Paura del buio

di Meco
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Paura del buio





Prefazione
 
 
‘Paura del buio’ è una storia scritta a otto mani da quattro studenti liceali di Ferrara. Chi più e chi meno ha lavorato e reso questa storia quello che è ora, pertanto il merito, anche se non del tutto meritato, va a tutti e quattro. La storia è ispirata dalla famosa canzone degli Iron Maiden ‘Fear of the dark’ (sentitela, ne vale la pena) che racconta di un uomo acluofobico durante una passeggiata in un parco. Noi abbiamo provato a immaginare da dove potesse derivare questa sua paura analizzando la sua via attraverso numerosi flashback e i suoi stessi pensieri.
Non abbiamo molto altro da dire a riguardo, perciò vi auguriamo una Buona lettura.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
I am a man who walks alone
And when I'm walking a dark road
At night or strolling through the park
 
When the light begins to change
I sometimes feel a little strange
A little anxious when it's dark
 
 
Acluofobia. Questo è il nome. Il nome di ciò che mi disturba, la cosa che blocca ogni mio pensiero, la cosa che non mi fa vivere. Così la chiamano gli esperti, gli strizzacervello. Coloro che ti ascoltano stando in silenzio, non ascoltando per davvero, ascoltando come se ci fosse un muro tra il paziente e la loro calda poltrona su cui siedono, un muro di pregiudizi.
Siamo tutti malati, secondo loro, che credono di essere perfetti. Noi siamo solo problemi da risolvere, ma si sa che alcuni problemi sono difficili: me li immagino… “Un bambino diventa adulto, senza aver mai conosciuto i suoi genitori e adottato da una prostituta e da un operaio, non ha un lavoro, è violento e paranoico. La moglie lo odia e i figli lo disprezzano. Trova il disturbo di cui Bruce soffre, sapendo che il padre è morto poco dopo averlo adottato.” E come i problemi di matematica che non vengono, anche questo viene saltato per passare al successivo.
“Lei è acluofobico, ha paura del buio.” Questo il responso di uno di loro, gli strizzaportafoglio. Duecento pounds finiti nel cesso. Duecento fottute sterline che dovrò spendere ancora. Ancora, “Finchè lei non sarà guarito”.
 
Fear of the dark, fear of the dark
I have constant fear that something's
always near
Fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's
always there
 
“Vede Mr. Dickinson, di solito questa fobia si manifesta nei bambini, molto raramente negli adulti, talvolta ingiustificata. Deve aver subito un trauma in età puerile. La prego, racconti.”
Ingiustificata.
Pagherei dieci volte l’oro di Eldorado per far sì che la mia paura sia ingiustificata, pagherei venti volte il capitale di un petroliere per evitare che una qualsiasi anima innocente passi ciò che passai io.
 
 
Oggi pomeriggio nuovo psicologo. Speriamo abbia il naso più molle, ho la mano ancora ingessata dall’incontro, primo e ultimo, con lo stronzo dell’altro giorno.
 
“Mr. Dickinson, verrà affidato ad un altro psicologo. Non si azzardi a toccarlo questa volta, o la sbatterò in carcere immediatamente!”
Giudice di merda.
 
“Buona sera Bruce, come va?”
Nessuna domanda poteva essere più inutile di questa. Chi cazzo è per parlarmi così, al primo incontro?
Lo studio era accogliente, certo, per un qualsiasi letterato lo sarebbe stato: una libreria sovrastava la parete ricoprendola interamente, piena zeppa di cartastraccia, detta libri, mentre sulla parete opposta si stava impolverando una copiosa collezione di riconoscimenti, premi, specializzazioni, tutte a fare da cornici alla sua laurea, che citava così:
 
 
Il rettore dell’Università Robert Smeticle
è orgoglioso di conferire la laurea a Walter Hillone
dimostratosi diligente e persistente
nel raggiungerla.
 
 
“Allora, tutto bene?” disse, dalla comodità della sua larga poltrona bordeaux. Mi prudeva la mano.
“Mi presento, sono il dottor Walter Hillone e da oggi in poi, lei sarà mio paziente. Ho studiato nella migliore università dell’intera Gran Bretagna, ho vinto premi, tengo costantemente lezioni nella stessa università in cui mi sono laureato, partecipo a conferenze internazionali ed ho lavorato con le più grandi multinazionali. Vado a cavallo e nel tempo libero faccio lo psicologo.” Un ghigno gli apparve sulla bocca, doveva essere una battuta.
“Starà con me finché la sua fobia non sarà perfettamente superata, allo scopo di ritornare a fare una vita normale, come la mia”
Continuava a prudere.
“Perciò, ora le racconterò un po’ di me”
Il suo volto tumefatto, attaccato al muro. L’unico pensiero in un’ora di presentazione, pagata ovviamente, per sentirmi dire da un uomo di mezza età, con le prime canizie, di quanto fosse “il miglior psicanalista ora in circolazione”.
Fottiti.
 
