broken glass 2
Titolo: Broken glass
Avvertenze: Slash
Paring: Johnlock
Rating: Verde
Genere: Romantico, angst , triste.
Disclaimer:
Storia scritta senza scopi di lucro. Sherlock appartiene a Sir Conan
Doyle, alla BBC e agli ideatori che hanno reso le sue avventure una
magnifica serie tv.
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Broken Glass
Socchiuse la porta e
una striscia di luce dorata filtrò dalla fenditura colpendo le
sue scarpe. La spalancò con un solo gesto e si sorprese
dell’immagine che lo accolse: John era seduto sulla sua poltrona,
aveva i capelli biondi ordinati e un'espressione seria in viso,
concentrata. Leggeva il giornale con le gambe accavallate e un lieve
tic nervoso alla mano destra.
Accennò un
sorriso e distolse gli occhi dai fogli quando lo sentì arrivare
e Sherlock rimase immobile, attento scrutatore, aspettando che fosse
lui a dire qualcosa.
<< Sei in ritardo >> Lo accusò bonariamente accentuando il sorriso.
Il giornale venne abbandonato sul tavolino.
<< Lo so >> rispose Sherlock sorridendo a sua volta.
Non si vedevano da
qualche giorno e solo in quel momento la sua mente aveva realizzato
quanto gli fosse mancato -come l’ossigeno manca
all’idrogeno per formare una molecola d’acqua, avrebbe
risposto se solo avesse avuto il respiro per farlo. E la voglia di
scherzare.
<< E il caso? >>
<< Un banale tre >>
<< Mi dispiace >>
<< Anche a me >>
<< Tè? >> gli domandò alzandosi di scatto dalla poltrona.
Non ebbe il tempo di fermarlo che John era già sparito oltre la porta della cucina.
<< Non credi
che dovremmo parlare di quello che è successo? >>
mormorò con voce titubante e un mhvocale gli arrivò in
risposta dalla cucina.
Sherlock attese e
attese con il cuore che martellava frenetico nella sua gola, fermo ad
un passo dalla finestra e dal suo violino.
<< Suoni qualcosa, per me? >> gli chiese una volta tornato in salotto senza tè e senza biscotti.
Sherlock si arrese
alzando gli occhi al cielo. Gli era diventato impossibile negare
qualcosa a John, fosse anche un'assurdità come quella di suonare
il violino evitando una conversazione che rimandavano da tre giorni.
Prese il violino e se lo portò sulla spalla indeciso sulla melodia.
<< Suona la
Tempesta di mare >> gli suggerì sorridendo << Quando
non riesco a dormire la suoni sempre >>
Annuì, mosse
l'archetto e l’aria si riempì di note che a loro volta
formarono musica, una musica che conosceva a memoria.
Era una delle
preferite di John perché era allegra, ma allo stesso tempo
rilassante; riuscì percepire il suo corpo
muoversi dietro di lui a passo di note poi due calde braccia
stringersi attorno ai suoi fianchi. Allora la musica cessò
così come era nata, senza un motivo apparente, come se non fosse
stato lui il musicista, ma solo un marginale spettatore. Posò il
violino a terra, nella custodia e pronunciò il suo nome
nonostante gli costasse fatica farlo. Nonostante facesse male.
<< John >>
<< Devi
ricordarti di fare il tè, Sherlock >> esordì
sorridendo fra le sue scapole. Lui non si mosse << ah, e devi
andare a fare la spesa. Manca il latte e anche il pane da tostare... il
burro >>
<< Fare la spesa è noioso, John >>
<< Ascoltare
te che ti lamenti è noioso. Devi andare a prendere il regalo per Hamish e pagare la bolletta della luce >>
Sherlock alzò gli occhi al cielo e sospirò << John... >>
<< Ah! E sistemare la cucina! Dio, Sherlock non si respira lì dentro! >>
<< Perché non lo fai tu, John? >>
Si voltò
dando le spalle alla finestra e lo guardò riconoscendo le
emozioni nascoste dietro quel labile sorriso: tristezza, rimpianto,
dolore.
<< Sherlock >> ma quelle emozioni non erano altro che uno specchio delle sue, ugualmente devastanti.
<< Ricordati di fare la spesa e il regalo per Hamish >>
<< Andiamo insieme >>
John gli strinse la stoffa della camicia e negò col capo.
<< Devi imparare a fare da solo queste cose >>
<< Perché? >>
<< Perché domani non sarò più qui a ricordartele >>
Il cuore di Sherlock si fermò e dalle sue labbra sfuggì un gemito.
<< Tu... tu sarai sempre qui >> sussurrò.
