It's elementary, Watson. The fact that I love you

di millyray
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CAPITOLO UNDICI

John quella mattina si svegliò col suono del violino di Sherlock che, proveniente dal piano di sotto, accarezzò le sue orecchie in maniera piuttosto… piacevole. Adorava quando Sherlock suonava il violino, non solo ascoltarlo, ma persino guardarlo. In quei momenti il suo viso e tutto il suo corpo sembravano come… accendersi. Emanavano una tale passione che era impossibile non venirne trascinati. In quei momenti Sherlock mostrava il suo vero io, quello che di solito nascondeva dietro la corazza indistruttibile che si era costruito. Perché c’era un vero Sherlock, di questo John ne era sicuro. C’era un Sherlock che il detective non voleva mostrare ma che prima o poi sarebbe venuto fuori. Almeno lo sperava.

Scalciò via le coperte e si alzò dal letto. Si stropicciò gli occhi e mugugnò con voce roca. Più invecchiava e più faceva fatica ad alzarsi presto. Chissà come diamine faceva Sherlock ad andare sempre a letto a orari indecenti e a svegliarsi la mattina fresco come una rosa. O soffriva di qualche strana malattia che gli permetteva di dormire poco oppure prendeva qualche pozione magica.
Con passo pesante scese le scale trovando il coinquilino in piedi di fronte alla finestra, perso a guardare il grigio panorama londinese. Aveva appoggiato il violino sul tavolino del salotto, ma teneva la bacchetta ancora in mano.
John restò per un po’ a guardarlo. Gli piaceva la forma del suo corpo, la sua siluette. Era… era così elegante, così modellata. Sembrava quasi che qualcuno lo avesse scolpito.

No, John, smettila con questi pensieri. È meglio che te la fai passare questa cotta o sarà peggio per te.

“Non volevo svegliarti. Mi dispiace, John”, sentì dire dalla voce di Sherlock, bassa e calma. Il dottore rimase piuttosto basito e gli ci volle qualche secondo per assimilare la frase. Sherlock che chiedeva scusa? Da quando? No, quello non era Sherlock… o forse lo era. Mah, chi poteva dirlo con quell’uomo?

“Non ti preoccupare. Tanto mi dovevo alzare”, rispose John andando in cucina e mettendosi a fare il tè.

Sherlock rimase fermo dov’era, senza spostarsi di un millimetro. Doveva esserci qualcosa di veramente interessante fuori dalla finestra. O forse era semplicemente immerso nel suo palazzo mentale.

Una volta finito di preparare il tè, John versò il liquido ancora fumante in due tazze e ne portò una a Sherlock. Questi la prese senza però guardare l’amico.
Aveva qualcosa che non andava quella mattina, questo era chiaro. Ma se voleva scoprirlo, doveva indagare cautamente. A volte parlare o trattare con Sherlock era più difficile che farlo con un bambino.

Il dottore prese la sua tazza e si sedette sulla sua poltrona, aprendo il giornale di quella mattina. Ma continuò a tenere un occhio sull’amico, senza porre attenzione a quello che stava leggendo.
Sherlock allora decise che ne aveva abbastanza del panorama esterno e si girò per riporre il violino nella sua custodia. Poi sorseggiò ancora un po’ del suo tè e tirò fuori il cellulare, digitando velocemente. John, da dietro il giornale, lo osservava attentamente.

“Ti ha scritto Lestrade? C’è un nuovo caso?” chiese il medico cercando di non apparire troppo interessato.

“No, non è Lestrade. E no, non ho nessun caso”.

“Ok”. Provò a lasciar perdere il discorso, sperando che il detective stesso gli avrebbe detto qualcos’altro, ma quello sembrava essere concentrato nel messaggio che stava scrivendo.

“Sherlock?”

“Hmm?”

“Stai bene?”

