Racconto20 - Sono quei cosiddetti incontri che ti cambiano la vita.
Capitolo 1.
Sono quei cosiddetti incontri che ti cambiano la vita.
Ognuno di noi porta in se stesso il cielo e l’inferno.
(Oscar Wilde - Il ritratto di Dorian Gray)
1° Settembre 1989, ore 7:20
Brighton, Inghilterra.
Gli sembrava di avere appena posato la testa sul cuscino - e di essere caduto in un sonno profondo da soli cinque minuti - quando la sveglia suonò con un’insistenza tale da perforargli i timpani di entrambe le orecchie.
Con un mugolio seccato ed
improperi decisamente poco adatti ad un pubblico al di sotto dei
diciotto anni, allungò un braccio verso il malefico
oggetto e lo spense grazie ad un colpo fin troppo secco e violento.
Lanciò un’occhiata ai piedi del comodino e sbuffò
sonoramente, facendo sollevare un ciuffo degli spettinati e corti
capelli castano chiaro.
Grandioso, ora gli sarebbe anche toccato comprare una nuova sveglia.
Compiendo uno sforzo
decisamente sovraumano - che è possibile paragonare soltanto
alle dodici fatiche di Ercole - si diresse verso il bagno a tentoni,
sperando in qualche aiuto divino per non incappare accidentalmente in
un pericolo mortale lungo il breve tragitto. Purtroppo, e certa gente
alle volte se lo sente, quella mattinata era cominciata nella maniera
più sbagliata di tutte. Difatti, non si sa bene come e in che
modo, in meno di un minuto inciampò in quello che doveva essere
il graziosissimo tappeto che sua madre aveva comperato qualche settimana prima - con l’intento di rendere la stanza più accogliente - e si ritrovò lungo disteso sul pavimento.
Nel suo piccolo, il ragazzo credeva che niente sarebbe potuto andare peggio di così, ma si sbagliava. Si sbagliava di grosso.
La porta della sua camera venne spalancata in un modo tale che gli
ricordò terribilmente i vecchi film polizieschi, per intenderci
una cosa del tipo: “Altolà, mani in alto!”,
e sulla soglia comparvero tre figure in vestaglia da notte, le facce
assonnate e l’aria imbronciata di chi è stato svegliato da
un cataclisma imminente. E quel cataclisma poteva essere riassunto in due semplici parole: Chace Morgan.
« Santo cielo, Chace! » esclamò la donna, mettendo a fuoco la stanza. « Che cosa ti è successo? »
Sua madre, alle volte, non era esattamente quello che si definisce come ‘molto perspicace’. Ne attribuì la colpa al pessimo e traumatico risveglio.
Si sollevò
velocemente in piedi, scrollandosi un po’ la maglia del pigiama
leggermente stropicciata. « Niente mamma, sono soltanto caduto
» borbottò, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento di
piastrelle chiare.
« Scommetto che sei
inciampato nel tappeto » commentò suo padre, annuendo
lievemente con il capo come a dare conferma delle sue stesse parole.
L’unico a non
dimostrarsi minimamente preoccupato o dispiaciuto era suo fratello
minore che, anzi, si stava letteralmente rotolando per terra, scosso da
risate incontrollabili. Chace lo fulminò con lo sguardo,
stringendo le braccia lungo i fianchi e trattenendosi dal prenderlo
istantaneamente a pugni soltanto perchè era consapevole che non
ne sarebbe mai uscito vincitore, in quanto suo fratello giocava come
capitano nella squadra di calcio del liceo.
« Joshua
» lo richiamò sua madre con tono severo, mettendosi le
mani sui fianchi con l’intento di incutere ancora più
timore di quanto già non facesse di solito. « Smettila
» ordinò perentoria, guardandolo mentre si rialzava e si
asciugava le lacrime dagli occhi. « Vado di sotto a preparare la
colazione. Chace, tesoro, sbrigati o farai tardi a lavoro »
Come se gli avessero tirato
uno schiaffo in pieno viso, il ragazzo controllò frettolosamente
l’orologio al polso sinistro e per poco non cadde un’altra
volta. Doveva darsi una mossa, o avrebbe perso il treno!