John gli sorrise mesto e seguì il percorso di una lacrima solitaria fermandola prima che cadesse sulla giacca dell'uomo.
<< Sherlock ora devi andare >>
<< No >> protestò.
<< Sherlock >>
<< E se non volessi... se non volessi andarmene? >>
<< Non puoi restare qui per sempre >>
Sherlock
lasciò vagare lo sguardo per il salotto: i libri erano ancora
lì così come le foto e i piccoli oggetti di John. Nulla
era stato cancellato o buttato in quei tre giorni nemmeno il bicchiere
rotto abbandonato in frantumi sul pavimento. Quel bicchiere,
ricordò, quello di John con la ridicola scritta pitturata in
rosso per la festa del papà di diciannove anni prima.
Sentimentale.
<< Sherlock è tardi... devi andare >>
<< John >> sussurrò senza fiato e un'altra lacrima cadde giù << come faccio? >>
John sorrise e gli
posò una mano sulla guancia alzandogli il viso affranto per
poter incontrare i suoi occhi chiari e spettacolari.
<< Un passo
alla volta >> gli spiegò << per prima cosa farai la
spesa, poi andrai a comprare il regalo per Hamish ed infine riordinerai
la cucina >>
Sherlock annuì.
<< E ora vai.
Ti stanno aspettando tutti >> gli sorrise ancora e posò le
labbra sulle sue,dolcemente costringendolo ad annegare ancora una volta
nel suo profumo di dopobarba e menta poi lo lasciò andare e
Sherlock, con il cuore a pezzi, lo osservò intensamente,
imprimendosi il suo viso nella mente prima di tornare verso la porta,
voltandosi ancora per guardarlo un’ultima volta: era seduto in
poltrona con il giornale fra le mani, le gambe accavallate e un tic
nervoso alla mano destra. I capelli biondi ordinati e in volto
un'espressione seria, in attesa di un sorriso.
Tutto era diventato un dipinto.
Aprì la porta e guardò le scale buie poi ancora John.
La attraversò e la richiuse dietro di sé uscendo dal suo Mind Palace.
<< Papà? Papà apri gli occhi … papà ti prego >>
Sherlock obbedì ed il volto di Hamish, deformato dal dolore, apparve davanti a lui.
Gli era seduto accanto e lo stava chiamando da chissà quanto tempo.
I suoi occhi azzurri
erano spenti e cerchiati di scuro ed aveva un’espressione
sconsolata in volto, ma Sherlock non trovò la forza di reagire
né di confortarlo.
<< Papà
… la funzione è terminata. Non vuoi … >> si
fermò perché Sherlock aveva di nuovo abbassato lo sguardo.
Tutti i presenti lo stavano guardando chi con profonda amarezza, chi con puro e semplice dispiacere.
Molly piangeva lasciando che le lacrime scavassero ancor più le rughe attorno ai suoi occhi.
Lestrade, seduto,
con la schiena a pezzi, comprendeva il suo stesso dolore, impassibile e
silente. In fin dei conti per lui quanti anni erano passati? Tre,
quattro? No, era stato cinque anni fa.
Cinque anni fa erano
seduti nelle stesse posizioni, muti nel loro dolore comune, senza
sentimenti da esternare e lacrime da piangere.
Ma cinque anni prima
lui aveva avuto qualcuno con il quale combattere il dolore di una
perdita. Ora, invece non c'era più nessuno che lo costringesse a
reagire.
Hamish parlò
ancora << Zio Greg ha detto delle belle cose. Se non le hai
sentite posso ripetertele … >>
Sherlock scosse la testa.
<< Va bene. Vuoi un bicchiere d’acqua prima di andare? >>
Andare dove? Domandò a sé stesso guardandosi attorno.
La chiesa era
piccola e il sole, a quell'ora del mattino, colpiva proprio i cristalli
colorati dei vetri rendendo quella tetra funzione un po’
più allegra almeno agli occhi del sacerdote.
Andare dove?
Hamish intese e gli strinse una mano << Dobbiamo andare al cimitero >>
Al cimitero …
odiava i cimiteri. Pieno di gente che piange e fiori dai colori
improbabili, pieno di stucchevoli frasi incise su ogni pezzo di marmo
che incontrava.
Una bara scura gli passò accanto ed Hamish accentuò la presa sulla sua mano.
Sherlock si
alzò e senza coscienza di sé seguì il corteo fino
al cimitero della piccola chiesa gotica che qualcuno aveva scelto. Ma
chi?