Soltanto allora il detective si decise ad alzare lo sguardo sull’amico. Uno sguardo che John avrebbe preferito non vedere, non sul moro. I suoi occhi sembravano così… così malinconici, come se stesse soffrendo per qualcosa. Ma cosa? E poi pareva così stanco, così giù. E… era una sua impressione o quelle sotto gli occhi erano delle occhiaie?
Molto probabilmente, se non si fosse deciso a dormire come una persona normale, si sarebbe ammalato.

“Sì, sto bene”.

Quella era proprio la risposta che, paradossalmente, non voleva sentire. Perché era chiaro che Sherlock non stava bene e se lo avesse ammesso o se ne avesse voluto parlare sarebbe stato meglio. Ma lui ovviamente non ne aveva la minima intenzione.

“Sei sicuro?” cercò di insistere John.

“Sì”, fu la risposta secca dell’amico. Eccolo lì, il solito Sherlock: freddo, distaccato, impassibile. Aveva di nuovo messo su la sua maschera impenetrabile, la sua maschera da duro, da sociopatico. Si alzò di scatto, mise via il cellulare e afferrò il capotto e la sciarpa.

“Dove vai?” fece John a quel punto, mostrandosi un po’ contrariato.

“Esco”.

“Vuoi che venga con te?”

“No. Vado solo… a fare delle cose”. E prima che il dottore potesse dire o fare qualcosa, quello se ne scomparve fuori dalla porta. John rimase a osservare il corridoio d’ingresso come uno stoccafisso. E rimase così finché non vide la Signora Hudson comparire dal punto nel quale il detective era scappato poco prima. “Dove andava così di fretta?” chiese la donna in tono gentile.

“Vorrei tanto saperlo”.

 

Sherlock camminava velocemente per le strade di Londra, cercando di evitare le persone il più possibile. Aveva tirato su più che aveva potuto il colletto del cappotto e teneva lo sguardo fisso per terra, le mani strette a pugno in tasca e il pensiero rivolto soltanto alla sua meta.
No, in realtà no. Aveva la testa piena di pensieri.
C’era John, intanto, che sicuramente si era accorto che qualcosa non andava in lui quella mattina. Non andava già da un po’ e nemmeno lui capiva che cosa fosse andato storto. O forse lo capiva, solo che non lo voleva ammettere. Come aveva fatto a ricaderci? Pensava… pensava che fosse tutto finito, che avrebbe potuto ricominciare da capo, una nuova vita, che avrebbe potuto dimenticare tutto quanto era successo prima.
John, il buon John. Che cosa avrebbe fatto? Che cosa avrebbe detto? Non lo voleva deludere, non John. John era la sua ancora in tutto quel caos eppure lui non aveva fatto in tempo a lanciarla. O meglio, a prenderla.
Sicuramente sarebbe stato deluso da lui. Così come Connie. Connie… non sarebbe mai dovuta tornare. Però non aveva un altro posto dove stare, non aveva un lavoro, né una casa e ora aveva pure un bambino da crescere da sola. E quello era colpa sua, sicuramente colpa sua, sempre colpa di Sherlock. Le aveva rovinato la vita perché ovviamente non gli era bastato rovinarsi la sua.
E poi c’era Lestrade e c’era la Signora Hudson e c’era Mycroft e tutto il resto. La sua vita era un gran casino e questo solo per colpa sua. Perché, a dispetto della sua enorme intelligenza, aveva agito da idiota. Sempre, fin da quando era giovane.

Cercò di riscuotersi da tutti quei pensieri, svoltando in una piccola via secondaria tra due vecchi palazzi dai muri scrostati.
Lì, seduto su un cartone, con un paio di jeans sdruciti e mezzo nascosto dal cappuccio della felpa, c’era l’uomo che stava cercando.

“Allora, ce l’hai?” gli chiese il detective in tono glaciale.

“Sempre così diretto”, rispose l’altro che non poteva avere più di trent’anni, anche se la barba sfatta lo faceva apparire più vecchio. Si guardò un po’ attorno, poi sospirò. “Non qui. Seguimi”. Si alzò dal suo giaciglio e rientrò nella strada principale. Sherlock lo lasciò precederlo e poi lo seguì standogli a mezzo metro di distanza. Il giovane lo portò in una palazzina in costruzione, sotto ad una tettoia. Diede di nuovo un’occhiata attorno a sé, con fare circospetto.

