Jay Hahn

di Bloomsbury
(/viewuser.php?uid=216725)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.




 


30. Winter Prayers
 
 
Come un corso d’acqua in piena lasciò scorrere le sue memorie, infrangendo gli argini, e Brad, seduto sulla riva di quel fiume di ricordi, ascoltò in silenzio ogni cosa sperando di non essere arrivato troppo tardi.
Aveva ascoltato la storia di un Jay diverso e che gli eventi avevano mutato in una versione decisamente più anaffettiva e distaccata: avrebbe voluto conoscere il vecchio ragazzo che solo le parole avevano ricostruito in quelle ore. Capì di essere stato anche lui la causa di tanta insofferenza nei confronti della vita e volle fare qualcosa per rimediare; innanzitutto fece attenzione a carpire da ogni parola il giusto significato, poi si lasciò andare alle sue reazioni, le più sincere. Parlarono tutta la notte di Izaya e di cosa la vita aveva riservato a Jay prima e dopo la sua morte. Brad lo accarezzò, lo consolò per ore, lo sostenne con tutto l’amore di cui era capace e solo allora, quando fu chiaro che quell’uomo si fosse realmente reso conto di quanto male aveva fatto, Jay si affidò alle sue mani.
Fecero l’amore, per la prima volta, con una tenerezza che gradualmente riuscì ad accomodare ogni ferita aperta. Non lo guarì del tutto ma lo fece sentire meno solo e lacerato. Brad aveva apertamente dichiarato il suo più profondo amore, chiedendo perdono e offrendosi come spalla: voleva aiutarlo e prendersi cura di lui, stavolta per davvero.
 
Si svegliò sentendosi più leggero e il fatto che Brad l’avesse toccato non suscitò alcun disgusto e, soprattutto, non pensò mai di voler scappare come invece aveva fatto dal primo giorno in cui gli aveva messo le mani addosso.
Si alzò con una vaga sensazione di serenità e sorrise pensando a quanto la vita potesse mettere in atto giochi davvero strani ed incomprensibili. Fino al giorno prima aveva odiato Brad con ogni cellula del suo corpo ed erano bastate poche ore per scoprire un uomo diverso, dedito all’ascolto, alla comprensione.
Udì rumori inconfondibili in cucina e capì che Brad stava preparando la colazione; una morsa allo stomaco lo incatenò al letto poiché provò la distinta sensazione che Izaya fosse ancora vivo. Non era più abituato a sentire rumori in casa ma cercò disperatamente di infilarsi in testa che quello in cucina non era il suo uomo, il suo amore.
«Buongiorno.» lo salutò imbarazzato una volta raggiunto e Brad, sorridente e stranamente a suo agio, lo omaggiò del suo sorriso più aperto: «Buongiorno a te, piccolo.».
Ancora non riusciva ad accettare di essere il suo “piccolo”, ma evitò di darlo a vedere troppo. «Come mai prepari la colazione?» chiese sedendosi sullo sgabello in prossimità della penisola.
«Tra poco vado a lavoro e non volevo svegliarti, così avevo pensato di lasciarti qualcosa di pronto.». Piazzò davanti a Jay un piatto con una colazione assai carbonizzata ma lo ringraziò ugualmente.
È il pensiero quello che conta.
«Sono stato bene con te, stanotte.» disse Brad con tono gentile. Dopo aver percepito una sorta di fastidio nei riguardi di tale esternazione, preferì cambiare discorso: «Puoi venire a cena a casa mia se vuoi. Immagino quanto possa essere doloroso per te stare in questa casa e, soprattutto, con un altro uomo.».
Brad artefice di tanta delicatezza sembrava più uno scherzo.
«D’accordo.»
«Dì la verità! Izaya era in grado di prepararti una colazione del genere?» chiese con una leggerezza tale da infastidirlo.
Per quasi due anni il nome di Izaya non era mai stato pronunciato con così tanta superficialità e provò rabbia nei confronti di Brad che osava tirarlo in ballo per sciocchezze del genere: «Lui faceva molto di meglio, ma ti chiedo di evitare di tirarlo fuori per cose così futili o anche solo per fare stupide battute.» fu lapidario.
«Credo che continuare a dargli questa importanza sia deleterio, Jay. Non voglio affatto deprezzarlo ma è morto, non c’è più e conoscendo il tipo…»
«Tu non sai niente di lui. “Conoscendo il tipo” un corno!» lo rimproverò.
«Mi hai parlato di lui per ore e ad ogni parola ho sentito il peso del confronto. Certamente era un bravo ragazzo ma temo che tu l’abbia idealizzato troppo.»
«Ma come cazzo ti permetti a dire certe cose?» sbottò alzandosi dallo sgabello: «Non provare neanche per un attimo a metterti a confronto, non hai neanche un mignolo degno di Izaya. Se avesse conosciuto uno come te l’avrebbe messo al tappeto dopo un nano secondo.» continuò avvicinandosi a lui, accrescendo il volume della sua voce che, sempre più adirata, lo mise all’angolo: «Quelli come te per sentirsi migliori tendono a distruggere ogni cosa buona intorno. È facile per una merda mettersi a confronto con la merda, riduci ogni cosa in niente pur di sentirti superiore. Izaya è una spanna sopra te…» non riuscì a finire lo sproloquio perché Brad sentendosi sotto pressione lo costrinse a tacere, piazzandogli uno schiaffo in pieno viso.
Dopo un primo momento di smarrimento il ragazzo lo fissò con odio, reggendosi la guancia dolorante: «Questa me la paghi.»
«Smettila di fare il bambino viziato. Se ci fosse stato qui Izaya…»
«Izaya non c’è e non nominarlo, cazzo!» urlò con le lacrime agli occhi.
Brad, fomentato dalla sua stessa frustrazione, prese Jay dal colletto della T-shirt e lo trascinò con forza fino al salotto per poi spingerlo a terra: «Hai detto bene, Jay: Izaya non c’è. Sei tu che ti ostini a rievocarlo ogni volta facendo sproloqui di mezz’ora sulle sue elevate doti morali. Parli al presente, lo difendi come se ne avesse bisogno ed io mi sono stancato. Se vuoi che io cambi veramente, se davvero, come mi hai promesso, vuoi aiutarmi ad essere migliore devi cambiare atteggiamento. Azzera ciò che c’è stato prima di questa notte una volta per tutte e guardami per come sono adesso. E smettila di provare rancore nei miei confronti, abbassa la voce quando parli con me.» lo intimò sovrastandolo.
Jay rimase inerme sul pavimento, fissando il vuoto: aveva esagerato.
L’argomento Izaya aveva letteralmente annullato ogni sua capacità di giudizio, si era adirato per niente e capì di aver sbagliato ancora. Si era ripromesso di non giudicare più così duramente Brad, ma l’aveva fatto.
«Hai… ragione.» ammise con vergogna, placando l’ira che ad ogni respiro si trasformò in senso di colpa: «Non meriti questo. Ti chiedo di perdonarmi.»
«Non posso risponderti adesso. Sono troppo incazzato e sì, Jay: sono ferito!» ammise per la prima volta.
Con estrema fretta indossò la camicia mentre Jay si alzava dal pavimento, afferrò la giacca e senza parlare uscì di casa, lasciandolo solo e macchiato dalla colpa.

