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Jordan
Di me stesso so solo quel tanto
che riesco a capire
nelle mie attuali
condizioni mentali.
E le mie attuali
condizioni mentali non sono buone.
Douglas Adams
Atlanta,
Georgia.
Secondo le prime formulazioni dell'antropologia
criminale¹, un assassino nato è irrecuperabile e
primitivo, presenta tratti fisiognomici caratteristici che lo
allontanano dalla possibilità di vivere con gli altri esseri
umani, perché in realtà non sono suoi simili.
Più di cento anni di storia della mente separano il BAU da
queste antiche teorie, eppure Spencer rimane inebetito dietro lo
specchio unidirezionale. Oltre la lastra di vetro, Hotch siede di
fronte al sospettato: un ragazzo giovane dalla storia personale intrisa
di disturbi mentali. Il dottore non può fare a meno di
guardare con curiosità morbosa quel viso: i lineamenti dolci
da adolescente mai sviluppato, i ricci castani che appaiono setosi,
seppure non curati, e gli occhi grandi, ma sfuggenti.
Il suo nome è Douglas Adams. Il solo sentirlo,
gli ha scatenato una manciata di ricordi, pescati dai libri letti da
ragazzo.
Il mio Universo sono i miei
occhi e le mie orecchie. Tutto il resto è
supposizione.²
Questa la frase che gli è venuta in
mente, guardando per la prima volta la foto di quel ragazzo. Vorrebbe
avere una soluzione così semplice, ma i suoi occhi e le sue
orecchie lo portano a una sola conclusione: la sua mente lo sta
lentamente abbandonando. Si chiede se quel ragazzo, Douglas Adams,
abbia provato la sua stessa terribile paura, nel momento in cui si
è reso conto di aver strangolato una perfetta sconosciuta.
Questo pensiero riesce a terrorizzarlo ancor di più: non si
era mai reso conto, prima d'ora, quanto profonda potesse essere la
paura di aver tolto una vita. Cerca di pensare che le sue sono solo
supposizioni, ma non credere ai propri sensi è troppo
difficile, perché sente ancora l'odore del sangue, il suono
dell'ammoniaca che scivola nel lavabo e il fastidio della pelle tesa da
troppi lavaggi.
Tornando a Douglas Adams, il dottore si scopre a
chiedersi se anche lui abbia lo stesso sguardo anormale. Quel
ragazzino non è certo il ritratto di un mostro, ma Spencer
non ha dubbi: «E' lui,» mormora
«è stato lui.»
Morgan aggrotta le sopracciglia. «Quale
connessione ha creato il tuo bel cervello?»
«Nessuna. Gli indizi e il profilo conducono in una
direzione, ma è solo un orientamento. Le certezze possono
arrivare senza prove, sono...esistono. Non posso spiegarmelo.»
«Un uomo di scienza come te si affida al sesto
senso?» lo beffeggia Morgan.
Reid ha un moto di fastidio e volta la testa di scatto,
fissandolo con un astio che lo sorprende. Lui è
lì che lo canzona, che gli ricorda ciò che era
prima di quella mattina, e non riesce a tollerarlo. In un attimo si
accorge di odiare Derek e l'immagine che ha del gracile e bonario
dottor Reid, un essere ingenuo e innocente con il quale lui non si
ritrova. «Non credere di potermi conoscere così a
fondo.»
«Vuoi dirmi che ti prende?» ribatte
l'altro, fronteggiandolo con la sua possente aria da troppo
testosterone in circolo, tanto che Spencer riesce quasi ad avvertirne
l'effetto sulla parte istintuale del cervello.
«A me cosa prende?» lo beffeggia alzando
le sopracciglia. «Credi di sapere tutto, vero? Credi che
perché una persona sia innocente o...qualunque altra cosa,
basti che tu lo senta? Tu non capisci nulla.»
«E' di questo che si tratta? E' con me che hai un
problema?»