Non
sentì, non provò niente né parlò davanti ai
testimoni di quell’evento. Lasciò che il tempo gli
scorresse addosso finché tutto finì e potè tornare
a sedersi, questa volta su una piccola panca in marmo vicino ad un
albero.
Hamish gli si accomodò accanto, con le spalle tremanti e il viso giovane rigato di lacrime.
Sherlock lo
notò, ma non c’era nulla che potesse fare per cancellarle.
Se ne vergognò a tal punto da infossare di nuovo la testa
fra le spalle.
<< Sono solo ora, vero? >> sussurrò Hamish con un filo di voce.
<< Hai trent’anni >>
<< Sì, ma sono solo >>
Sherlock non rispose.
<< Sono adulto, sono in grado di cavarmela, ma sono solo >>
Sherlock prese un respiro profondo << Devo andare a fare la spesa >>
<< Cosa? >>
<< La spesa >>
<< Papà ti prego >>
<< Riordinare la cucina >>
<< Papà … >> Hamish si portò le mani fra i capelli scuri e respirò con affanno.
<< Devo prendere un regalo di Natale per te >>
Hamish sgranò
gli occhi << Papà, è Maggio … ti prego.
Lascia che ti aiuti. Riordiniamo insieme la cucina, okay? Poi
farò la spesa e … >>
<< No >>
sbottò improvvisamente serio e vigile. Lo guardò
intensamente << No, l’ho promesso a tuo padre. John vuole
che io faccia le spesa, compri un regalo e riordini la cucina …
>>
Hamish lo
guardò, sconfitto << Papà … forse sarebbe
meglio se venissi a stare da me per qualche giorno >>
Sherlock di alzò di scatto << Baker Street >> disse.
<< Va bene allora verrò con te … >>
<< Hamish, sono perfettamente in grado di fare la spesa da solo >>
Il ragazzo gli andò dietro fermandolo prima che potesse uscire e chiamare un taxi.
<< Papà, ti prego! Fermati! Mi sei rimasto solo tu, lo capisci? >>
Sherlock si
fermò e accennò un sorriso spiazzando il figlio <<
Io ci sarò sempre per te Hamish … >> lo
confortò accarezzandogli una guancia esattamente come aveva
imparato a fare da quando era entrato nella sua vita,
sconvolgendogliela. Hamish chiuse gli occhi a quel tocco e si
lasciò scappare un sorriso trattenendo la mano esattamente dove
il padre l’aveva posata.
<< Papà, non mi lasciare anche tu >>
<< Ma Hamish
>> protestò << Devo andare a fare la spesa. Torno
presto >> lo rassicurò con lucida fermezza prima di
allontanarsi.
E così andò da Tesco e comprò il latte, il burro e
il pane poi si fermò in un altro negozio e comprò un
regalo per suo figlio perché a Natale bisogna fare un regalo
alla persona che ami e se solo l’ufficio imposte fosse stato
aperto avrebbe anche pagato la bolletta della luce. Infine
tornò verso casa, salì le scale e in salotto trovò
Hamish chino a terra intento a raccogliere i cocci del bicchiere di
John lasciati esattamente dove si erano sparpagliati dopo la
caduta … a prendere polvere per tre giorni.
Hamish sussultò quando lo sentì tornare e smise di piangere per non dare a vedere quanto stesse soffrendo.
Sherlock osservò quella scena con malcelata tristezza e posò tutto sul tavolo della cucina.
<< Avevo
diciassette anni. Gliel’avevo regalata per la festa del
papà >> ricordò << a te invece avevo …
>>
<< Regalato un
libro sulla trasformazione sociologica del ruolo paterno nel corso
della storia, me lo ricordo >> finì per lui.
Hamish lo vide
riordinare la cucina, mettere a posto il microscopio e i vetrini.
Pulire il frigo e infilarci dentro gli alimenti.
Tutto divenne silenzio interrotto solo dai piccoli rumori di vettovaglie e qualche lieve respiro più profondo.
Sherlock
ignorò il suo cocente dolore mentre toccava, spostava e posava
gli occhi sulle cose di John, come il cucchiaino abbandonato nel lavabo
o le chiavi di casa sul tavolo. I post-it gialli, attaccati
all’anta del frigo, scarabocchiati con mano tremante non
osò nemmeno toccarli: le cose da fare erano tutte lì, appiccicate in bella mostra.
Sherlock
togli le dita mozzate dal frigo, Sherlock ti amo, ma pulisci tu questo
casino, Sherlock ricordati di chiamare Hamish, Sherlock abbiamo una
cena con Lestrade alle venti di domani.
Quale domani?
Quale dei tanti domani?
Quale giorno, quale mese?
Burro latte e pane erano stati appuntati su un post-it verde perché quelli gialli erano finiti.
