Penne 0+01
06/01/2016
ATTENZIONE - PREMESSA INDISPENSABILE!
Buongiorno
a tutti e buon anno!
Dopo
qualcosa come sei anni dall'ultimo aggiornamento torno a prendere in
mano questa storia per darle un degno (si spera) finale.
Per
farlo, purtroppo, è stato necessario un corposo lavoro di
restyling che è durato circa due anni. Volevo una storia che
mi convincesse, a cui potessi dedicarmi con passione e non storcendo il
naso, e per farlo ho dovuto praticamente riscriverla. C'erano
sottotrame macroscopiche che mi infastidivano e dettagli che non mi
piacevano, così ho tirato su le maniche e mi ci sono messa
con impegno.
E'
stata dura. Non volevo cancellare completamente quello che era stato
fatto, ma volevo anche che si sentisse il nuovo amore che ci ho messo.
Tanti anni fa, quando ho scritto questi capitoli per la prima volta,
ero in un periodo difficile della mia vita e faticavo tantissimo a
trovare l'ispirazione. Mi hanno detto che si percepiva, e in effetti
devo ammettere che è vero. Spero che oggi le cose siano
diverse, anche se vorrei aver mantenuto le atmosfere che erano state il
successo della prima versione.
I
capitoli verranno pubblicati inizialmente a piccoli gruppi (per non
annoiare i vecchi lettori ma nemmeno scoraggiare i - forse - nuovi),
poi, una volta raggiunto il punto in cui la storia diventa a tutti gli
effetti inedita, rallenterò inevitabilmente il ritmo. Per il
momento vi rassicuro dicendo che sono pronti già 31
capitoli... sempre che non la vediate come una minaccia!
Ricordo a tutti che questa storia è concepita come una
prosecuzione alternativa di Naruto. Considerate che praticamente non
tiene conto degli eventi dello Shippuuden (quindi Jiraya e Asuma sono
vivi e vegeti), e soprattutto è il seguito di altre due
storie precedentemente pubblicate: "Sinners" e "Il peggior ninja del
Villaggio della Foglia"... Che sono scandalosamente lunghe, e quindi
non vi biasimerò se interromperete qui la lettura.
Per
ragioni personali molto forti, inoltre, non ho intenzione di cancellare
i capitoli fino al 35, ma li lascerò vuoti e in sospeso fino
al momento in cui saranno riempiti. Quei capitoli portano le tracce di
qualcuno che non c'è più, e voglio che non
scompaiano.
Prima
di lasciarvi alla lettura, un'ultima cosa: in questi giorni ho riletto
le recensioni a "Sinners" e ad altre opere che ho pubblicato in passato.
Se qualcuno di quegli antichi lettori si trovasse a scorrere queste
righe, sappiate che vi ringrazio dal più profondo
del cuore. Mi sono commossa rileggendovi. Vorrei tanto riuscire a darvi
di nuovo una cosa altrettanto coinvolgente e trascinante. Grazie a
tutti! Mi avete fatto riassaporare la vecchia atmosfera di efp, quando
il fandom di Naruto era casa mia e i buoni autori si conoscevano tutti
tra loro... Grazie davvero.
Clà,
tutto questo è dedicato a te.
Prologo
Era
rimasto così poco di quel tratto di foresta.
Lo
sguardo spaziava per centinaia di metri percorrendo una desolazione
quasi assoluta, sorvolava tronchi anneriti, foglie accartocciate che
turbinavano nella brezza, dune di cenere che si alzava e mulinava
infilandosi giù per la gola. Un deserto bianco e nero.
Ma,
nei suoi occhi, ancora scarlatto, oro e giallo. E rovente.
Eppure
in quel momento faceva freddo. La pelle d’oca sulle sue
braccia non
era dovuta alla paura, all’ansia, all’angoscia che
aveva provato
davanti alle fiamme, ma soltanto al vento gelido che soffiava sullo
spiazzo. Un tuono rombò tra le nubi basse. I lampi correvano
da una
parte all’altra del cielo, inseguendosi rapidi come un
battito di
ciglia. La prima goccia di pioggia cadde su un mucchietto di cenere;
uno sbuffo bianco si sollevò nell’aria, poi un
altro e un altro
ancora. Nel giro di pochi minuti il terreno si trasformò in
un
pantano grigio e vischioso in cui i resti di legno carbonizzato
emergevano come isolotti solitari.
Kotaro
non sentiva le gocce che picchiettavano sulle sue spalle né
i
capelli che si appiccicavano alla nuca. Non sentiva il freddo,
anomalo per quel mese, insinuarsi sotto i vestiti, sotto le bende,
fino alla carne, non sentiva nemmeno il suo cuore che batteva. Nelle
orecchie avvertiva soltanto il rombo lontano dell’incendio,
davanti
agli occhi vedeva divampare le fiamme. Abbassò lo sguardo
allontanandolo dai resti lasciati dal fuoco, e rivoletti
d’acqua
gelida gli corsero lungo il collo senza strappargli alcun brivido.
Si
sentiva inutile. Debole e inutile. Per questo i ricordi trovarono il
modo di insinuarsi ancora una volta oltre le sue deboli difese.
Lingue
di fiamma s’alzavano e abbassavano con ritmo irregolare,
risucchiando l’aria e la vita stessa, portando via anni,
sentimenti, tutto un passato. Parole dolorose gli rintronavano in
testa, ossessive e terribili. Avevano sbagliato qualcosa; no, lui
aveva sbagliato tutto. Sentiva il calore del fuoco sulla pelle, il
dolore dei polmoni che cercavano ossigeno, eppure avanzava, stordito,
incapace di comprendere, di realizzare; avanzava e gridava la forza
della sua convinzione, anche se quella forza defluiva come un
torrente ad ogni nuovo passo.
Alla
fine cadeva, impotente. Cadeva, precipitando nel nulla più
oscuro...
«Maledizione...»
mormorò tra i denti serrati convulsamente.
«Maledizione!» ripeté
in un grido, il collo teso e i muscoli doloranti, i capelli che
stillavano gocce d’acqua gelida.