«Io non ho nessun problema» afferma poco
convinto. «Forse dovresti pensare ai tuoi di
problemi» rincara piccato. «Credi che io sia
stupido?»
«Di che diavolo parli?»
In quel momento la porta della piccola stanza, che sembra
sempre più stretta, si apre e Hotch fa capolino.
«Possiamo ritenere il caso chiuso»
annuncia il supervisore capo. Poi squadra entrambi e annusa la
situazione. «Cosa succede qui?»
Reid si affretta a parlare: «Nulla di
importante» dice, con l'intenzione di ferire il
più possibile. Poi guarda Morgan e aggiunge: «Non
starmi col fiato sul collo, non sono una tua
responsabilità.» Sorpassa Hotch, costringendolo a
farsi da parte, e scompare oltre il corridoio a passo svelto e
risoluto. Il supervisore lo guarda andar via e rivolge uno sguardo
interrogativo all'agente.
«Hai sentito, no? Lui non è mia
responsabilità» quasi ringhia Morgan, uscendo
anche lui e combattendo ferocemente contro l'istinto di rincorrere il
dottore.
Il viaggio di ritorno in jet è silenzioso. Tutti
avvertono la tensione, poiché si trovano nel mezzo di quel
muto conflitto: in un angolo siede Spencer, con lo sguardo perso nelle
proprie mani; all'angolo opposto Morgan guarda oltre il finestrino, con
le mascelle serrate e le sopracciglia corrucciate.
Dopo quel diverbio, non hanno più parlato l'uno
con l'altro e Spencer si è chiuso in un mutismo estremo,
rifiutandosi di proferir parola con chiunque. Negli ultimi tre giorni
la sua mente si è divisa: una piccola parte ha lavorato al
caso come a qualunque altro e ha costruito la facciata di una
normalità vacillante. Ma la parte maggiore della grande
testa del dottore è rimasta invischiata nella spirale della
paranoia: mentre guarda le dita sottili aggrovigliarsi tra loro, sente
la morsa al petto, che lo opprime da quella dannata mattina, stringersi
a cappio. Ora sa che, nel momento della caduta, sarà
inevitabile trascinare con sé la sua famiglia. Vorrebbe solo
far soffrire di meno, limitare i danni, arginare i confini. Si sente
travolto da ogni sorriso che gli viene porto, ogni tentativo di
avvicinamento, ogni premurosa attenzione rivoltagli. Se ne sente
colpevole, aggredito, impotente. Ma, soprattutto, si sente
irrimediabilmente solo.
Mentre il jet sorvola una tempesta in formazione, gli occhi
del dottore cominciano a inumidirsi.
Appena giunti in ufficio, dentro Spencer sorge il terrore
del ritorno a casa. Il mal di testa non lo lascia un attimo,
sprofondandolo nel dubbio di non essere in grado di giungere al proprio
appartamento senza drammi.
E se dovesse
accadere di nuovo? Se ancora perdessi l'orientamento e la memoria?
Riesce a bloccare JJ prima che salga sull'ascensore. Ha
atteso che tutti andassero via e che la ragazza, rimasta per sbrigare
delle pratiche, fosse pronta per ritornare dalla vera famiglia.
«Spence, tutto bene? Non sapevo fossi rimasto fino
a quest'ora.»
«Volevo rivedere il caso» mente il
ragazzo. «Stai tornando a casa?»
«Sì, Henry ha fatto un po' di capricci
e non vuole andare a dormire» risponde sorridente.
«Oh...»
«Qualcosa non va?»
«Nulla. Volevo chiederti un passaggio, ma se vai
di fretta non importa, prenderò la metro.»
JJ gli da una pacca amichevole sulla spalla, facendolo
lievemente sobbalzare. «Sei un fascio di nervi, Spence.
Meglio che mi assicuri che arrivi a casa sano e salvo.»