Sherlock ne sfiorò il profilo quadrato con l'indice ricordandosi
di tutte le volte che aveva fatto finta di non vederli: ora sembravano
solo urlargli addosso.
<< Papà
… >> sussurrò Hamish alle sue spalle << Sei
davvero sicuro di voler rimanere qui? Posso ospitarti io per tutto il
tempo che serve se … >>
Sherlock scosse la testa.
Andarsene?
A Baker Street
c’era John. John ovunque. In quei post-it, dentro il lavandino,
sulla poltrona, in camera da letto, sul tavolo e seduto in cucina.
John era ancora lì da qualche parte, solo che non riusciva a vederlo.
Sherlock si
spettinò i capelli bianchi e si guardò attorno;
puntò il suo violino e lo raccolse da terra portandoselo alla
spalla e cominciò a suonare a venti centimetri dalla finestra.
Chiuse gli occhi e
John era lì di nuovo lì, dietro di lui, anziano e vigile,
teso ad ascoltare la Tempesta di Vivaldi che prendeva vita grazie a lui.
Hamish non disse
più una parola. Con il cuore gonfio di dolore uscì dal
salotto e scese le scale rifugiandosi nel vecchio e dimenticato
appartamento della signora Hudson, vuoto da sedici anni.
Sherlock
continuò a suonare finché non sentì le sue dita
dolere e le gambe fargli male per la posa statica assunta.
Riaprì gli occhi e d’un tratto era sera.
Lasciò il violino nella custodia e prese un respiro, la fronte premuta contro il vetro e gli occhi di nuovo chiusi.
Ho
fatto la spesa per te, ho riordinato la cucina, per te. Ho comprato il
regalo e fatto il tè. Ho suonato Vivaldi per te.
Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto. Ora posso morire?
John era lì da qualche parte che scuoteva la testa.
Hamish c’è ancora. Devi pensare a lui, diceva con gentilezza.
Sherlock strinse i pugni e si lasciò cadere sulla poltrona, sconvolto.
Sì,
c’era Hamish. Hamish che lo implorava di non lasciarlo, Hamish
che piangeva fingendo di non farlo e lo chiamava disperato. Ma
c’era anche John. John steso a terra in salotto con una tazza in
frantumi accanto, c’era John dentro una bara e in tutti quei
post-it in cucina. C’era John nelle note del suo violino e sulla
poltrona. C’era nei vecchi fascicoli dei casi ancora
irrisolti. C’era in ogni oggetto e secondo della sua vita,
da sempre.
C’era John che gli chiedeva di non morire, di aspettare.
C’era Hamish.
C’era anche
lui in quel riquadro, un corpo vivo che racchiudeva un’anima
morta, con i pensieri alla deriva e il cuore a pezzi, dolente.
C’erano loro tre in ogni ricordo.
Sherlock udì i passi di Hamish salire le scale: tornava per controllarlo.
Si ripromise di
abbracciarlo, di dirgli che lo amava, di tenere ordinata la casa e di
dargli il regalo di Natale anche se era Maggio.
Si promise di non
lasciarlo solo, mai, ma in quel momento aveva bisogno di John, un
bisogno disperato del suo sorriso e dei suoi rimproveri, della sua voce
e del suo rumoroso silenzio. Aveva bisogno di non sentire il suo cuore
far male per qualche minuto. Solo qualche minuto.
Abbandonò la testa contro lo schienale della poltrona e si lasciò andare in un sospiro.
Chiuse gli occhi.
Salì i diciassette gradini.
Socchiuse la porta e
una striscia di luce dorata filtrò dalla fenditura colpendo le
sue scarpe. Il sole rischiarò l’appartamento e la poltrona
beige.
Vivaldi era nell’aria insieme all’odore del tè.
Un giornale fu abbandonato sul tavolino. E John era lì.
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Note:
Ok, manco dal sito da anni. Ho finalmente ritrovato la mia vena
artistica, cambiato paring e … torno con una storia angst.
Mi odierete. A me nemmeno piacciono le deathfic, ma ero triste perciò è uscita fuori da sola.
La Tempesta di mare di Vivaldi la potete trovare su Youtube ( Link ) e non so perché ma l’ho trovata indicata per questa fic. Secondo me rappresenta un po’ Sherlock .
Mi auguro di non aver commesso orrori ortografici, ma purtroppo
è autocorretta perchè sono ancora in fase di ricerca di
una beta per le mie prossime storie.
Spero vi sia piaciuta lo stesso e di essere stata all’altezza della bellissime storie che ho letto su questo fandom =)
Tks!
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