Probabilmente mai, in tutta
la sua vita, era stato in grado di prepararsi così velocemente,
il tutto sotto i commenti malevoli che il suo caro fratellino continuava a lanciargli al di fuori della porta del bagno. Prima o poi lo avrebbe ucciso nel sonno.
« Forse, avresti
dovuto cercati un lavoro a Brighton anzichè a Londra » fu
l’ultima cosa che udì pronunciare da Joshua, prima di
precipitarsi al piano di sotto.
Distrattamente
afferrò una brioche e se la portò alla bocca, agguantando
con la mano sinistra la sua valigetta ventiquattrore in ecopelle -
gentile regalo di sua madre, non appena aveva ottenuto un impiego - e
con la destra le chiavi di casa.
« Chace non ti fermi
a fare colazione? Non puoi mangiare per strada! É il pasto
più importante della giornata, se lo salti poi non riesci a
concentrarti sul lavoro e... »
« Ciao ma’! Ciao
pa’! >> salutò con un urlo, ignorando palesemente le
proteste della donna che lo aveva messo al mondo e respirando a pieni
polmoni l’odore familiare di Brighton.
Odore di salsedine, odore di casa.
****
1° Settembre 1989, ore 10:05
treno diretto alla stazione di King’s Cross, Londra.
Odiava alzarsi presto quando era andato a dormire soltanto una manciata di ore prima. Odiava dover prendere quello stupido treno tutte le sacrosante mattine - da un mese a quella parte - per recarsi in ufficio. Odiava il suo odioso
lavoro di assistente per una pazza squinternata, il cui unico scopo
nella vita era torturarlo, spedendolo in tintoria a ritirare qualche
suo abito firmato - di cui doveva assicurarsi il perfetto trattamento -
o a comprarle un caffè-latte di soia amaro alla cannella - una
roba talmente disgustosa che nessuna persona sana di mente avrebbe mai
e poi mai introdotto nel proprio sistema digerente. Odiava il fetido odore di smog che lo investiva in pieno non appena arrivava a destinazione e sì: odiava clamorosamente la stazione di King’s Cross a Londra.
Al contrario di come la gente potrebbe immaginare, era uno di quei posti in cui potevi sempre
notare un’affluenza di pendolari decisamente fuori dal normale e,
molto spesso, erano la categoria più odiata poichè - se
in ritardo - erano capaci di camminare sopra alle altre persone senza
preoccuparsene più di tanto o senza nemmeno chiedere scusa.
Chace, sul suo treno da
Brighton, aveva il fastidioso tic di controllare l’ora ogni
cinque minuti, alternando occhiate preoccupate al suo orologio o al suo
Blackberry. Una signora anziana gli lanciò uno sguardo
compassionevole e si concesse un sospiro, cosa che il ragazzo
notò perfettamente.
« Bella la vita da
pensionati, eh? » si lasciò sfuggire, mentre le sue labbra
si increspavano in un sorriso amaro.
La donna gli riservò
un cipiglio risentito e scese alla stazione successiva borbottando un
sommesso: “Ah, questi giovani d’oggi...”. Il ragazzo
roteò gli occhi castani al cielo, maledicendo la sua linguaccia
inopportuna. Dopotutto poteva sempre attribuire la colpa al pessimo
modo in cui la sua giornata era cominciata.
« Stazione di King’s Cross, Londra. Capolinea
» una voce femminile, metallica e del tutto priva del cosiddetto
calore umano, annunciò la fermata a cui - proverbialmente -
scesero tutti quanti, accalcandosi e spintonandosi come se dovessero
arrivare primi ad una maratona olimpica.