Una
fitta alla schiena lo colse impreparato, saettando lungo la spina
dorsale ed espandendosi dalla testa ai piedi; le gambe cedettero e
cadde in ginocchio, affondando nella cenere impastata. Ansante,
sentì
le mani immergersi nella poltiglia sotto di sé - cadaveri
- e
ne provò disgusto.
«Non
doveva finire così!» ansimò, stringendo
i pugni attorno alla melma
grigia. «Non così!»
In
quel momento, ancora offuscati dai residui del dolore, i suoi occhi
distinsero qualcosa accanto allo scheletro di un tronco. Con gesto
automatico Kotaro tese la mano e lo estrasse dalla cenere. Era una
piuma, un oggetto tanto fuori dal contesto da sembrare surreale. Una
piuma sporca, bagnata, grigia, ma sorprendentemente intatta. Sapeva
qual era il suo vero colore oltre la crosta.
«Non
doveva essere così...» gemette di nuovo. Le sue
spalle si piegarono
sotto il peso del rimpianto, di tutto quello che avrebbe potuto fare
e non aveva fatto, delle promesse non mantenute e della delusione
cocente della realtà sbattuta in faccia.
Un’ombra,
nascosta tra gli alberi poco distanti, sorrise
nell’oscurità. Un
lampo fece brillare sinistramente una fila regolare di denti bianchi
e poco più in basso, tra le dita, barlumi di metallo
affilato.
«Hai
perfettamente ragione.»
Un
sibilo veloce, che si confuse con lo scroscio della pioggia, e il
breve luccichio della lama che fendeva l’aria.
Un
tonfo leggero e attutito, un gemito involontario.
Dalla
sua posizione tra i rami l’ombra vide il kunai affondare nel
dorso
dello shinobi, infilandosi tra le coste e perforando i polmoni. Le
sue labbra si incresparono di nuovo mentre il ragazzo cadeva riverso
in avanti, gli occhi stupiti che si accecavano nella poltiglia
grigia.
Uno
sbuffo di fumo disperso dall’acqua e l’ombra
scomparve.
Testimoni
di ciò che era accaduto restarono soltanto la pioggia, e
piume nella
cenere.
Piume
nella cenere
Capitolo
primo
Festa
di compleanno
Singhiozzi
sommessi, fruscii impercettibili di piedi che scivolano sul legno.
«No,
per favore no...»
Una
supplica, fatta con voce tremante e quasi impercettibile da un angolo
del pavimento polveroso.
Non
era una vera e propria capanna. Era più un riparo di
fortuna,
quattro assi messe insieme per difendersi dalle intemperie.
C’era
uno spiraglio che fungeva da finestra sulla parete opposta alla
porta, ma era sprangato e lasciava entrare soltanto listarelle di
luce grigia in cui la polvere si muoveva lentamente.
«Ti
prego, lasciami andare... Non uccidermi, per favore, non volevo nulla
di tutto questo...» Di nuovo la stessa voce di ragazza, il
fruscio
irregolare, un respiro spezzato nella penombra. «Ti
prego!»
In
un altro angolo giaceva un involto macchiato di sangue, gettato con
malagrazia sul pavimento ammuffito e lì dimenticato.
Un’ombra si
muoveva nello spazio ristretto della baracca.
«Zitta»
sibilò malevola prima di raggiungere la finestra sprangata e
guardare fuori.
Nella
foresta regnava la quiete del mattino, nulla si muoveva tra le
foglie. Una risata tagliò l’aria viziata.
«Li
abbiamo seminati, eh?» chiese la voce. Il suo proprietario,
un uomo
giovane dalla barba mal rasata, si passò una manica sulla
fronte
imperlata di sudore. Con passo leggero raggiunse l’angolo da
cui
proveniva il pianto sommesso e si accucciò appoggiando i
gomiti alle
ginocchia. Un raggio di luce gli attraversava la faccia da zigomo a
zigomo, evidenziando gli occhi affilati e un coprifronte con inciso
il simbolo della Roccia. «Su, non fare così.
Guarda il lato
positivo: non dovrò ucciderti per creare un
diversivo.»
Un
gemito si sollevò dal corpo che tremava
nell’angolo. «Per favore!
Non volevo nemmeno fare questo lavoro, io volevo solo vivere una vita
tranquilla! Lasciami andare, ti prego...» implorò
la voce, e una
mano leggermente abbronzata si tese nel raggio di luce verso il ninja
della Roccia.
«Lasciarti
andare?» rise quello, afferrando il polso che si protendeva
verso di
lui. Con il pollice accarezzò rudemente il palmo graffiato.
«Ma no»
decise, socchiudendo le palpebre. «Ho un’idea
migliore.»
L’uomo
tirò a sé il braccio, e il corpo di ragazza ad
esso attaccato fu
strattonato avanti contro la sua volontà. Capelli neri
trattenuti da
una coda alta frusciarono sul pavimento polveroso mentre la mano
libera frenava la caduta all’ultimo secondo.
«Come
kunoichi sei pessima, ma non sei male come femmina»
commentò l’uomo
tirandola in ginocchio a forza. «Quindi, visto che i tuoi
compagni
ti hanno abbandonata, posso occuparmi io di te, almeno per un
po’»
le sollevò il mento, facendo in modo che la luce fioca le
illuminasse il viso, scorrendo su occhi neri spaventati e una
cicatrice che tagliava il sopracciglio sinistro in una linea quasi
bianca.
«Per
favore, non...» iniziò la ragazza aggrappandosi
alla sua divisa da
Jonin, ma lui bruscamente strinse le mani sulle sue braccia.
«Com’è
che ti chiamavano?» chiese ignorando le sue lacrime. La
spinse
schiena a terra, scivolando carponi su di lei. «Ah, ora
ricordo...»
nella penombra sporca e polverosa sorrise come davanti a
un’importante conquista, e il nome che arrotolò
sulla lingua aveva
una morbidezza lasciva da far accapponare la pelle: «Chiharu,
giusto?»
«Non
arriveremo mai in tempo.»