 
“Alla prossima settimana, sia puntuale.”
 
Entrai. La stessa faccia di chi ha preso botte in faccia tutta la vita e continua a prenderle.
“Oggi possiamo iniziare la nostra prima seduta. Ho letto accuratamente la sua cartella: lei è orfano, ha vissuto anni in orfanotrofio finché una prostituta e il marito non l’hanno adottata. Lui è morto…”
“Lo so, conosco la storia.”
“Prova rabbia, rabbia che esce in ogni momento della sua odierna vita, ma la rabbia copre ciò di cui ha davvero paura, una paura che si porta dietro da quando era ancora all’orfanotrofio. La prego, continui lei la sua storia, racconti…”
Sospirai, reticente.
“… Basandomi sui miei ricordi e sulle poche informazioni che ho potuto apprendere dalle fredde parole di Suor Elizabeth, io ho vissuto praticamente ogni misero giorno della mia vita segregato all’interno dell’orfanotrofio “Saint Mary”.
Sembra difficile da credere ma non mi viene in mente nessun ricordo positivo, nessun momento felice passato in questa bettola che fanno passare per istituto per bambini disagiati, rimasti senza genitori.”
I ricordi presero il sopravvento.
“I modi con cui le responsabili delle scuola, le figlie di Dio, le elette dal signore, trattano me, sono gli stessi con cui vengono ripetutamente umiliati ed offesi più di cento giovani ogni “santissimo” giorno. Qui devi subire anche se apparentemente non hai commesso nessuno sbaglio, tutto si basa su come quelle suore del cazzo si sono alzate la mattina. Le molestie ed i pestaggi iniziano circa quando un bambino raggiunge i quattro anni di età e finiscono … Ah no, non finiscono mai.
Dal mio canto, non posso dire di essere un santo e la maggior parte delle volte mi sono meritato la mia razione di botte: risse, insulti, piccoli atti di vandalismo erano il mio pane quotidiano, ricordo che una volta bestemmiai in faccia alla madre superiora: dovevate vedere la sua espressione inorridita, fin quando non la sentii io bestemmiare. La mia follia più grande, però, la feci un giorno di quasi quattro anni fa, quando decisi di esplorare a fondo l’edificio, si diceva infatti che in una misteriosa mansarda le suore avessero una specie di magazzino per i giocattoli, che a noi non era possibile utilizzare, ovviamente sarebbero andati contro ogni principio cristiano. Logicamente non era possibile girovagare per la scuola (né tanto meno in mansarda) senza un valido motivo, così provai a fingermi malato per poter rimanere a letto e non assistere alle pallose lezioni di grammatica e letteratura. Con una botta di culo riuscii a cavarmela nella prima parte del mio piano: uscire dalla camerata, stile Auschwitz, e percorrere il corridoio fino alla porta della soffitta.
Fu, tutto sommato, una passeggiata, infatti a quell’ora non c’era nessuno all’ultimo piano del “Saint Mary”.
Aprii cautamente la porta ed ebbi un sussulto quando sentii un rumore di passi avanzare velocemente sul pavimento cigolante. Mi affrettai ad entrare e richiudere la porta alle mie spalle.
Lo spettacolo che mi si parò davanti non fu uno dei più rassicuranti: una lunga scala a pioli di vecchia data infilata in un buco del pavimento separava me e la mia meta. Pensai di rinunciare, ma bramavo troppo il paradiso di balocchi che stava lì, a pochi metri nella BUIA mansarda.
Salii piano cercando di non emettere nessun suono e così facendo mi ritrovai in piedi cercando di distinguere qualche forma all’interno di quella stanza. Feci solo qualche passo in avanti quando la botola si richiuse con un tonfo dietro di me. Tutto si fece più tetro ed oscuro, provai invano ad aprire l’unica via di salvezza. TUTTO INUTILE. All’improvviso delle ombre spaventose, uscite dal nulla, mi circondarono e giurerei di aver sentito delle voci che sussurravano il mio nome.
Mi prese un attacco di panico e mi misi ad urlare con tutto il fiato che avevo in gola.
Così iniziò il tutto.
In una fredda mattina d’autunno cominciò la mia battaglia contro l’oscurità ed i pericoli che nasconde.
Non passò molto tempo, forse pochi  minuti che a me sembrarono un’eternità, ed ecco che con un boato la botola si aprì e la luce sfiorò di nuovo i miei occhi.
“Finalmente qualcuno mi salverà”, ingenuamente pensai. Vidi la sagoma di Suor Elizabeth stagliarsi davanti a me con in mano la sua personale bacchetta (serve ad espiare i peccati, no?) e la sentii tuonare: “Maledetta quella cagna che ti ha messo al mondo”. Qualche secondo dopo provai con mano l’efficienza di quello strumento fino a perdere i sensi.
Mi risvegliai in infermeria con un occhio gonfio ed un sacco di lividi sul corpo. Quella bravata mi costò un mese di razioni di cibo dimezzate, ed in modo inversamente proporzionale, il doppio di compiti da svolgere. La cosa peggiore non fu, purtroppo, questa. Dopo la mia esperienza nelle soffitte del ‘Saint Mary’ iniziai a convivere con quella paura che mi avrebbe accompagnato per il resto della mia vita.”
 