Dopo essersi schiacciato per bene
come una sardina in scatola, Chace riuscì a sentire nuovamente
l’aria scorrergli nei polmoni e ne fu immensamente grato. Un giorno - ne era più che convinto - ci avrebbe rimesso la pelle.
Con aria abbattuta poichè ripensava al suo comodo e caldo
rifugio, denominato comunemente ‘letto’ e che aveva
abbandonato parecchi chilometri più indietro, percorse a grandi
falcate i corridoi della stazione, gremiti di gente, e - senza
accorgersene - si scontrò contro qualcuno.
Una ragazza, direte voi. Ovviamente
si chiederanno scusa a vicenda con aria imbarazzata, perchè - a
causa della loro distrazione - erano troppo persi nei loro pensieri per
fare caso a dove stessero realmente andando. Ovviamente
si presenteranno e - perchè no - magari si daranno appuntamento
per un caffè in quel bar tanto carino che non conosce
praticamente nessuno. Questa, però, è un’altra storia.
In realtà, il povero Chace
andò a sbattere contro una bambina che poteva avere
all’incirca undici anni e non di più. Il carrello che
conteneva i suoi effetti personali si era miseramente rovesciato per
terra, così come lei stessa che mostrava un’espressione
sofferente sul candido visetto di porcellana.
« Oh caz-... ehm, volevo dire cavolo!
» balbettò sconnessamente, arruffandosi i capelli con una
mano. « Mi dispiace tantissimo, sono proprio un imbranato. Ecco,
lascia che ti aiuti » le tese il braccio, a cui lei si
aggrappò saldamente.
I suoi occhi grigi e
luminosi lo trafissero come una lama d’acciaio, lasciandolo
stordito per un attimo di troppo. Non aveva mai visto, in tutta la sua
vita, uno sguardo del genere.
« Ti... » si schiarì la voce, a disagio. « ...Ti sei fatta male? »
« No » rispose con
voce armoniosa, scostandosi una ciocca di capelli biondi - di una
tonalità spaventosamente simile al bianco -, cercando di capire
se le dolesse qualche parte del corpo. « Sto bene, almeno credo
»
« Ti do una mano a
risistemare il tuo carrello » si chinò velocemente a
raccoglierlo - soprattutto per sfuggire a quelle continue occhiate
penetranti -, sistemandovi meglio che poteva il baule con incise le sue
iniziali e una gabbia contente un gufo.
Un gufo?! Che diamine ci faceva un gufo lì, nel bel mezzo della stazione di Londra, senza che nessuno se ne accorgesse?
« Si chiama Hazel,
che sarebbe il nome del fiore dell’albero di nocciole, ed
è una civetta » spiegò, infilando un dito sottile
nella voliera per tranquillizzare l’animale.
Quella bambina gli aveva
confidato quelle cose senza che lui nemmeno le chiedesse anche se,
grazie alla sua dannatissima curiosità, l’avrebbe poi
fatto di lì a poco.
« Ehm... scusa la
domanda inopportuna ma... per caso leggi nel pensiero? » si
piegò sulle ginocchia per essere alla sua stessa altezza. Si era
sempre lamentato di essere troppo basso rispetto ai suoi coetanei, ma
lei gli arrivava a stento al petto.
Ridacchiò
leggermente, coprendosi la bocca con una mano. Era un qualcosa di
meraviglioso, come una cascata di campanelli argentini, e Chace avrebbe
voluto ascoltarlo fino allo sfinimento perchè, quel suono, aveva la capacità di infondergli un senso di calore all’altezza esatta del cuore.
« Sono soltanto brava
a leggere le emozioni altrui, tutto qua » scrollò le
spalle, mentre un sorrisino arricciava le sue labbra rosee. «
Avevi la faccia di uno che si stava domandando come mai ci fosse un
animale tipico della fauna boschiva, in giro per Londra »
La sua mandibola, probabilmente, aveva toccato il pavimento sudicio della stazione: okay, quella bambina era una fottuta maga o qualcosa del genere.