Il parcheggio sottorraneo è silenzioso
e umido. Mentre cammina, stringe le braccia al petto e cerca di non
pensare. Sa che, se qualcosa dovesse trasparire dal suo volto, JJ lo
noterebbe subito. Per distrarsi, si guarda attorno, soffermandosi a
leggere le targhe delle auto parcheggiate. Sono per lo più
piccole auto compatte, tutte scure, appartenenti ai dipendenti
notturni. Quasi giunti alla monovolume di JJ, qualcosa attira
l'attenzioe di Spencer. Fa un passo indietro e controlla meglio, sicuro
che qualcosa non vada.
«Spence?»
Si riscuote e guarda la collega con tono
interrogativo. «Questa di chi è?» chiede
indicando un'auto rosso scuro. JJ fa spallucce e sorride.
«Perché?»
«Hanno assunto qualcuno di
nuovo?» insiste Spencer: è sicuro di non aver mai
letto prima quella targa. In fondo lo avrebbe ricordato certamente.
«No...non lo so. Ha
importanza?» chiede JJ ridendo.
Reid abbozza un sorriso, guarda ancora quella
targa e poi fa spallucce, raggiungendo l'auto dell'amica.
Forse la sua paranoia comincia ad essere fin
troppo estrema.
Appena chiude la porta dell'appartamento, il telefono prende
a squillare. Fruga freneticamente nella tracolla, rischiando di far
cadere il cellulare nel rispondere.
«Sì?»
Una voce femminile, posata e calma, risponde:
«Hey! Sono io, Jordan.»
Sa di conoscere quel timbro particolare, ma non
riesce ad associare quel nome a qualcuno.
«Mi scusi?»
«Jordan Norris, ricordi?»
Uno spiraglio si apre nella mente del dottore, aprendo un
grosso occhio sul passato: Jordan, l'unico amore di Owen³, il
ragazzo che lui allora credeva d'aver salvato. Ora sa che, in
realtà, non c'è salvezza per quelli come lui.
Per noi.
«Oh, sì, certo. Mi ricordo di
te.»
Dall'altro capo del telefono proviene una risatina. Tutta
quella spensieratezza, malgrado i drammi del ricordo, lo intenerisce.
«Vorrei ben dire. Sono appena atterrata a Washington. So che
è tardi, quindi possiamo vederci anche domani
mattina.»
Spencer strizza gli occhi, confuso: di cosa sta parlando?
«Jordan, non credo di capire...»
«Ma come? Mi hai chiesto di venire a Washington,
per...sai, qualcosa che riguarda Owen...» gli dice,
bisbigliando in modo circospetto.
Spencer conferma e la saluta, con la sola intenzione di
riagganciare quell'assurda telefonata.
Poggia la schiena alla penisola della cucina e cerca di
ricordare.
Jordan Norris
soffre di un lieve ritardo mentale, nulla fa supporre deliri o idee di
riferimento.
Spencer conclude che l'ipotesi più
probabile è riconducibile a quella notte d'amnesia: deve
aver contattato la ragazza e ora non ne ha memoria. Ma
perché chiamare Jordan? E, soprattutto, cos'altro ha fatto?
Molla tutto dove capita e si dirige in bagno: ha davvero bisogno di una
doccia.
Sistemerò tutto domani, si dice. Deve esserci una spiegazione.
Mentre l'acqua calda gli penetra in ogni poro, i muscoli
riescono a rilassarsi e la mente sembra sciogliersi.
Tutto si
sistemerà.
¹Si parla della teoria di Cesare Lombroso, oramai sorpassate.
Per chi vuole approfondire, Cesare
Lombroso su Wikipedia
²Citazione tratta da Ristorante
al termine dell'universo di Douglas Adams.
³Episodio 16 della Terza stagione Memoria da elefante.
Note:
Ringrazio chi mi sta seguendo, chi sta commentando la mia storia e chi,
in fondo, mi sta spronando a pubblicarla.
Vi sono davvero grata.
Ax.
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