Ansiti
veloci, mescolati al fruscio delle foglie e agli schiocchi dei
rametti spezzati sotto i piedi. Quando i ninja si muovono sono rapidi
e silenziosi, ma quando sono di corsa riescono ad essere soltanto
rapidi. Era un gruppetto compatto ma frettoloso quello che balzava in
quel momento da un ramo all’altro della foresta, seguendo una
pista
quasi invisibile. Sui coprifronte di tutti i membri balenava il
simbolo della Foglia, alle cinture erano appesi kunai e shuriken.
«Dici
che non ce la facciamo?» domandò lo shinobi alla
guida del gruppo
stirando le labbra in un sorriso.
«Sì
invece» disse tra i denti quello che lo seguiva
più da vicino, un
ragazzo dalle sopracciglia incredibilmente folte e dal taglio di
capelli curiosamente
ovoidale.
«Dobbiamo solo aumentare la velocità!»
«Aumentarla
ancora? E che facciamo, lasciamo indietro i polmoni?»
ansimò il
compagno alle sue spalle, un giovane dai lineamenti morbidi
decisamente più attraente ma anche più affaticato.
«Non
ti alleni abbastanza, Hitoshi!»
«Mi
piace restare entro i limiti umani!»
«Se
avete fiato da sprecare possiamo davvero aumentare il passo»
intervenne lo scompigliato biondo che li guidava, scoccando a
entrambi un’occhiata ghignante. Sembrava il più
anziano dei tre,
ma tutto nel suo atteggiamento provava a nasconderlo.
«Piano
con le minacce!» gridò dal fondo una quarta voce,
femminile questa
volta. Qualche ramo più indietro l’unica ragazza
del gruppo
arrancava ansimando, con un solco di disappunto disegnato in mezzo
alla fronte. Sopra l’occhio sinistro una cicatrice le
tagliava il
sopracciglio in verticale; sotto, un livido violaceo faceva bella
mostra di sé. Il suo nome era Chiharu Nara.
«Non
fare la pigrona, questo è tutto lavoro di gruppo»
sentenziò il
biondo con aria di rimprovero.
«E
poi è colpa tua se siamo in ritardo» aggiunse
quello che chiamavano
Hitoshi, il ragazzo attraente che correva poco più avanti.
«Tua e
dei tuoi errori di calcolo» insinuò, sventolandole
davanti lo
stesso involto macchiato di sangue che era stato nella capanna
polverosa.
La
kunoichi sul fondo lo fulminò con lo sguardo. «Non
ho sbagliato
nulla» sbottò. «Era tutto
previsto.»
«Anche
il livido su quello zigomo? E’ davvero poco
elegante.»
«Non
confonderti, Uchiha, non stiamo parlando della tua faccia. Io non
passo mezzora davanti allo specchio ogni mattina pensando a quanto
sono affascinante.»
«Beh,
è evidente che possiamo andare almeno al doppio
dell’attuale
velocità» li informò il biondo
interrompendoli.
«Allenamento!»
approvò lo shinobi dalle sopracciglia folte con un brillio
di
entusiasmo nello sguardo.
«Asp...!»
iniziò la ragazza, ma non era arrivata ancora alla quarta
lettera
che l’intero gruppo era schizzato avanti. «Io li
odio!» ringhiò
tra i denti, e suo malgrado aumentò il passo.
Sarebbero
dovuti passare di lì più di un’ora
prima, secondo i piani.
Stavano
portando a termine una delle banali missioni di livello A in cui
dovevano recuperare un documento che una spia aveva sottratto ai loro
archivi. Erano partiti all’inseguimento del ladro guardando
l’orologio ogni mezzora, perché quella sera
avevano un impegno a
cui nessuno di loro voleva mancare, poi però avevano avuto
il
classico minuscolo intoppo che capita sempre quando si ha fretta: la
spia si era rivelata più in gamba del previsto, la caccia si
era
trasformata in uno scontro all’ultimo sangue e loro avevano
realizzato che non sarebbero mai tornati a Konoha in tempo.
Così
Chiharu se ne era uscita con la sua brillante idea: fingere un
errore, lasciarsi prendere in ostaggio, mostrarsi debole e impaurita
e quando il ninja della Roccia avesse abbassato la guardia
neutralizzarlo in fretta e senza tante storie. Era sembrato un buon
piano finché non si era ritrovata sotto il nemico, con il
suo alito
acido a solleticarle il naso e un sasso scomodamente conficcato tra
le reni. Allora aveva cercato di concludere in fretta con un calcio
ben piazzato tra le gambe, ma l’altro, tra contorsioni di
bruciante
agonia, aveva tentato di ribattere con un pugno dritto in faccia, da
cui il livido.
Quando
il resto del gruppo aveva raggiunto la baracca nel bosco, dello
shinobi rimaneva soltanto un fagotto tumefatto.
“ Ha
fatto una cosa molto stupida” era stata la spiegazione di
Chiharu,
che continuava a tastarsi lo zigomo pulsante di dolore.
“ Spero
di non farne mai, quando ci sei tu nei paraggi” aveva
risposto
Naruto.
*
«Shh!
Sei rumorosa quanto un branco di pecore!» sibilò
una vocina
irritata nell’oscurità.
«Gregge,
non branco» la corresse un’altra.
«E’
la stessa cosa!»
«Di
chi è il gomito nel mio stomaco?» chiese una terza
voce, soffocata.
«Scusa»
rispose una quarta.
Qualcuno
sbuffò, e le foglie frusciarono scuotendo l’intero
cespuglio.
«Ma
perché mi sono lasciata coinvolgere?»
mugugnò una quinta voce,
leggermente più indietro.
«Zitta,
Mei!» sibilò la prima. «Finalmente
riusciamo a vedere qualc...
oh!» squittì all’improvviso, eccitata.
«E’ arrivato!»
Un
breve sconvolgimento di rami e radici, e quattro corpi in posizioni
contorte si ammassarono su un unico lato, sporgendosi fin quasi oltre
il riparo offerto dalle foglie. Un sospiro collettivo si
levò da
otto polmoni diversi.
«E’
sempre il più bello» commentò una voce
sognante.
«Beh,
il termine di paragone è mio fratello»
bofonchiò quella che prima
si era lamentata. «Chiunque ne uscirebbe vincitore.»
«Zitta!