 
 
“Non lasciare che il buio ti avvolga, perché se glielo permetti non ti lascia più.”
 
 
 
 
Ricordo bene quella notte in cui non dormii. La mia mente era persa nell’immaginare la mia vita futura. Migliaia le domande: vivrò fino all’adolescenza? Alla maggiore età? Dove vivrò? Con chi? Fino a quando rimarrò qui dentro?
Ormai dopo tanti anni abbandonato in quel postaccio di merda tutti sapevano che non avrei avuto grandi speranze.
Ed ecco che Suor Margaret con la sua vocina stridula arrivò a svegliare la mia camerata con uno dei suoi pessimi urli: «Svegliatevi luridi sacchetti di merda! Inutili bambini, giù dalle brande mocciosi puzzolenti!»
Ed ecco che la suorina si diresse verso la mia brandina urlandomi contro: stavolta dovevo averla combinata grossa perché lei se la prendesse con me.
La colazione fu la solita merda mattutina, anzi mi diedero una porzione di poltiglia lattosa ancora più piccola del solito.
Ma la cosa strana accadde dopo le pallose lezioni delle suore.
La novità fu l’entrata nell’inferno di due angeli, quelli che qualche tempo dopo sarebbero divenuti i miei genitori. La mia attenzione si posò immediatamente sulla mia nuova madre; mi aspettavo che assomigliasse alla priora, invece era decisamente più appariscente (il seno, quello sì che era appariscente!). Per questo la priora la odiava. Lei, bassa, tozza, con il volto martoriato dalle rughe. Lei, alta, snella e ancora giovane. Lei, abietta, inflessibile e armata di righello. Lei, dolce, gentile e armata di fascino. Tutto il contrario del ruolo di donna che la priora incalzava così bene. Indossava scarpe con tacchi a spillo, di un rosso molto acceso (per slanciare ancora di più le lunghe gambe) correlate ad un paio di calze autoreggenti nere. Più in alto indossava una gonna di pelle nera abbastanza ristretta con un maglioncino molto scollato dello stesso colore delle scarpe, aveva capelli biondi evidentemente tinti (poiché si notava la ricrescita che comunque le donava fascino). Quelle scarpe le davano una postura strana che metteva in evidenza la sua età abbastanza avanzata per quel modo di vestirsi, si chiamava Suzanne, detta "Sue" da quelli che la conoscevano da tempo, e che la frequentavano da tempo. Dopo aver contemplato quello strano soggetto notai anche l'altro mio genitore: aveva un aspetto diametralmente opposto rispetto alla consorte. Un uomo umile e pacato, capace di amare. Si vedeva che il loro denaro non abbondava, ma erano poveri solo nelle tasche, non nello spirito, talmente abbondante da donarne un po’ a un bambino, se solo avessero potuto averlo.
Entrarono nello studio della superiora e parlarono per circa tre quarti d’ora, prima che li fecero uscire per concedere loro una veloce occhiata a noi bambini. Neanche mi balenò in testa l’idea di poter essere adottato. A dire il vero, nessuno provò a pensarlo. Le urla, le grida e gli insulti delle suore si erano già impresse dentro noi da molto tempo.
Non verrete mai adottati. Chi vi vorrebbe mai? Bambini rachitici e impertinenti. Lo scarto dello scarto di questo schifo di paese.” Tipico ritornello di Suor Diana, che di principesco non aveva proprio niente.
 