« C.M. Black » lesse sul fianco destro del baule rigido in pelle scura. « Dove sei diretta, piccola? »
« Oh, in un posto... »
incrociò le braccia dietro la schiena, dondolandosi appena sui
talloni e sfoderando un sorriso disarmante. Un sorriso che - Chace ne
era certo - tra un paio d’anni avrebbe fatto stragi di cuori.
Si guardò intorno, alla disperata ricerca di aiuto. Possibile
che neppure una persona si fosse minimamente resa conto che c’era
una bambina che viaggiava per la stazione da sola?! Che razza di genitori permettono una cosa del genere?!
« Non... non hai
bisogno di uhm... un collaboratore? » cercò di aprire la
bocca in un sorriso incoraggiante ma, più probabilmente, - a
causa della sua espressione - dovette trattarsi di un’orribile
smorfia. « Preferirei essere il tuo assistente piuttosto che di
quella matta del mio capo » si imbronciò leggermente,
mentre un sopracciglio biondo della ragazzina svettò
inesorabilmente verso l’alto.
« So cavarmela benissimo da
sola, grazie » incrociò le braccia al petto, manifestando
tutto il suo orgoglio di bambina e la sua implacabile testardaggine.
« Scusa non volevo
offenderti » le mostrò i palmi delle mani in segno di
resa. « Volevo soltanto assicurarmi che sapessi dov’eri
diretta » i suoi banalissimi occhi castani si scontrarono con
quelle due immense pozze d’acqua ghiacciata, facendo sì
che Chace rabbrividisse appena.
« Mi hanno perfettamente
spiegato come raggiungere il binario » proseguì altezzosa,
sollevando il mento con aria sostenuta. « Vivo a Londra da quando
sono nata, conosco la città come le mie tasche »
« Oh, non lo metto in
dubbio, piccola » si passò superficialmente una mano sulle
guance perfettamente rasate. « Ma.. »
« Santo Merlino!
» sbottò, guardando l’orologio della stazione e
portandosi velocemente le mani alla bocca, come se avesse detto una
grave bestemmia. « Sono in ritardo, devo andare! Arrivederci...
ehm... »
« Chace » si presentò, precedendo la sua richiesta.
« Chi lo sa, magari ci
rincontreremo » gli fece l’occhiolino, salutandolo
allegramente con la mano e spingendo il carrello a tutta
velocità verso la sua destinazione.
Con sguardo vigile e attento - cercando di non farsi scoprire per essere etichettato come ‘maniaco’
-, il giovane Morgan osservò la chioma bionda della bambina
avvicinarsi furtivamente alla barriera tra i binari nove e dieci.
Sentiva il dovere di vegliare
su di lei, visto che non c’era nessuno da accompagnarla,
sentendosi un po’ come un fratello maggiore piuttosto protettivo.
Lei si guardò
intorno un paio di volte, sorridendo angelicamente ad un capostazione
che passava lì vicino - che le rivolse un’occhiata di
sbieco - e controllando freneticamente che nessuno la stesse
osservando. No, erano tutti troppo indaffarati a farsi i fattacci loro, d’altronde.
Trattenendo rumorosamente
il fiato - cosa che fece voltare stizzite un paio di persone -, Chace
si accorse che aveva preso la rincorsa, pronta a schiantarsi a folle velocità contro il muro formato da mattoni rossicci che mai - prima di allora - gli erano parsi così terribilmente solidi.
Stava già per gridare con tutto il fiato che aveva in corpo,
immaginandosi seduto su un’ambulanza pronto a tenerle la mano,
quando la bambina scomparve. Sì,sì esatto: scomparve. Inghiottita dalla barriera della stazione di King’s Cross, tra i binari nove e dieci.