Vuoi farci scoprire?» insorse di nuovo la prima voce, e il
volume
questa volta fu così alto da essere chiaramente udibile.
«Ha
guardato di qua!» strillò un’altra con
un misto di eccitazione e
panico nel tono. «Oddio,
si sta avvicinando!»
«Via!»
Altro
burrascoso ammassamento di rami, braccia e gambe che si incastrano.
Tra sibili e imprecazioni quattro ragazzine sui quattordici anni
emersero dal cespuglio con le acconciature irrimediabilmente rovinate
e le braccia coperte di graffi. Inciamparono nei loro stessi piedi,
si insultarono e infine piombarono a terra sbattendo il naso sul
terriccio umido.
«Bene
bene... Violazione
di domicilio, direi» commentò una voce flautata
sopra di loro.
Quattro
paia di occhi seguirono il contorno di un paio di piedi protetti da
sandali neri, risalirono lungo le caviglie scoperte, i polpacci
muscolosi e le gambe fasciate in pantaloni al ginocchio; e poi su,
lungo la maglia a rete e il top che copriva il seno, fino a un viso
terribilmente noto e spaventoso. Un viso il cui sopracciglio sinistro
era tagliato da una cicatrice trasversale e che aveva un livido
violaceo a decorarlo.
Chiharu
Nara fissò le quattro intruse con un sorriso che sarebbe
stato dolce
se non fosse stato platealmente falso.
«Volete
un pasticcino?» chiese accucciandosi alla loro altezza.
«E’ la
mia festa di compleanno, no? Siete venute fin qui, almeno mangiate
qualcosa.»
«Ecco,
noi, veramente...» balbettò la ragazzina sotto le
altre, a corto di
fiato.
«Dai,
lasciale andare» sbuffò una voce alle spalle di
Chiharu.
Le
quattro a terra sentirono il cuore rimbalzare dalla gola
all’osso
sacro. Con timore e reverenza si spostarono in modo da vedere oltre
le spalle della ragazza, per scoprire che si trovavano a meno di un
metro dal protagonista indiscusso dei loro sogni d’amore,
dall’obiettivo della missione di spionaggio di quella sera,
dal
sacro idolo che abitava le fantasie delle femmine di Konoha dai
dodici ai vent’anni: Hitoshi Uchiha, in tutto il suo
splendore di
affascinante erede del clan Uchiha, per l’occasione di bianco
vestito.
Se
non fossero già state a terra sarebbero svenute sul posto.
«Si
sono imbucate alla mia festa» disse Chiharu lamentosamente,
appoggiando un gomito al ginocchio e il mento sulla mano.
«Che
almeno rubino qualcosa dal rinfresco.»
«Noi
non volevamo...» pigolò una delle ragazzine,
arrossendo fino alle
orecchie.
«Farvi
scoprire?» suggerì la kunoichi.
«Suppongo
di no» commentò Hitoshi, le mani affondate in
tasca. Gettò
un’occhiata al cespuglio da cui le quattro erano spuntate e
vide
una quinta sagoma rannicchiata nella speranza di diventare
invisibile. «Una c’era quasi riuscita.»
La
ragazzina nell’ombra sospirò, rassegnandosi
all’inevitabile, e
di malavoglia scostò i rami e si tirò in piedi.
«Mei?»
si sorprese Chiharu.
«Ci
tengo a precisare che mi hanno coinvolta contro la mia
volontà!»
brontolò lei arrossendo, e cercò inutilmente di
liberare i capelli
corti dalle foglie che erano rimaste impigliate.
«Me
lo auguro, visto che tu avevi un invito ufficiale e lo hai
rifiutato»
commentò Chiharu.
E
certo che l’aveva rifiutato. Una quattordicenne a disagio
alla
festa dei diciotto anni della kunoichi più odiata e
invidiata di
Konoha, soltanto perché condivideva almeno il sette per
cento del
patrimonio genetico con un suo compagno di squadra?
Quell’invito le
era arrivato solo per dovere, solo perché era il quarto
membro della
famiglia Lee: non si sarebbe mai sognata di prenderlo sul serio.
«Le
porto via» borbottò accennando alle ragazzine a
terra. «Scusate il
disturbo.»
«Ma
no, è stato divertente» ghignò Chiharu,
strappando un brivido alle
intruse. «Tanto questa festa è un
mortorio.»
Mei
aiutò le amiche ad alzarsi, sospirò e rispose
svogliatamente al
cenno di saluto di Chiharu. Le altre si allontanarono incassando la
testa tra le spalle e lei le seguì cupamente.
«Perché
diavolo mi sono lasciata trascinare?» borbottò tra
sé e sé.
File
di lucine gialle correvano al di sopra del giardino dei Nara
intrecciandosi in corrispondenza di tavoli e sedie. Il cielo terso
era solcato da una mezza luna piccola ma nitida, e un’arietta
leggera portava tutt’intorno l’odore dei pruni
selvatici che
fiorivano in abbondanza nella vicina foresta del clan.
Il
due maggio, alla festa di compleanno di Chiharu Nara, era presente
metà della nobiltà di Konoha: i soli membri dei
clan Hyuuga, Uchiha
e Uzumaki avrebbero costituito di per sé materiale pregiato,
ma per
alzare la posta erano anche circondati da storici eroi della Foglia e
personaggi dalle parentele illustri.
Al
centro delle attenzioni c’era il capogruppo della
festeggiata, il
biondo Naruto Uzumaki, che si dava da fare per intrattenere gli
ospiti raccontando chissà quale storia di
gioventù. Da quando le
sue missioni erano diventate ben poco allegre e molto condite di
sangue e feriti aveva preferito variare il tema e buttarla sul ridere
raccontando degli esordi. Sua moglie, ex membro del nobilissimo clan
Hyuuga, era seduta a breve distanza accanto a Yoshino Nara, e di
tanto in tanto alternava un’occhiata al marito e una ai tre
figli
che li accompagnavano, impegnati nella meticolosa esplorazione del
giardino.
Appollaiati
sulle varie sedie messe a disposizione dai Nara e sistemati in
cerchio attorno a Naruto c’erano i Lee, marito e moglie, gli
Akimichi, i coniugi Uchiha, Shikaku Nara e ovviamente i padroni di
casa. Il tavolo degli stuzzichini era posizionato strategicamente a
portata di mano di Choji Akimichi.