 
 
*****
 
 
 
Cammino, cammino da solo nel parco. Nel parco… Mia madre, nel parco.
 
 
 
*****
 
 
 
“Vieni Bruce, siamo in ritardo.” disse col suo solito sorriso.
Con quel sorriso nessuno avrebbe mai sospettato di lei e del suo lavoro. Mia madre era una donna che stregava chiunque, con quel sorriso.
“Bruce, muoviti!”
 
 
Arrivati nel parco, c’era già un uomo ad aspettarla. Non era uno dei soliti però. Lui era sicuro, arrogante, potente. Con la sua pelliccia, gli anelli, la sigaretta in bocca, le rughe sul viso e l’occhio sempre spento.
“Sue! Sei ancora in ritardo. È la quinta volta questo mese!
“Ho un figlio a cui badare. Tutte le spese. E senza macchina arrivare qui non è semplice.”
“Cosa?”
L’uso di quelle caramelline blu l’aveva reso mezzo sordo ormai.
Prima che potesse rispondere, lui le tirò uno schiaffo. Provai a difenderla, ma l’uomo mi allontanò con un calcio dritto nello sterno. Il dolore era niente, paragonato a quello della donna. Lei, che sapeva di non poter reagire, chiese scusa e andò a lavorare prendendomi per la mano.
Sotto la luce fioca di un palo, all’altezza della casa rossa al numero 22 di Acacia Avenue.
Dietro al palo c’era un parco, un enorme parco. Non un parco in cui giocano i bambini, ma un parco in cui adulti giocavano con le siringhe. Ed è in questo parco, in cui accadde tutto.
Mezz'ora dopo lo schiaffo, arrivò il primo cliente: Gim. Un operaio all’industria petrolchimica in forte crisi matrimoniale, con due figli e un’ossessione: mia madre e il suo rossetto rosso.
Era da molto che non si vedeva in giro.
Mi sarei ricordato sempre la sua faccia da cane vecchio e abbandonato, ancora in grado di mordere.
Si diceva essere stato ucciso per debiti, finito in una spirale di droga… solo voci, forse. Comunque, Gim, quella sera, era più strano del solito. Diffidente, paranoico, nervoso.
“Hey Gim, tutto bene? Facciamo il solito stasera?” disse lei, in tono gentile.
Gentile per natura.
Lui bofonchiò qualcosa. Solo tre denti nella sua bocca.
“Dai allora, iniziamo. Oggi il guanto lo offro io, ok?”
Andarono nel parco. Io da solo ad aspettare.
Ogni volta che mi lasciava era vero terrore.
 
 
Have you run your fingers down the wall
And have you felt your neck skin crawl
When you're searching for the light?
Sometimes when you're scared to take a look
At the corner of the room
You've sensed that something's watching you
 
 
La già debole luce del lampione diventava quasi impercettibile, d’un tratto si spense.
Buio.
Paura.
Il terrore che provo ormai tutti i giorni, lo provai per la prima volta quella notte.
“Mamma!”
Niente.
“Mamma, dove sei?”
Nulla.
“Mamma, ho paura.”
Silenzio.
Arrivò quello che stavo aspettando, ma non come lo stavo aspettando: “Bruce!”
Mia madre che urlava, difficili da dimenticare le sue urla, così forti, così soffocate, mentre il buio continuava a circondarmi imperterrito, beffardo, come se io avessi paura... Ma io avevo paura. Di cosa mi stupivo? Il padre morto, rimasti senza soldi, vendere il corpo di mia madre era l’unica soluzione ma ero ancora troppo piccolo per capire la situazione.
Poi lo stupro… Non so le altre volte quanto Sue possa essere stata consenziente, ma dopo quella volta le cose continuarono a degenerare.
Tutte le sere sulla faccia di quel Gim le occhiaie abbondavano sempre di più, i suoi occhi diventavano sempre più rossi mentre le sue mani, ricordo bene il tremolio di quelle mani.
Era evidente che quelle “caramelle” scure non lo rendevano migliore mentre i soldi con cui pagava mia madre puzzavano di fumo.
Spesso ho pensato alla famiglia di cui un’unica volta lui aveva accennato, ma chissà che fine gli aveva fatto fare, chissà che fine avrebbe fatto fare a Sue.
Credo di essermi addormentato sotto una panchina in quel momento, ancora avvolto dal buio, rassicurato, se così si può dire, dal muro che mi stava dietro, mentre il vento tra le foglie mi cantava una ninnananna allontanando le urla della donna.
 