***
 
Era un mercoledì come tanti, tranquillo e senza grandi programmi da mettere in pratica. La serata, stranamente priva di nuvole, continuava a procedere senza alcun affanno, ma sotto lo stesso cielo si consumano eventi diametralmente opposti e nonostante la calma di quel mercoledì, una ragazza sola si avvicinava all’Escape bar con aria imbronciata e a momenti incerta. Era vestita elegante, effettivamente sembrava adatta a quel luogo, ma nei suoi grandi occhi neri non vi era nulla di appropriato: nessuno scintillio d’impazienza tipico di chi era lì per divertirsi.
Mise piede nel locale trovando un ambiente particolarmente sereno e guardando la locandina che preannunciava la festa imminente del sabato e l’esibizione di Lulù, la drag queen più famosa di Soho, sospirò afflitta: le sarebbe certamente servita una serata come quella per dimenticare.
Fece una veloce panoramica del luogo e pensò di essere nel posto più giusto.
Thomas, il suo ragazzo, l’aveva lasciata in tronco costringendola ad uscire dall’auto; il suo ragazzo l’aveva abbandonata a Soho, di notte, senza più interessarsi a lei.
Inizialmente pensò che fosse stato solo un gesto di stizza e l’aveva aspettato nello stesso punto per quasi mezz’ora, ma non vedendolo tornare si era rassegnata.
Guardò le coppiette scambiarsi tenere effusioni sui divanetti illuminati da una fioca luce blu e decise di andare verso il bar. Forse avrebbe bevuto facendo una chiacchierata con il barista sperando fosse un tipo affabile ma non appena la sua attenzione fu catturata da altro, i suoi progetti cambiarono.
Vide un ragazzo con l’aria imbronciata, seduto su uno sgabello, intento a bere una vodka. Aveva un’aria strana, quasi malinconica, sembrava fosse costantemente sul punto di piangere; guardava davanti a sé, dando le spalle al resto, come se vedesse chissà cosa tra le bottiglie allineate sulla mensola in cristallo del bar.
La ragazza lo squadrò per minuti trovando nei suoi occhi qualcosa di irresistibile e di sorprendentemente genuino: appariva come un essere puro incastrato in un contesto del tutto inadatto. Cercò di mettere a tacere quei pensieri così smielati e si avvicinò a lui adagio sperando di poterci parlare.
Sedutasi allo sgabello accanto a lui, inizialmente fece finta di niente incoraggiata dalla disattenzione del ragazzo che, con le labbra arrossate attaccate al bicchiere, persisteva nell’ignorare ciò che gli stava intorno.
Passò al setaccio ogni minimo dettaglio di lui: i bracciali ai polsi, l’anello raffigurante una carpa koi al pollice, i jeans stretti sulle cosce che terminavano a sigaretta, incastrati nelle sneakers nere con la cerniera al lato: era giovane e ogni dettaglio glielo suggeriva.
Lei aveva ventotto anni e lui sembrava un diciannovenne ma la cosa che più di tutto la colpiva era quel meraviglioso sguardo che indossava come fosse un indumento.
Guardò più di una volta il punto che rapiva l’attenzione di quel ragazzo non trovandoci niente di interessante, vedeva solo bottiglie di liquori.
«Scusa!» richiamò la sua attenzione.
Il giovane voltò lo sguardo verso di lei, senza muovere la testa. Lasciò solo all’occhio destro il compito di fissarla attraverso quel ciuffo che si ostinava a sfiorargli le ciglia nere e lunghe; rimase in silenzio, si limitò a scrutarla con le labbra porpora attaccate al suo bicchiere.
«Sono Beatrix…»
«Come La Sposa!» esclamò lui, interrompendo la sua presentazione.
