disperatamente... Non ero capace di calmarla. Soffriva e io non
riuscivo a fare niente. Non capivo. Non avevo tempo di prendere un
libro e informarmi, ma il fatto è che... Non penso che avrei
trovato la risposta giusta da nessuna parte. Shun ha detto che piangono
così, finché non gli dai quello che vogliono. Non
mi è piaciuto sentirmi impotente.»
Ami era rimasta in silenzio.
«Questa è la sensazione che hai sentito
nel mio sogno, qualunque cosa io abbia detto. Non ho mentito su quello
che provavo quando pensavamo ancora che ci sarebbe stato un bambino
nostro. È diventata un'idea più concreta ora che
ho visto un neonato da vicino. Non è un compito facile
crescerne uno, ma lo sapevo già.» In teoria. La
pratica lo aveva messo davanti ai problemi della realtà, ma
ora che stava di nuovo bene - ora che era di nuovo in forze - era
pronto ad affrontarla, se necessario.
Non si era mai detto che sarebbe stato un compito semplice, e
anche se
lui non fosse sempre stato in buona salute, avrebbe inghiottito il
caratteraccio con una dose di digestivo industriale e se la sarebbe
fatta passare. Con un loro bambino sarebbe stato diverso.
«Non ti avrei lasciato se me lo avessi
detto.»
Attonito, guardò Ami.
«Nel sogno ti lamentavi per essere rimasto solo,
dopo che io avevo capito cosa pensavi della situazione.»
Sospirò, addolorata. «Non devi essere
sempre gentile o accomodante. Non devi sempre farti forza da solo.
Se
qualcosa è difficile, puoi dirmelo. Non ti amerò
di meno se non ti comporti in maniera perfetta.»
... ma era difficile, pensò lui. «Non
stavo cercando di
assecondarti. Era importante anche per me.»
«Va bene. Però...» Ami
sorrise piano. «Mi piacerebbe conoscere anche i lati peggiori
del tuo carattere. Non cambierà quello che provo per te.
Sarà solo... un buon esercizio per entrambi. Mi
farò conoscere meglio anche io, così, quando
litigheremo, non ci sembrerà di avere a che fare con
qualcuno che non conosciamo.»
Era una cosa saggia. «Quindi da adesso in poi... ci
alleneremo a litigare?»
Ami era felice. «Se capita. Procediamo passo per
passo, ora che siamo solo noi due. Senza fretta,
okay?»
Certo. Però lei lo capiva così bene che
su quelle basi non c'era molto spunto per discutere di
qualcosa.
Ami abbandonò le pantofole sul pavimento e si
infilò sotto le coperte. Spense la luce sul soffitto.
Rimasero solo con il lume della lampada. «Nello spirito
dell'esercizio... Quando sono in ansia, non mi piace che usi la logica
contro di me. Non serve a calmarmi.»
Okay, l'avrebbe presa alla lettera. «Quando sei
in ansia, mi metti in ansia. Uso la logica per calmare me stesso. Con
te funzionano altri mezzi.»
«Altri mezzi?»
Si infilò anche lui sotto le coperte.
«Sì. Abbracci, baci...»
Ami riuscì a non sorridere e strinse gli occhi.
«A volte, quando sono seria, usi il senso dell'umorismo per
depistarmi. Sa un po' di presa in giro.»
«Ora stai mentendo. Per te sa soprattutto di
imbarazzo, no?»
«A prescindere, tu evadi comunque il
discorso.»
«Significa che non sono d'accordo sulla tempistica,
non che ho intenzione di saltarlo.»
Si sporse a spegnere l'ultima luce. Tra loro vi fu il buio.
«Quindi torneremo a parlare di come reagiamo quando
discutiamo?»
domandò Ami.
«Sì.»
«Quando?»
«Non ne ho idea. Quando ne avremo voglia.»
«Era questo che intendevo. Lasciati a noi stessi,
tendiamo ad andare d'accordo per abitudine.»
«Che reato.»
«Alex...»
«Sul serio, Ami.» Si divertì
troppo per non ridere. «Ci serve andare d'accordo.
Così potremo discutere meglio.»
Neppure lei riuscì ad obiettare a quella logica.