 
 
*****
 
 
 
Have you ever been alone at night
Thought you heard footsteps behind
And turned around and no one's there?
And as you quicken up your pace
You find it hard to look again
Because you're sure there's
someone there
 
La fredda luce del sole di novembre andava scemando nel parco.
Perché? La luce illumina, scalda, rallegra. È essenziale, per tutti. Il buio no. A cosa serve? Vedi tutto nero, non sai cosa c’è dietro.
Assassini, ladri e prostitute lavorano al buio, i tossici stanno al buio. La luna sta al buio… la luna. Ecco, l’unica cosa che vorrei ancora vedere sarebbe la luna: bella, bianca, irraggiungibile, luminosa, la si vede solo di notte. Impensabile, impossibile.
Chi cazzo può aver pensato di far vedere la luna solo di notte?
 
“Chi c’è?”
Un fruscio in mezzo alla siepe.
 
Manca poco a casa.
 
Le prime stelle.
Il sole dietro agli alberi.
La strada rossa e i pensieri neri.
 
Sto arrivando.
La porta.
Eccomi.
 
Cinque passi.
Il primo scalino.
Tre.
Maniglia.
Uno.
Il buio dietro.
Casa.
 
 
 
*****
 
 
 
“Buongiorno Bruce, come sta oggi?”
Ancora convenevoli.
“Iniziamo. La prego, basta domande inutili, mi seccano e mi rendono nervoso.”
“Certo, mi scusi.”
Mentiva.
“Vorrei sapere di più sulle suore e magari anche sul giorno dell’adozione.”
“Ero felice, quel giorno. Avrei finalmente abbandonato quella fogna che fino ad allora era stata la mia casa, sempre che così si possa definire. A dire il vero fino a quel momento il termine casa stava a indicare un tetto (non a prova di pioggia) sotto cui dormire e la mia famiglia era composta da un’accozzaglia di altri bambini: non sopportavo quelli piccoli perché erano solo degli stupidi piagnucoloni e non sopportavo quelli più grandi perché erano solo dei prepotenti.
 Le suore poi, ci trattavano come se fossimo stati dei rifiuti ambulanti, ci odiavano senza mezzi termini, nessuna mostrava un briciolo di pietà verso di noi, dall'ultima arrivata fino alla badessa, ci trattavano allo stesso modo, come delle merde, senza alcuna distinzione tra noi: se non altro erano imparziali. Ma questo era il mondo come mi appariva dato che non ero praticamente mai uscito dall'orfanotrofio. Fin da subito ci era stato inculcato nella testa che il mondo al di fuori dall'orfanotrofio era un posto pericoloso per noi perciò per il nostro bene non dovevamo uscirne  (solo in seguito capii che ci dicevano ciò per scoraggiare una nostra eventuale fuga). Mi fu detto che sarei stato adottato.
Adottato? mi chiesi.
Che significa adottato? Non avevo ma sentito quella parola fino ad allora, così ne chiesi timidamente il significato e mi fu detto che sarei andato a vivere con una nuova famiglia.
Il giorno dell'adozione fui svegliato all'alba per essere lavato e vestito decentemente, per fare colpo sulle persone che mi volevano adottare, inoltre mi fu spiegato che avrei dovuto comportarmi bene e il più educatamente possibile.
Mentre percorrevo il corridoio del dormitorio mille domande ronzavano nella mia testa come api arrabbiate, mi rimasero anche impresse le facce dei miei compagni di camera, che mi guardavano per l'ultima volta e forse invidiavano la mia buona sorte. Giunti nella saletta di ingresso (molto simile alla foresteria di un monastero) vidi la priora e due persone sconosciute e in quell'istante mi fu detto: “Bruce, questi sono i tuoi nuovi genitori”.
Ero contento di scampare da quel posto.
I due mi accolsero immediatamente, credevo di stargli simpatico.”
Intanto scriveva. Chissà cosa capiva della mia vita.
“Continui. Mi dica del rapporto con i suoi genitori.”
I miei genitori. Quali? Quelli finti, che mi abbandonarono in un orfanotrofio non lasciando una minima spiegazione del perché? Coloro che mi hanno privato di una vita normale affidandomi ad un branco di zitelle innamorate di uno spirito, lo stesso spirito che afferma la fratellanza, la gioia, il perdono e l’amore per il prossimo, e che quelle persone dovevano farci conoscere dandoci solo violenza, insulti e botte? Gli stessi che abbandonandomi mi hanno privato di un’infanzia normale, come quella di tutti gli altri bambini?
O i veri genitori? Quelli che mi hanno accolto in casa loro? Seppur in difficoltà, mi hanno cresciuto ed educato (quel minimo bagliore di un giusto comportamento l’ho appreso da loro). Sono senza dubbio loro i miei genitori. Odio mia madre e mio padre, ma amo i miei genitori.
“Mi portarono a casa, in periferia, non lontano da dove operava mia madre e un poco più distante dalla fabbrica di mio padre.
L’interno era spoglio, arricchito solo di quel poco che si potevano permettere e che mi bastò per crescere senza farmi mancare l’essenziale. Avevo anche una piccola camera: il letto sul lato sinistro, un piccolo comodino su cui appoggiare i pochissimi vestiti e una malmessa scrivania di fronte quest’ultimo. La finestra si affacciava su un albero secco, tenuto in piedi da un lampione, che a stento restava inchiodato alla strada.
La cena non era tanto differente dall’orfanotrofio, ma era cucinata con amore. Si notava la differenza: le poche verdure amare sembrano più dolci.
Finita la cena, doccia molto veloce e mio padre che attaccava subito col turno serale. Ci salutò, scusandosi per non essere stato di più con me quel giorno e baciava la moglie. Presto questa sarebbe diventata routine, non la solita a cui venni educato in orfanotrofio, fatta per lo più di umiliazioni, ma di un senso di un’unione tra tutti noi.
La stessa sera, dopo che mio padre uscì, mia madre entrò nella mia stanzetta.
 
