* Sing us the song of the century
louder than bombs and
eternity
the era of Static and
contraband
leading us into the
Promised Land
Tell us a story that's
by candlelight
Waging the war, and
losing the fight *
Vesti la giubba { S
o n g of the C e n t u r y }
*
Il grammofono nell'angolo
tossisce e graffia, inizialmente. Nella tuba a forma di corolla di
Clematide risuona un gargarismo di polvere. Per un attimo gli torna in
mente la fontanella che sputacchia e singhiozza nel cortile, mezza
intasata dalla presa della ruggine. A come l'ha spaventato, quel suono
piagnucoloso.
Anche
i sussurri della ruota legata alla quercia spoglia da tempi immemori
erano vivi, troppo umani, e hanno ottenuto su di lui lo stesso effetto.
È troppo tardi per scrollarsi di dosso l'abitudine, quando
ha fauci più strette di una tagliola? Sarebbe stato
più ottimista, un altro giorno, ora non lo sa.
Sono
altre, le urgenze. Più basilari. Più istintive.
-
“Cerca la Stella Polare. Sai qual è, vero? A New
York c'è troppa luce, non si vede mai,” dice Don,
e le sue mani rese nodose dalle penne trattenute in mezzo alle nocche
per anni volano sul bagaglio leggero. Ci mette dentro cose insieme
familiari e sconosciute. “Fa parte della costellazione Ursa
Maior. Orsa...”
“Maggiore,
lo so. Neh, Donnie, perché non lo ricordi a Raph?
È lui quello che nemmeno alza gli occhi al cielo, per paura
di prendersi una lucciola in faccia.”
Non gli
dice che non potrebbe mai dimenticarla, dopo aver letto American
Gods, con le tre Sorelle delle Stelle poste a guardia
dell'Orsa stessa.
Non gli
dice nemmeno che non vuole seguirla, quella dannata stella.
Non senza
di loro. -
Si
ferma. Perfino i topi tacciono, ai quattro angoli del solaio. L'eco
rimbalza tra le cime degli alberi, una volta, due, da capo.
Più vicino. Non ancora troppo, ma presto lo sarà;
questo, dicono i marchi che si allargano sulla sua pelle. Li sente
respirare, foglie mosse da un vento invisibile.
Ogni
ora ferisce, l'ultima uccide. Prima di allora, avrà chiuso
fuori il rumore, avrà scacciato la paura, sciolto la morsa
del panico.
Un
minuto. Un minuto da umano è tutto quello di cui ha bisogno.
Con
infinita delicatezza, solleva la puntina e l'appoggia sulla superficie
nera e piatta del vinile. Il grammofono gracchia ancora.
Dalla
corolla sgorga un nettare di note, crudo, e tuttavia infinitamente
dolce, struggente.
Recitar!
Mentre preso dal delirio
non so
più quel che dico e quel che faccio!
Eppure
è d'uopo...sforzati!
Bah, seti
tu forse un uom?
Tu sei
Pagliaccio!
“Pagliaccio,”
bisbiglia. La fattoria scricchiola e freme insieme alle sue labbra
spaccate. Michelangelo avverte il sapore acre del sangue dilagare, rosso,
rotolargli lungo il mento, nero, e cadere a macchiargli la coscia
raccolta. Il dolore è una stilettata che gli riempie di sale
la bocca. Inspira e si gonfia il petto di aria vecchia, profumata di
legno. Ha il torace compresso.
L'inchiostro
sale.
Fa fremere il Segno, ancora sigillato.
-
“Vorrai ma non devi,” dice Leo, e le sue mani
indurite dai calli passano in rassegna le mappe del territorio di
Northampon. Le legge a palpebre chiuse. Il seme è
germogliato sulla sua fronte, i primi tralci già si
allungano sui suoi zigomi. Don ha previsto che quando
sboccerà, il Segno lo farà sui suoi occhi.
Nessuno di loro vuole pensare a quale saranno le conseguenze.
“Che
cosa significa?”
“Non
lo so. È quello che mi dice la carta. Vorrai, ma non devi.
In nessuna circostanza, finché non sarà finito
tutto, non lo fare.”
Non gli
parla del nodo di angoscia che gli ha fermato la voce in gola.
Non vuole
ammettere che quello stupido seme, la causa della loro rovina,
è riuscito a leggergli nell'anima.
Leonardo
lo guarda. La cataratta ha proiettato un'ombra sulle sue iridi color
ambra.
“Non
tornare indietro. Mikey, ti prego, non lo fare – se anche uno
solo di noi incontra l'altro...”
Cadrà
il mondo?, vorrebbe rispondere. Peccato che la risposta sia
sì.