Sbattè le palpebre
più e più volte, sempre più freneticamente come se
avesse uno strano ed inquietante tic con cui si guadagnò qualche
sguardo perplesso e un po’ spaventato. Addirittura prese a
sfregarsi insistentemente gli occhi con le nocche, sperando quasi che
fosse stato frutto della sua più fervida immaginazione. Rimase
fermo al centro della stazione per dieci minuti abbondanti, cercando di
darsi una spiegazione logica per quanto accaduto.
Okay, Chace Morgan. La stanchezza gioca senz’altro brutti scherzi, quindi da stasera si comincia ad andare a letto presto.
Angolo dell'autrice:
Giuro solennemente di non avere buone intenzioni.
Salve a tutti! :) Come state? Spero bene. :)
Allora, che cosa dire d'altro? Per chi non mi "conoscesse", beh:
benvenuto/a! :D Per chi invece avesse già avuto a che fare con me e
i miei pensieri malati, beh... mi dispiace sinceramente per voi. AHAHAHAH. E-ehm, no okay, torniamo seri.
Dunque, dunque, dunque. Parliamo del capitolo. Onestamente penso che
questa storia sia un'altra long-fic (non so se sono in grado di
comporre cose brevi e leggere, tanto per intenderci). La sto
pubblicando perchè... qualche capitolo è già bello
che pronto, devo soltanto rivederlo e cambiare qualcosina (lo so, lo
so, teoricamente dovrei riaggiornare
le altre storie ma... ci sto lavorando su, lo giuro. T.T Purtroppo,
tutti questi impegni mi uccideranno). Premetto che questo primo chapter
dovrebbe rappresentare una specie di prologo ed è basato "dal
punto di vista" di un Babbano. Ebbene sì, cari lettori! Un
normalissimo e comunissimo Babbano ha avuto un brutale scontro (se
così possiamo definirlo) con la magia! E, nonostante abbia visto
scomparire una persona con i propri occhi, si dà una spiegazione a dir
poco banale: andare a dormire prima, perchè la stanchezza
provoca allucinazioni strane (se non mi sbaglio era stato il signor
Weasley a raccontare ad Harry, Ron e co. nel 2° libro, che i
Babbani - nonostante abbiano la magia proprio sotto al loro naso -
fanno di tutto pur di darsi spiegazioni logiche che non comprendano
neanche l'ipotesi "stregoneria").
Anyway, tornando al capitolo, facciamo la conoscenza con la nostra protagonista indiscussa: C.M.Black, che sta per Cassiopea Meissa Black (Cassiopea è il nome di una costellazione; Meissa è il nome di una stella e significa "splendente".
Come ben sapete, è tradizione nella famiglia Black chiamare i
propri figli/figlie con nomi di stelle/costellazioni/fiori).
Sì, lo so. Ho sconvolto la fenomenale narrazione di zia Row e
chiedo umilmente perdono per lo scempio che ne verrà fuori. Come
so anche perfettamente che ci saranno milioni di storie con
un'ipotetica figlia dei Black ma... date tempo al tempo. Chissà,
magari questa storia potrebbe anche piacervi. Insomma, credo che dalla
data abbiate capito che Cassiopea non sarà propriamente nello
stesso anno di Harry, Ron, Hermione e tutti gli altri. Il 1989...
troppo presto per il nostro Golden Trio!
;D Ah, ci tenevo a dirvi un'altra cosa: Cassiopea, nella mia
narrazione, prende praticamente il posto di Angelina Johnson, che qui
non è mai esistita (scusami Angie! T.T). Bene, credo che per
oggi sia tutto. Prossimamente, cercherò di mettere - qui
nell'angolo autrice - i personaggi e come me li immagino. :)
Un bacione, grazie mille a tutti coloro che leggeranno/avranno voglia
di recensire (per insultarmi o farmi sapere le proprie opinioni)/chi
magari la metterà tra le preferite o le seguite o le ricordate
(viaggio troppo con la fantasia?).
Vabbè, alla prossima! ♥
Fatto il misfatto.
Giorgia. ♥
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