 
 
*****
 
 
 
Watching horror films the night before
Debating witches and folklores
The unknown troubles on your mind
Maybe your mind is playing tricks
You sense, and suddenly eyes fix
On dancing shadows from behind
 
 
 
“Ti piace qui?”
Annuii.
“Com’è papà?”
“Bravo. Ti vuole bene”
“Ne vuole anche a te. Ti abbiamo desiderato per molto tempo, dalla prima volta che vedemmo i tuoi occhi malinconici, che sotto svelavano un bambino speciale. Non importa ciò che ti si diceva in quel postaccio, lì l’amore non esiste e non si può provare. Sei importante. Sei forte. Se solo lo vorrai, potrai fare ciò che vuoi. Noi ti vogliamo bene e ti staremo sempre accanto.”
Non ci avrei messo molto a chiamarla ‘mamma’.
Sorrise e mi scese una lacrima.
“Adesso non piangere”, un altro sorriso.
“Ora devo andarmi a preparare. Tu ora dormi. Sarò di ritorno tra poche ore. Buona notte.”, terzo sorriso in pochi attimi.
“Buona notte, mamma.”
Uscì e chiuse la porta dietro di sé.
‘Non più solo, adesso qualcuno mi vuole bene e mi tratta come deve essere trattato un bambino. Chissà cosa faremo domani? Voglio vedere com’è fuori dalle quattro mura. Voglio fare un giro, giocare, riposarmi cullato dalle loro voci e mangiare un gelato, pensai prima di addormentarmi.
 
 
Boom!
 
Un forte rumore da fuori dalla finestra che mi svegliò. Probabilmente qualcosa di rotto dal forte vento che aveva preso a tirare. La poca luce del lampione era spenta, inesistente.
Cos’è questo buio? Perché è così scuro in questa stanza?
Le luci della notte avvolgevano la casa. Nonostante fosse notte, il quartiere era ancora vivo. Persone che passano, borbottano tra loro di alcune dosi e soldi. Macchine che passano in continuazione, le cui luci creano un’ombra. Una grossa mano, con dita sottili e lunghe sembrava volesse prendermi, ma poi scomparse.
Ecco che si riaccese la luce.
Peggio.
La mano rimase lì, ferma, in procinto di prendermi.
Mi misi sotto le coperte (strumento brevettato da tutti i bambini del mondo per proteggersi da mostri, assassini, ladri, trafficanti d’organi e di bambini, e, per i piccoli disagi del Sant Mary, ottimo rimedio anti-suora).
Meglio.
‘Se mi hanno protetto anni dalle mani callose delle suore, perché non dovrebbero proteggermi dalla Mano?’
Molto meglio. Iniziai a riprendere sonno.
 