“E’ questa”, disse, porgendogli qualcosa che teneva nascosto nel pugno. Sherlock allungò la mano e si fece passare l’oggetto. Restò a guardarlo per un po’, come per assicurarsi che fosse quello che voleva. Poi lo infilò in tasca e dall'altra estrasse un bel po’ di banconote, allungandole al tipo.

“E’ tutto?” chiese lo sconosciuto.

“Sì”.

“Mi fido”.

“Sì”.

Il detective cominciò ad allontanarsi.

“Ci rivediamo presto?” gli gridò l’altro da dietro, ma non ottenne alcuna risposta.

 

Era al lavoro solo da un paio di ore e già cominciava ad essere stanco. Fortuna che c’era la pausa e che i pazienti quel giorno non erano tanti.
Decise di andare a trovare Molly, magari scambiare due chiacchiere con lei lo avrebbe tirato un po’ su di morale. Varcò la porta del laboratorio e vide l’amica seduta davanti al computer e Connie vicino al tavolo che osservava un microscopio.

“Oh ciao, John”, salutò quest’ultima.

“Ciao, Connie. Che ci fai qui?”

“Mi annoiavo, così sono venuta a trovare Molly”.

“John, Sherlock non è con te?” chiese Molly, alzandosi dalla sedia.

“No. È uscito stamattina”.

“E dov’è andato?” fece la mora, ora improvvisamente allarmata.

“Non lo so. Non me l’ha detto”.

“Oh”.

Connie abbassò lo sguardo, osservando una macchia sul tavolo.

“Perché non lo chiami?”

“Gli ho mandato un messaggio, ma non mi risponde”. La ragazza tirò fuori il cellulare controllando gli ultimi messaggi in arrivo, ma niente. Poi rilesse quello che aveva mandato lei: dimmi che mi vuoi bene. perché io te ne voglio. Ma nessuna risposta, ovviamente. E ora aveva ben due fratelli che non le volevano più parlare. In che razza di famiglia era finita?

“E Mycroft?”

“Lasciamo perdere Mycroft”.

“Che cos’è successo tra te e Mycroft perché lui non voglia più parlarti?” domandò Molly, rimettendosi il camicie bianco.

Connie sospirò. “Tra me e lui non è successo niente”.

“Ah no?”

“E’ per quello che è successo tra me e Sherlock”. Ora aveva decisamente attirato l’attenzione degli altri due. “E che cosa è successo?” Adesso finalmente avrebbero scoperto qualche segreto della famiglia Holmes.

“In realtà niente”, la ragazza continuava a tormentare un pezzo di filo che teneva tra le mani. Quel segreto sicuramente la metteva a disagio. “E’ solo che Mycroft credeva… credeva che tra me e Sherlock ci fosse qualcosa… sì, insomma, qualcosa di più di una semplice relazione tra fratello e sorella”. Connie alzò lo sguardo sugli altri due solo per vedere le loro espressioni sconvolte e le bocche spalancate. “Credeva che noi due… facessimo… sesso”. Fece una pausa aspettandosi che gli altri due commentassero. E invece non uscì un lamento né un commento. Così lei continuò. “Ovviamente non era vero. O meglio… sì, una volta Sherlock mi ha baciata, ma solo perché mi trovavo lì e lui non era in sé e stava male. Mycroft casualmente ci ha visti e da quel momento ha iniziato a farsi strane idee. Io e Sherlock eravamo molto intimi, ma non abbiamo mai fatto… quelle cose. Ci aiutavamo, ci confidavamo, stavamo spesso in compagnia, ma nulla di più”.

“Gliel’avete mai spiegato?” esclamò a quel punto John, davvero, davvero incredulo.

“Certo, ma lui non ci credeva. E poi sono successe molte altre cose e la situazione si è aggravata e… sì, insomma. Ormai non ha più importanza. È storia vecchia”.