Sì,
sì, sì. Sì. -
L'urlo
si ripete. Stavolta, il riverbero squassa la terra, scatenando
un terremoto su scala ridotta. Michelangelo abbassa lo sguardo
e si costringe a guardare il bocciolo, tra un respiro strozzato e
l'altro. Il suo fiore innominato, non ancora sbocciato. Annidato sulla
sua spalla.
“Ti
prego, ti prego, ti prego, tienilo lontano. Da solo non ce la
faccio.”
Il
terreno intorno alla fattoria trema -
no, palpita
-
trema.
Lui
e i suoi fratelli sono camere separate di un unico cuore, destinati a
non incrociarsi finché non saranno tutti completamente
svegli. Non verrà nessuno in suo aiuto.
Ha quattordici anni appena, e sta per affrontare la peggiore delle sue
paure.
Si
preme il dorso di una mano sulla bocca. L'altra, la posa sulle nunchaku.
Il
grammofono, pietoso, continua a suonare.
Vesti la
giubba, la faccia infarina
La gente
paga e ridere vuole qua.
E se
Arlecchin t'invola Colombina,
ridi,
Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in
lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una
smorfia il singhiozzo e 'l dolor.
- Questa
è l'ora in cui dimostrare quanto siano forti i vostri
artigli, e affilate le vostre zanne.
Raphael
non parla.
Guarda i
bagagli, gli zaini ammucchiati in un angolo, e il suo respiro
è flebile come mai prima. La lampada appesa al soffitto
dondola, un organo collegato ai muscoli da un semplice fascio di vene e
tendini.
La luce
va, e di lui si vedono sprazzi. Gli occhi sbarrati dietro la bandana
rossa. Il pallore delle sue nocche, strette su sai troppo grandi per
lui. La smorfia che gli scava il viso, ancora, di più.
È l'unico a non gemere, l'unico a non farsi sfuggire nemmeno
un suono. Il suo corpo parla, grida, piange per lui. Sono vicini,
vicinissimi, schiacciati l'uno contro l'altro, addossati al muro.
La luce
scappa. Sprofondano nel buio.
Tutto
ciò che gli dice che non moriranno qui, che non
finirà prima ancora di cominciare, con loro intrappolati
nelle fogne come topi, è la risonanza del brivido di Raph.
Corre
avanti e indietro tra loro, e dice che sono entrambi ancora vivi. -
È
qui. È arrivato.
Il dolore si è
fatto tanto intenso da scuotergli le ossa. Lancia stralci di radici sul
pavimento e la fattoria intera risponde, chiudendosi su di lui. Ombre,
assi, muri portanti, pavimenti sfondati.
Da
fuori arriva il lezzo del mostro. Preme sulle vetrate sfondate come le
centinaia, migliaia di mani delle vittime mietute sul suo cammino, da
New York a Northampon.
Con
un fruscio, il bocciolo si schiude. Un grappolo di infiorescenze
delicate freme nella penombra. Bianche, con i bordi picchiettati di
purpureo. Tra le piaghe livide che chiudono un'aureola intorno
all'impianto del seme, sembrano infinitamente fragili.
Tsuta.
Poison Ivy.
Non
fa soffrire di meno, non caccia il tremito incontrollato che si
è insinuato in lui. Rabbrividisce, e le fondamenta della
fattoria rumoreggiano, minacciose.
Il
respiro della divinità sfonda il tetto, freddo. Sa di acqua
ferma, tempeste, oceani salati e immensi. Sa di minaccia e di furia.
E
tuttavia, quando mai l'Edera ha temuto qualche goccia
d'umidità?
Ridi,
Pagliaccio, sul tuo amore infranto,
Ridi del
duol che t'avvelena il cor!
Questo
posto disumano crea mostri umani.
A
un lungo miglio da casa, Hamato Michelangelo si prepara a combattere.
*
* They're playing the song of
the Century
and it gets promises and
prosperity
tell us a story into that good
night
Sing us a song
for me *
Song of the Century,
Green Day - Vesti la
Giubba, Ruggero Leoncavallo.
N/A
Premetto che questa one
- shot doveva essere tutt'altra cosa. Come si può intuire
dall'ambientazione, è la conclusione del ciclo di Northampon
che ho iniziato con Crystallize - eppure se n'è discostata
di molto, tutto per colpa della Fan Fiction long che sto scrivendo
sulle TMNT da un po' di tempo a questa parte. Si tratta di
un'Alternative Universe, di cui questo vuole essere una sorta di
prologo. Non appena avrò accumulato capitoli a sufficienza,
comincerò a pubblicarla anche qui.
Per il resto...non mi
sento di spoilerare più di tanto xD come avete potuto
leggere, le tartarughe sono molto più giovani, in questo
episodio. Separati, ognuno portatore di un Segno - che sarà
mai? Ioooo non so niente *firulì, firulà* - e
ognuno nei guai fino al collo.
Spero di aver
incuriosito i lettori almeno un po'.
Kei
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