Eppure,
nonostante la festa fosse per i diciotto anni di Chiharu,
l’età
media degli invitati era ben al di sopra dei vent’anni.
«Hai
ragione, è un mortorio» dovette convenire Hitoshi
dall’angolo
scuro in cui aveva scoperto le piccole spie con Chiharu. «I
racconti
di Naruto fanno ridere solo chi c’era allora.»
«E’
già un miracolo che alla fine siamo arrivati in tempo. E poi
meglio
soli che male accompagnati» citò Chiharu in un
tono che non
convinceva neanche lei.
«La
classica scusa degli asociali» sorrise lui scoccandole
un’occhiatina
di superiorità. «E comunque non sono del tutto
certo che la
compagnia qui sia ottima...»
Con
un cenno del mento indicò il tavolo degli alcolici, dove
Kotaro
cercava di fare l’indifferente e intanto studiava ogni
etichetta,
ma soprattutto indicò il ragazzo biondo che si versava un
bicchiere
di sakè a qualche passo da lui. Doveva avere più
o meno la loro
età, e il colore dei suoi capelli era così acceso
da indurre
chiunque a definirlo giallo,
più che biondo.
«A
me Yoshi piace» commentò Chiharu in tono un
po’ sostenuto.
«Bah»
fece Hitoshi, frugando nelle tasche alla ricerca di qualcosa.
«Almeno
non c’è Sai» bofonchiò
tirando fuori un pacchetto di sigarette.
Chiharu
non commentò. Se non aveva invitato lo shinobi
più impassibile di
Konoha pur avendo invitato quasi tutti i suoi coetanei era per una
buona, anzi un’ottima ragione.
«Allora,
finalmente ti sei decisa a dare quel benedetto esame?» chiese
Hitoshi dopo essersi acceso la prima sigaretta. Inspirò una
boccata
ed espirò, osservando il fumo che saliva lento verso la luna.
«No»
rispose lei in tono vago.
«Mi
fai incazzare... Sai che è praticamente una
formalità, ma sei così
pigra che non hai voglia nemmeno di iscriverti.»
«A
che mi serve essere Jonin? Tanto le missioni di livello A me le danno
comunque, dov’è il problema?»
«Non
c’è nessun problema» disse Hitoshi
mellifluo. «Se non che sulla
carta io e Kotaro siamo a un livello superiore.»
Chiharu
lo guardò storto. «Se questa è la tua
strategia ti informo che non
funzionerà due volte. Mi sono già fatta fregare
con l’esame per
Chunin, non ripeterò lo stesso errore.»
Qualche
anno prima, in occasione delle selezioni per passare di grado, Kotaro
e Hitoshi non solo avevano iscritto la reticente compagna a sua
insaputa, ma erano anche riusciti a sobillarla nel bel mezzo di una
prova, spingendola a darsi da fare per superarla come se ne andasse
della sua vita. Era bastato farle trovare davanti Baka Akeru e la sua
debordante strafottenza, aggiungere qualche parolina discreta, e
Chiharu si era subito infiammata. L’esame poi era finito in
fretta.
Hitoshi
si strinse nelle spalle e sbuffò. Chiharu era
l’unico essere umano
in grado di farlo incazzare in meno di cinque parole di senso
compiuto. Meglio di lei c’era solo Baka, ma lui partiva
avvantaggiato perché era odioso a prescindere. Irritato,
l’Uchiha
aspirò una boccata dalla sigaretta e si massaggiò
una tempia con le
dita.
«Emicrania?»
chiese Chiharu, appigliandosi alla prima distrazione per cambiare
discorso.
«Colpa
tua» bofonchiò lui.
«O
magari della tua testaccia bacata» replicò lei
puntigliosa. «Inizio
a pensare che ti piaccia soffrire, visto che hai una madre medico e
ti ostini a non farti fare un controllo come si deve.
L’autolesionismo è un problema, sai?»
Hitoshi
studiò per qualche istante la sua sigaretta, senza
commentare, poi
aggrottò la fronte. «Sta’ zitta,
stupida: non si scherza su
queste cose.»
Chiharu
sospirò. «Guardandoti capisco quanto sono
fortunata ad essere
figlia unica.»
Hitoshi
sorrise amaro e lasciò cadere a terra il mozzicone ormai
esaurito,
calpestandolo sotto un piede. Alzò lo sguardo per
controllare che il
cespuglio che lo nascondeva alla vista dei suoi genitori fosse ancora
al suo posto, quindi scrollò le spalle.
«Dovresti
compiere il tuo dovere di festeggiata e farti vedere tra gli
invitati» mormorò ravvivandosi i capelli scuri.
«Giusto.
E fermiamo Kotaro prima che porti via una bottiglia di
sakè»
sospirò lei accennando alla zona alcol.
Insieme
si avviarono verso l’angolo del giardino da dove provenivano
le
risate degli adulti, e Chiharu sorrise a Naruto che le faceva cenno
di avvicinarsi.
«Penso
io a Kotaro» le disse Hitoshi separandosi da lei.
Il
tavolo degli alcolici era poco distante da quello degli stuzzichini,
ma lì le risate giungevano attutite e le voci smorzate.
Hitoshi
raggiunse Kotaro alle spalle.
«Lascia
perdere, idiota» fu il primo gentile commento che gli rivolse.
Il
giovane Lee trasalì e fece un passo indietro.
«Non
stavo facendo niente!»
«Lo
sai che non puoi toccarne neanche un goccio»
replicò Hitoshi, e con
gelida perfidia prese un bicchiere e lo riempì lentamente.
«Non
è colpa mia se non lo reggo» si lamentò
Kotaro affranto. «E’
colpa di papà. Avrebbe dovuto abituarmici pian
piano...»
«O
magari avrebbe dovuto evitare di trasmetterti i geni sbagliati. Con
la sbornia facile poteva passarti almeno la tecnica
dell’ubriaco,
invece niente» ribatté l’Uchiha, bevendo
il primo sorso e
ricacciando giù le spontanee smorfie di disgusto. Non era un
grande
amante dell’alcol, ma stuzzicare Kotaro era uno dei suoi
passatempi
preferiti.