«Questa sera ho solo voglia di fare
questo.» Lui si spostò dal suo lato del letto e la
abbracciò forte, inspirando l'odore dei suoi capelli, il
profumo della sua pelle. La baciò dietro l'orecchio e
continuò in una scia, lungo il collo. Giunto alla clavicola,
mise più attenzione nel bacio.
Lei non stava rispondendo. «Sei impazzito?»
Eh?
Si staccò.
Ami sorrideva, incredula. «Non questa notte.
No.»
Fu lei a stringerlo, affondando con la faccia nella sua spalla.
«Questa notte ce ne staremo tranquilli, e io ti
ascolterò dormire. Ne ho bisogno. Ero immensamente
spaventata.» Inspirò contro il suo petto.
«Temevo di averti fatto del male.»
Lui cambiò umore. «Certo che
no.»
«Pensavo di nuovo di perderti.»
«Mi dispiace.» Per il fatto di averla
fatta sentire il quel modo, e per non avere idea di come fosse
potuto accadere.
Sapeva solo che adesso stava bene, forse meglio di quanto
fosse
mai stato in passato. Dopo essere stato moribondo e oppresso
dal dolore, si
sentiva... in equilibrio. Rigenerato.
Lo doveva a Mamoru Chiba.
Ami gli accarezzò la schiena. «A volte,
ti amo così tanto che ho solo voglia di... bearmi di te. Di
averti con me, di sentirti.»
Con parole come quelle, o solo esistendo, lei lo faceva
sentire in una maniera indescrivibile.
Ami si ritrasse un poco. «Invece, tu a volte mi ami
così tanto che... non hai voglia di stare solamente
abbracciati, no? Anche se te lo chiedo io.»
... c'era una risposta giusta a quella domanda? O era un
quesito a
trabocchetto?
«Era questo che intendevo dire» sorrise
Ami. «Non devi pensare a come rispondere, basta che dici la
verità.»
«Be', ma queste sono le mie strategie. Hanno una
loro
utilità, vedi? Ti divertono.»
Ridendo piano, lei lo abbracciò. «Ma
questa notte possiamo restare così?»
«Sì.»
«... anche se non vuoi?»
«Mi fraintendi. Io lo voglio sempre. Solo a che a
volte di mezzo mi va anche qualcos'altro.»
Non ebbe bisogno di vederla sorridere, seppe che lei lo stava
facendo contro il suo collo e le sistemò meglio il braccio
sotto la testa.
«Buonanotte» le disse.
«Domattina mi troverai ancora qui. Sano e in forma.»
Ami strofinò la guancia contro il suo petto.
«Buonanotte. Tu mi troverai qui qualunque cosa tu faccia.
Qualunque cosa tu dica. Finché vorrai.»
«Forever,
then?»
«Sì.»
«... Ho una lamentela.»
«Hm?»
«Mi scioglierò nella melassa se divento
ancora più sappy
mentre sono con te. Sono troppo sdolcinato, devi fermarmi.»
Risero abbracciandosi, quasi togliendosi il respiro.
Nella calma terminarono le risate, i pensieri.
Giunse il sonno.
FINE - 1 gennaio 1997
NdA: C'è un motivo dietro la 'malattia' di
Alexander. Cioè il fatto che non è una malattia.
Lo fanno intuire un poco i suoi sogni, in cui in particolare ricorda
cose che non avrebbe dovuto avere ancora in testa, in quanto cancellate
dalla sua
mente da Euthasia. Ma alla fine, da sveglio, Alexander in effetti non
ricorda nulla. Altrimenti forse avrebbe capito che gli è
successo un po' quello che è successo a Yuichiro durante gli
ultimi capitoli di Verso l'alba, poco dopo aver liberato la sua
energia. Nel caso di Alexander la cosa è stata
più violenta perché non ha avuto nessuno
a curarlo subito. Poteva morire? Sì.
Perché non è ancora pronto a subire
questo passaggio. Forse non lo sarebbe stato mai, ma la vicinanza
continua con Ami, che per via dell'ykeòs ha posato su di lui
il suo potere - che lo racchiude - di fatto continua a chiamare
l'energia che dorme dentro di lui, chiedendole di uscire. Sarebbe
meglio che non lo facesse, ma entrambi sono inconsapevoli in merito. E
lo resteranno per un bel po' di tempo.
Fa tutto parte dei miei deliri :)
Grazie di aver letto!
ellephedre