Beatix non capì esattamente cosa volesse dirle e lo guardò come inebetita per qualche minuto. Il ragazzo non si scompose più di tanto e non ricevendo alcuna risposta puntò nuovamente il suo sguardo verso quel mondo immaginario che aveva il privilegio di vedere solo lui. Sentendosi frustrata dal fatto che ci fosse qualcosa di più interessante di lei, smise di parlare.
«Che ci fa una ragazza etero qui?» le rivolse finalmente la parola, facendola sobbalzare sulla sedia come una bambina alle prime armi.
Anche lei si fece la stessa domanda: Cosa ci fa un ragazzo etero qui?
La risposta fu ovvia: non era un ragazzo etero ed ecco spiegato tanto disinteresse.
«Ero triste, non sapevo dove andare e mi sono infilata nel primo locale che mi sono vista davanti! Diciamo che passavo di qua con la macchina e, d’un tratto, mi sono ritrovata fuori, contro la mia volontà.»
«Il tuo ragazzo ti ha mollata? Non fa sul serio, tranquilla!» disse con certezza.
Cosa lo rendesse così sicuro non fu chiaro, così glielo chiese direttamente: «Come puoi saperlo?».
Lui si voltò, per la prima volta, completamente, esibendo uno sguardo del tutto nuovo, non più triste, era sicuro di sé.
«Se avesse fatto sul serio non ti avrebbe lasciata davanti ad un locale per omosessuali.»
«Non capisco che vuoi dire.»
«È noto che una donna per consolarsi tende a cercare nuove avventure. Qui sarebbe impossibile.» affermò lui con convinzione.
«Non tutte le donne!» rispose infastidita ma, prima che potesse continuare, il ragazzo si avvicinò a lei con fare ammiccante, provocatorio, cosa che la imbarazzò tanto da costringerla a spostare gli occhi da lui.
«Visto?» concluse divertito.
«Cosa ti fa credere che io ci stessi provando con te?»
«Intuito femminile.»
«Sei un uomo!»
«Certo! Ma sono un uomo dotato di intuito femminile. Per questo penso che gli omosessuali siano evoluti: hanno i pregi di entrambi i sessi.» desunse con scherzosa supponenza.
Beatrix non trovò molto altro da dire, anche perché in qualche modo credeva che lui avesse ragione e, poco dopo, si ritrovò davanti il suo sorriso solare, mentre le porgeva la mano: «Mi chiamo Jay. Jay Hahn.»
Lei l’afferrò senza accorgersi che, nel frattempo, l’attenzione di Jay si era già spostata altrove.
Stringendogli ancora la mano si voltò per vedere chi fosse il destinatario di quello sguardo e scorse un uomo ben vestito all’entrata.
Jay inchiodò quell’uomo e Beatrix poté intravedere nei suoi occhi un misto di malizia e rassegnazione.
«Perdonami, Sposa. È stato un piacere conoscerti.» si congedò senza darle modo né tempo di replicare.
Lo ammirò allontanarsi tra la folla e sbirciò l’incontro tra i due con curiosità. Li vide abbracciarsi come due innamorati, osservando il contatto tra i due che diventava sempre più intimo e una sorta di delusione mista ad amarezza la pervase.
Vide “l’uomo ben vestito” toccare la pelle di Jay sotto la camicia e, poco dopo, come era arrivato, se ne andò portandoselo dietro docilmente.
Così Beatrix si voltò verso il bar e si ritrovò a guardare lo stesso punto che pocanzi aveva attratto così tanto il ragazzo che aveva appena conosciuto e in quel momento vide la stessa cosa che, probabilmente, anche Jay aveva visto per tutto il tempo: i propri pensieri materializzarsi come sogni.




Angolo Autrice.
Insisto nello scrivere angoli autrice brevi. Non perché non voglio ringraziarvi, ma perché mancano quattro capitoli alla fine di Jay e vorrei ringraziarvi tutti, per bene, nell'ultimo capitolo.
Vi ringrazio tanto per il sostegno, per le recensioni e un bacio a tutti quelli che hanno inserito la storia nelle Seguite/Preferite/Ricordate.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo.
Al prossimo.
Un abbraccio.
Bloomsbury




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2746792