«Tuo
padre invece ti ha trasmesso la simpatia» brontolò
Kotaro tra i
denti.
Lui
e Hitoshi rimasero in silenzio per qualche minuto, fissando gli
adulti che ridevano tra loro. Più oltre, nella zona buia del
giardino, cinque bambini sbucavano e scomparivano tra i cespugli
fingendosi grandi ninja in missione.
«Dov’è
Haru?» chiese Kotaro corrugando la fronte.
Hitoshi
la cercò con lo sguardo tra gli adulti ma non la
trovò, e nel
contempo si rese conto che mancava anche un’altra persona.
Prima
che potesse controllarsi gli sfuggì una smorfia di
irritazione.
«Guarda
caso è sparito anche lo stupido pulcino»
mormorò studiando il sakè
nel suo bicchiere.
Kotaro
si rabbuiò a sua volta. «Cosa ci trova in lui,
poi...»
«Sono
idioti uguali, probabilmente. Lei perché è lei,
lui perché si è
ossigenato anche il cervello quando si è fatto
biondo» commentò
Hitoshi.
Kotaro
si lasciò sfuggire un sorrisino e prese un bicchiere vuoto.
«Kanpai»
disse in tono rassegnato, stringendosi nelle spalle.
L’Uchiha
toccò il bicchiere con il suo, e la plastica
scricchiolò nell’aria
tiepida.
«Ok.
Nessun pericolo.»
«Nulla
nemmeno di qui.»
«Qui
neppure.»
«Allarme!»
Cinque
sagome balzarono fuori dai cespugli e si avventarono
sull’ombra
che, incauta, aveva osato avvicinarsi abbastanza da costituire una
minaccia. Ci fu una breve colluttazione, infarcita di strilletti
acuti, imprecazioni ingenue e tonfi, dalla quale emersero in
posizione eretta soltanto due ragazzini.
«Hanno
cinque anni!» protestò quella tra i due che
sembrava una femmina,
additando i bambini che si rialzavano doloranti.
«Mi
hanno attaccato» replicò l’altro.
«Sapevano cosa aspettarsi.»
«Sì,
il trattamento riservato ai bambini di cinque anni!»
«Zitta
Hina!» scattò il primo dei piccoli che si era
rialzato, premendo
una mano sulla guancia arrossata e tenendo le mascelle contratte nel
tentativo di impedirsi di piangere. Biondo e scompigliato, aveva
occhi di un azzurro molto chiaro ed era probabilmente il più
basso
del gruppo. «Siamo ninja, sappiamo come funziona!»
decretò
orgoglioso.
La
ragazzina che li aveva difesi grugnì e incrociò
le braccia sul
petto, roteando gli occhi candidi. «Ninja!»
ripeté sarcastica.
«Non sai nemmeno raccogliere il chakra, che ninja vuoi
essere?»
Il
bambino arrossì indignato. «Ho solo cinque
anni!» sbottò con voce
vibrante d’orgoglio. «Vedrai che quando ne
avrò quindici dovrai
rispettarmi, stupida sorella!»
«Intanto
tu
vedi di
rispettare me»
sibilò Hinagiku Uzumaki facendogli arrivare un pugno sulla
nuca. «Forza,
andate a giocare altrove, sciò» aggiunse poi,
rivolgendosi questa
volta anche agli altri tre bambini.
«Io?»
balbettò quella un po’ più grande, una
bambina con i suoi stessi
occhi chiari.
«Anche
tu!»
«Sì,
andiamocene» con un brillio malvagio il bambino biondo
scoccò
un’occhiata al ragazzino che aveva cercato invano di
attaccare, ora
silenzioso e vagamente incuriosito. «Mia sorella deve dire a
Jin che
lo ama tanto» concluse perfido.
Hinagiku
avvampò di rabbia. «Ti ammazzo!»
gridò, facendo per avventarsi
sul fratello, ma quello con un gridolino sgusciò via.
«Scappiamo!»
rise, e corse tutto allegro verso il centro del giardino e la
salvezza rappresentata dagli adulti. «Abbiamo tante altre
missioni
da portare a termine anche senza di te!» aggiunse prima di
sparire
dietro il tavolo degli stuzzichini, regalandole un’ultima
boccaccia. L’altra sorella lo guardò incerta, poi
notò gli occhi
furenti di Hinagiku e decise di accodarsi in tutta fretta. Gli ultimi
due bambini, rispettivamente un maschio dagli sconvolgenti capelli
rosa e una femmina castana e paffuta, sbuffarono.
«Stupido
Micchan, perché finisce sempre così?»
si lamentò la bambina.
«Dobbiamo correre, correre e correre quando
c’è lui di mezzo...»
«Sappiamo
com’è fatto» commentò il
bambino stringendosi nelle spalle.
Aveva un occhio verde e uno di un rosso intenso, che insieme ai
capelli rosa lo rendevano particolarmente poco mimetico.
«Andiamo a
mangiare qualcosa?» propose.
«Sì!»
gli occhi azzurri della bambina si accesero di entusiasmo, e con un
ciao frettoloso entrambi corsero via.
Hinagiku
digrignò i denti. «Ehi, guarda che non diceva mica
sul serio!»
scattò subito, fissando ansiosamente il ragazzino che le
stava
davanti.
Lui
ricambiò lo sguardo senza scomporsi, gli occhi blu pacati e
vagamente divertiti. «Ma certo.»
«E’
uno stupido bambino idiota!» continuò lei
infervorata. «Cioè,
pensa te se io devo... Con te, poi, che a volerla dire tutta mi stai
anche antipatico!»
«Davvero?»
«No!»
si affrettò a negare lei, arrossendo di nuovo.
«Cioè, un po’. Ma
solo un pochino. Insomma, sei un po’ troppo bravo in... in...
beh,
in tutto, per essere simpatico.»
«Immagino
di sì» constatò lui, riflessivo.
Hinagiku
si maledisse mille volte. «Comunque non mi piaci»
ci tenne a
chiarire assottigliando gli occhi.