Tock.
 
Tock.
 
Tock.
Fear of the dark, fear of the dark
I have constant fear that something's
always near
Fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's
always there
 
A intervalli regolari.
Stava bussando, e voleva entrare a prendermi. Alzando la testa uscii dalle coperte. La mano era lì, ma aveva smesso di bussare. Ripresi velocemente sonno (tecnica imparata all’orfanotrofio come per prevenire le bacchettate sul culo nel caso i mastini ci avessero trovati svegli).
 
In un campo. Il caldo sole di maggio scalda il terreno quasi completamente asciutto dopo le abbondanti piogge primaverili. Passeri in amore cantano, le api fanno il miele, le farfalle colorano. Seduti noi tre su una tovaglia sporca del cibo che ci cade dalla bocca.
 
Tock.
 
Tock.
 
Tock.
 
Era tornata.
 
 
*****
 
 
 
“Sa dottore, professore o non so cosa… Adesso che ci penso credo davvero di soffrire di questa… ‘acluofobia’. Ogni mio ricordo rimanda al buio, a quell’ombra, a quell’uomo.
Ma cosa ci posso fare? Come posso guarire ormai? La mia vita è quasi finita, cosa potrei davvero fare per salvare me, salvare mia moglie, i miei figli?”
Ovviamente la risposta fu:“Sono duecento pounds Mr.Dickinson, è scaduto il tempo a sua disposizione, ci vediamo la settimana prossima.”
Psicologi, non capisco proprio a cosa servano: tanti anni di studio, le lauree, i riconoscimenti, le ingenti somme con cui pretendono di essere pagati, per fare cosa? Credo che siano proprio loro stessi a riempire le case di cura per malati mentali. Era proprio per la povertà che ero finito in quello studio, ed ancora più povero ne sono uscito.
A lui cosa importa? Per i medici la vita è più facile distanziandola da quella dei pazienti, tornando a casa con un sorriso nonostante il loro ultimo paziente sia morto.
Così, cercando di calmarmi svuotai il portafoglio, riempiendo le tasche dell’uomo a cui non importava curarmi, imboccai la porta mentre fuori il sole era già più basso dell’orizzonte che si faceva sempre più scuro.
Una strana melodia strava entrando nel mio cervello, una di quelle melodie da carillon, di quelle ripetitive, con note acute, che servono a farti addormentare ma non fanno altro che riderti dietro urlandoti ‘pazzo’ in faccia mentre le tue pupille si dilatano, mentre ripensi alla tua famiglia senza ricordarti che non hai più nessuno, perché il buio te li ha portati via, la notte te li ha strappati dalle braccia, la morte aveva fame ed è stata accontentata.
Ed è proprio così che torni a casa, o forse non ci arriverai mai a casa, camminando per quella lunga strada, in una notte stellata, sognando le risate dei bambini che mai hai udito, ricordando la dolcezza del sorriso di quella che era tua moglie prima che tu impazzissi, sperando semplicemente di incontrare qualcuno o qualcosa in una di quelle notti che ti lasciano senza speranza.
 
 
 
When I'm walking a dark road
I am a man who walks alone
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringraziamenti
 
 
Adesso direte: “Ma cosa può aver mai spinto quattro studenti a scrivere una cosa del genere? Non hanno già abbastanza materiale da studiare?”
Beh, in realtà sì, ma la scrittura di una storia era un compito assegnatoci dalla nostra professoressa di italiano, Mirya, persona che tutti noi stimiamo e ammiriamo tantissimo. Senza questo compito, all’inizio parsoci tedioso, ma rivelatosi divertente e liberatorio, non avremmo mai apprezzato l’arte della scrittura. Mirya, o ‘prof’ per noi, oltre ad averci assegnato il compito, ci ha anche invogliato a pubblicarlo su questo sito, da noi sconosciuto fino a inizio anno scolastico, dopo averci lodato per il lavoro svolto. Pertanto, l’unico e sentito nostro ringraziamento va a lei, considerata da noi studenti,  più un’amica, che una professoressa.
Grazie.




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