“Non mi sembra storia vecchia se Mycroft non ti parla”.

Connie si allontanò dal tavolo e afferrò la sua borsa appesa a un attaccapanni. “No, ragazzi, guardate… lasciate perdere. Fate finta che non vi abbia detto niente, d’accordo?” E, senza attendere risposta, abbandonò la stanza.

John si voltò verso Molly, incredula tanto quanto lui. “Tu l’avresti mai detto?” Lei negò con la testa. “No, assolutamente no”.

 

John continuava ad andare su e giù per il salotto, preoccupato e ansioso. Aveva continuato a controllare il cellulare per l’intera giornata, sperando di ricevere qualche messaggio da Sherlock che gli chiedeva di venire a indagare con lui su qualche caso, come capitava molto spesso. E invece niente. L’unica che gli aveva scritto era Cindy e solo per dirgli che si masturbava pensando a lui. La cosa lo aveva disgustato più che averlo eccitato.

Era quasi mezzanotte e Sherlock non era ancora tornato. Certo, era normalissimo che se ne stesse fuori anche fino a tardi, ma non senza mai tornare a casa e soprattutto non senza farsi mai sentire. E come se non bastasse fuori pioveva. Anzi, diluviava.
Forse gli era successo qualcosa. Forse era stato rapito o magari era rimasto ferito, trascinato in un angolo e picchiato e nessuno lo aveva trovato e…

No, no. Smettila di pensare a queste cose, John. Vedrai che starà bene.

Improvvisamente sentì sbattere la porta d’ingresso e dei passi che si avvicinavano. La porta venne aperta e sulla soglia comparvero Connie e Lestrade.

“Non è ancora tornato?”

“No”.

“Cazzo!”

“Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto?” chiese Greg, vistosamente preoccupato anche lui.

“Questa mattina, quando mi sono alzato”.

I tre rimasero per qualche attimo in silenzio, pensando a come affrontare meglio la situazione.

“D’accordo. Vado a cercarlo”, annunciò Lestrade allora, guardando Connie. Lei annuì semplicemente e l’uomo se ne andò velocemente.

“Pensiamo a dove potrebbe essere”, sospirò Connie, sedendosi sul divano. Stava cercando di non farsi prendere dal panico, ma la verità era che aveva una bruttissima sensazione e avrebbe soltanto voluto mettersi a piangere. “Conosci dei posti che frequenta abitualmente?”

“Non credo ce ne siano. Il St. Bart’s di solito, ma non credo sia là a quest’ora”. John si portò le mani sul viso, cercando di calmarsi. Solo in quel momento si accorgeva quanto in realtà poco sapesse dell’uomo che amava.

Passarono un quarto d’ora a pensare ai posti in cui poteva essere e a scriverli a Greg per messaggio. Ad un certo punto, però, sentirono dei passi nell’ingresso. Pensarono si trattasse della Signora Hudson, ma quando la porta venne aperta videro una figura alta e scura stagliata in controluce. Subito dopo capirono che era Sherlock. Era spettinato, bagnato fradicio di pioggia e… stanco. No, non  sembrava solo stanco…

“Sherlock?” lo chiamò Connie quando il fratello si fu buttato sulla sua poltrona. “Oh mio Dio!” esclamò la ragazza, osservando l’aspetto completamente sfatto dell’uomo e gli occhi rossi. “Tu sei completamente fatto”.

 

 

MILLY’S SPACE

Salve. Mi scuso per non aver aggiornato prima, ma con gli esami che incombono è stato piuttosto difficile. Mi sono concessa una pausa dai libri oggi, ma finché non finiscono gli esami mi sa che non mi risentirete.
I’m so sorry.

Non mi trattengo molto visto che è tardissimo. Spero vi sia piaciuto il capitolo e vi prego, recensiteeeeeeeeeeeee!!!!

Baci,
M.

MONKEY_D_ALICE: bene, mi fa piacere che la storia ti piaccia. Ecco qui un piccolo segreto di Connie e Sherlock ^^ che e pensi? Un bacio a te, Milly.





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