«Va
bene» l’altro annuì. E lei si
sentì un po’ delusa. «Devo
ancora dare il suo regalo a Chiharu» continuò lui,
cercando la
festeggiata con lo sguardo.
Hinagiku
sentì un piccolo peso sullo stomaco. Aveva aspettato che Jin
Hatake arrivasse per metà della serata, e appena faceva la
sua comparsa se
ne andava da un’altra? Forse non avrebbe dovuto unirsi al
finto
attacco dei suoi fratelli, prima; aveva pensato che fosse un modo
scaltro per avvicinarlo, ma probabilmente lo aveva solo indispettito.
«Dieci
minuti fa stava parlando con il suo amico biondo»
borbottò,
notevolmente più fredda. «Ora non so dove si siano
cacciati.»
«Lo
darò a sua madre» Jin la guardò un
istante più del dovuto, come
se esitasse. «Mi accompagni?»
Hinagiku
si illuminò. Accorgendosene schiarì la voce e
cercò di darsi un
contegno. «Va bene» disse noncurante, stringendosi
nelle spalle in
maniera così innaturale che si stirò un muscolo
del collo.
«Comunque ti faccio notare che prima non mi hai
atterrata» aggiunse
dopo un momento, tutta orgogliosa.
Jin
sorrise senza farsi vedere. Era appena rientrato da una missione di
livello A insieme a un Jonin che aveva fatto parte degli Anbu.
Hinagiku, per quanto avesse solo un anno meno di lui, non aveva
ancora finito l’Accademia.
Certe
cose non accadono per caso.
«Come
al solito!» sbuffò Naruto piegando la testa
all’indietro. «Io
l’ho sempre detto che quell’uomo non era adatto a
fare l’Hokage!
Non riesce neanche a liberarsi per un paio d’ore, roba da
matti!»
Jin,
davanti alla sua sedia, si strinse nelle spalle.
«E’ arrivato un
blocco di messaggi un attimo prima che finisse di lavorare,
così
l’assistente lo ha blindato nel suo studio»
spiegò. «Sembra che
ormai le pile di documenti raggiungano il metro d’altezza, ma
potrebbe anche essere una leggenda.»
«Come
se non fosse perfettamente in grado di svignarsela!» Naruto
rialzò
la testa e guardò male Jin, in mancanza di Kakashi.
«Te lo dico io:
sta sfruttando la situazione per leggere L’esperienza
della Pomiciata,
l’ultima schifezza che ha sfornato quel vecchio porco di
Jiraya!»
«E
che anche tu hai letto, prima della pubblicazione»
sottolineò una
voce alle sue spalle. Chiharu comparve dietro la sua sedia e gli
batté una pacca affettuosa sulla spalla.
«Che
stai dicendo?» scattò lui, sulla difensiva.
«Jiraya
mi ha mostrato la copia da mandare in stampa»
spiegò lei con un
sorriso. «Se non sbaglio al capitolo tre c’era un
tuo commento su
una certa scena, che avevi definito... Com’era? Troppo
poco...»
«Ehi,
la roba che scrive Jiraya non è vietata ai
minori?» si intromise
Temari Nara, drizzando le orecchie al primo segno di scorrettezza.
«Questa
festa non è per i miei diciotto anni?»
«Quindi
quando hai letto la bozza non eri affatto maggiorenne!
Perché Jiraya
non è qui? Devo dirgli un paio di cose...»
«Lascia
perdere» gemette Shikamaru, esausto consorte.
«Io
non
ho lasciato nessun
commento sulla bozza del libro!» sottolineò Naruto
gesticolando per
attirare l’attenzione.
«Ammetti di averlo
letto, però» puntualizzò Chiharu.
«No!»
«E tu invece?»
sibilò Temari alla figlia.
«Se vado a prendere
mio padre semplifichiamo le cose?» propose Jin pieno di buona
volontà.
«Ma di che libro
parlano?» chiese Hinagiku.
«Allora, sulla
quarta di copertina dice che...»
«Non
ti azzardare a dire un’altra parola!»
strillò Naruto, tappando convulsamente le orecchie di
Hinagiku.
Shikamaru esalò un
sospiro profondo quanto l’inferno, svuotò il suo
bicchiere di saké
e lo tese flemmaticamente a Choji perché lo riempisse. E fu
allora
che emerse il commento più inaspettato di tutti, proprio dal
rassicurante, tondo, tranquillo Akimichi: «Io l’ho
letto quel
libro. Non è scritto male.»
Gli
ultimi ospiti se ne andarono quando la luna sfiorava il tetto di casa
Nara, disegnando ombre lunghe nei punti del giardino non illuminati.
Sul tavolo del buffet restava solo una tovaglia coperta di briciole,
su quello degli alcolici bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Le
sedie ancora sparse per il prato erano fredde e deserte, una brezza
leggera faceva svolazzare un tovagliolo di carta nel silenzio della
notte. Davanti al cancello tre sagome parlottavano a bassa voce.
«Come
abbiamo potuto distrarci?» sospirò Chiharu
scuotendo tristemente la
testa.
«Io
non so» replicò Hitoshi asciutto. «Ma tu
ci riuscivi abbastanza
facilmente.»
Lei
inarcò un sopracciglio, quindi si lasciò sfuggire
un mezzo sorriso,
cogliendo il riferimento a Yoshi.
«Un
Uchiha geloso, tu guarda» commentò dolcemente, e
Hitoshi arrossì
nel buio.
«Stronzate»
ringhiò. «Buonanotte, eh.»
Kotaro,
accasciato sulla sua spalla, gemette nel sonno quando lui si
voltò.
«Piano...» biascicò in un mormorio, e
dalla sua bocca l’odore
dolciastro dell’alcol si diffuse nell’aria.
Chiharu
guardò i due che si allontanavano, le ombre sovrapposte in
un
grottesco superuomo bitorzoluto, quindi gettò
un’occhiata alla
luna alle sue spalle. A giudicare dalla sua posizione dovevano essere
quasi le due.
Perfetto.
Shikamaru
e Temari Nara, mentre si infilavano sotto le lenzuola discutendo
degli inopportuni gusti letterari di Chiharu, pensarono che la loro
unica figlia avesse deciso di accompagnare a casa i compagni di
squadra per aiutare quello sobrio a trasportare quello ubriaco.
Quando non la sentirono rientrare non si preoccuparono né
ebbero
alcun sospetto. Si limitarono a sbadigliare, posare la testa sul
cuscino, rannicchiarsi l’uno accanto all’altro e
chiudere gli
occhi, la fronte di lei contro la schiena di lui in una diplomatica
tregua notturna.
Se
avessero anche solo sospettato
la verità
probabilmente non sarebbero riusciti a chiudere occhio.
Chiharu
in quel momento si muoveva sui tetti di Konoha: evitava la luce delle
stelle passando rasente i muri, saltava di palazzo in palazzo senza
fare rumore. Le bastarono pochi minuti per arrivare in un quartiere
anonimo del villaggio, una zona densa di condomini e piccole
abitazioni senza giardino, e una volta lì si
fermò nel cono d’ombra
tra due edifici.
Nel
buio, da sola, si concesse un ultimo minuto per ripensarci. Cinque
anni erano tanti e le persone cambiavano... Magari lui non ricordava
neanche più quella promessa. Era molto probabile, in
effetti, quasi
sicuro. Però lei la ricordava ancora. E lavorando in team
con
Hitoshi e Naruto il suo già ampio ego si era sviluppato fino
a
diventare piuttosto invadente, il che le impediva di ignorare le
spacconate sparate in gioventù. Era una questione di
principio.
Lo
ricordò a sé stessa mentre si costringeva ad
accantonare gli ultimi
dubbi, calandosi lungo la parete fino a una finestra precisa.
Non
è il momento di fare l’adolescente,
si rimproverò sistemandosi meglio sul cornicione.
Prima
che il suo corpo potesse opporsi bussò al vetro.
Per
un attimo non accadde niente. Poi, all’improvviso, un viso
bianco
comparve nel riquadro disegnato dal telaio e la finestra si
aprì con
un lieve cigolio. Chiharu si costrinse a sembrare adulta e sicura di
sé mentre Sai, dall’interno, la fissava con lo
sguardo assonnato
di chi è stato appena tirato giù dal letto.
«Che
ci fai qui?» le chiese senza offrirle di entrare.
«Oggi
è il mio compleanno» rispose lei, incapace di
trattenere un sorriso
nervoso.
«Auguri»
commentò Sai senza capire. «Se l’avessi
saputo prima mi sarei
procurato un regalo... Credo.»
Chiharu
non si lasciò smontare dalla freddezza del Jonin, e invece
lo studiò
lasciando indugiare il sorriso sulle labbra. «Non sono qui
per
quello.»
«Allora
che ci fai alle due di notte sul mio davanzale?»
Il
cuore di Chiharu accelerò. «Ti do una mano: quanti
anni compio
oggi?»
Sai
fece un rapido calcolo. «Diciotto?»
«Esatto.
E cosa ti avevo promesso che sarebbe successo una volta che fossi
diventata maggiorenne?»
All’improvviso
un guizzo di comprensione brillò negli occhi del Jonin,
seguito
dalla sorpresa più pura. Allora non se ne era scordato
proprio del
tutto.
«Stai
dicendo sul serio?» domandò. Gli capitava
raramente di essere colto
impreparato.
Chiharu
arrossì nel buio. «Ero serissima cinque anni fa, e
la sono anche
adesso.»
«Ah»
fece lui, suo malgrado incuriosito. «E quindi saresti qui
per...?»
«Di
certo non pretendo risultati immediati» sbottò
Chiharu stizzita.
«Ma devo pur incominciare da qualche parte.»
«A
sedurmi?» chiese Sai, incurvando un angolo
della bocca in un
sorrisino ironico.
Ora
ricordava tutta la conversazione in ospedale. Chiharu aveva promesso
che una volta diventata maggiorenne gli avrebbe fatto perdere la
testa. All’epoca sembrava determinata a costringerlo a
sposarla, ma
poi le occasioni per vedersi si erano diradate e lui non aveva
più
pensato alla ragazzina arrogante che si era presa una cotta per il
maestro dell’Accademia. Dopo tutti quegli anni, lei ancora...?
«Dovresti
prendermi sul serio» la ragazzina ormai cresciuta interruppe
il
flusso dei suoi pensieri.
«E
come faccio?» Sai sospirò. «Potrei
essere tuo padre.»
Chiharu
strinse i denti irritata. Aveva aspettato di essere maggiorenne
proprio perché tutti riconoscessero ufficialmente che era
adulta,
adesso lui cambiava le carte in tavola e iniziava a trattarla come
una bambina?
«Potresti
essere mio padre, è vero, ma io non poterei mai essere tua
figlia»
mormorò.
E,
prima che lui ribattesse, si sporse attraverso il telaio della
finestra e lo baciò. Labbra contro labbra, per la prima
volta nella
sua vita: era una sensazione più delicata di quel che aveva
immaginato, ma ugualmente elettrizzante. Si ritrasse quasi subito,
incapace di reggere alla tensione, e si concesse un sorriso di
trionfo.
«Primo
passo» mormorò, grata alla notte perché
nascondeva il suo rossore.
Schivando
gli occhi sbalorditi di Sai balzò sul tetto della villetta
accanto,
ansiosa di allontanarsi e scaricare i nervi. Si sentiva pervasa da un
piacevole senso di conquista, rovinato solo dal sospetto di essere
passata per ridicola. Ma il primo bacio è il primo bacio,
non si
scappa, e Chiharu aveva diciotto anni e un grande successo di cui
compiacersi.
Se
non fosse stata in mezzo al villaggio in piena notte avrebbe gridato
la sua vittoria al mondo.
Altrove,
sotto lo stesso cielo, una lampada da tavolo illuminava un foglio di
carta coperto da una calligrafia minuta.
La
mano che lo teneva stretto era bianca, grande e immobile. Ma il suo
proprietario, il sesto Hokage del villaggio della Foglia, fissava il
codice e il messaggio che racchiudeva con gli occhi sbarrati e le
palpebre tremanti.
La
scintilla.
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