.Il sapore
delle cose.
Quand’era
piccolo e lui o i suoi amici si facevano male in qualche modo, la prima
domanda
era “il tuo sangue è dolce o amaro?”.
Ciascuno assaggiava le proprie ferite e
dava il verdetto, quasi sempre “è amaro”,
perché era più da uomini, più da eroi.
Il dolce
era qualcosa per femminucce e bamboline.
Negli
anni Rin, ripensando a quella pratica disgustosa, cominciò a
chiedersi se ai
tempi sentisse davvero il proprio sangue amaro, e quando quel giorno
che era
rincasato dopo il turno Haru aveva aperto la porta e gli aveva piantato
il
fondo di una padella sulla tempia, decise che, decisamente, doveva
avere il
sangue più amaro di tutti.
Si
svegliò con la sensazione di essere ad un passo dal
pisciarsi addosso.
Il
suo polso destro stava tremando nella circonferenza metallica di un
paio di
manette, mentre quasi non sentiva più la mano sinistra,
legata da una catena
come carne da macello, entrambe contro le maniglie dei cassetti
laterali al
forno contro cui aveva appoggiata la schiena.
Strinse
le gambe e, digrignando i denti, sentì chiaramente il sangue
secco sul volto
incresparsi.
«Haru…»
Era
pieno giorno. Dalla porta vedeva chiaramente la luce viva penetrare
dalla
finestra del salottino, e sul pavimento davanti a lui si stendeva una
macchia
di sole.
«Haru-chan.»
«Avevo
cominciato a preoccuparmi.»
Haruka
ciabattò fino alla soglia, fissandolo dall’alto.
Aveva addosso il camice bianco
da lavoro e il grembiule blu col delfino, il suo preferito. La manica
destra
della sua divisa era sporca di sangue.
Rin
provò a sorridergli, a sorridergli in quel modo che lui
aveva sempre definito “da
maniaco del cazzo”. Probabilmente, nelle condizioni in cui
riversava in quel
momento, doveva esserlo ancora di più.
«Cosa?»
«Avevo
cominciato a preoccuparmi. Staccavi il turno alle diciotto, no? Sei
rientrato
alle ventuno.»
Rin
sospirò, leccandosi le labbra secche.
«Sì, sì, ero andato a bere
qualcosa.» La
catena con cui aveva legato la mano sinistra tintinnò contro
il legno del
bancone. «Era il compleanno di Ai.»
«Non
me ne frega un cazzo se era il compleanno di Ai.»
Rin
rise, chinando il capo verso il basso e notando che aveva la zip dei
pantaloni
sbottonata.
Con
una punta di terrore si chiese cosa Haru avesse avuto il coraggio di
fargli
mentre era svenuto; aveva sempre avuto fissazioni strane a letto. Due
istanti
dopo se lo sentì addosso, accucciato contro, a
richiudergliela come se gli
avesse letto nel pensiero.
Rin
approfittò del contatto intimo. «Piccolo, devo
pisciare.»
«Vuoi
una tazza?»
«Haru.»
«Non
vergognartene, abbiamo fatto di peggio.»
Rin
scosse le braccia e la testa, ringhiando. «HARU!»
Haruka
sollevò lo sguardo, trattenendo fra le mani ancora il suo
cavallo, e lo guardò
a lungo mentre riprendeva fiato e sbatteva la testa contro la maniglia
del
forno.
«Haru…»
«Perché
l’hai fatto?»
Rin
chiuse gli occhi per un istante, ispirando ed accasciando la testa su
una
spalla.
«Fatto
cosa? Lasciarti?»
L’urto
delle nocche del pugno contro il suo zigomo sinistro fu uno schianto
orrendo.
In quel contatto furioso Rin sentì chiaramente tutti gli
anni che aveva passato
al fianco di quello psicopatico malato del cazzo a sputare sangue
dietro lui e
le sue richieste assurde, tutto, tutto quanto concentrato in un singolo
e
silenzioso schianto di pelle contro pelle, ossa contro ossa, rabbia
contro
rabbia, che gli fece sbattere la testa nel forno tanto da scheggiarne
il vetro.
«Perché
hai scopato con Sosuke?»
La
stanza cominciò a girare vorticosamente mentre diventava
tutto un po’ più
arancione.
«Pensavo
di essere single.» Ansimò.
«Pensavi
di essere single?»
«Sì,
è quello che succede dopo che due stanno insieme, ma uno si
scopa un altro e
poi decidono di comune accordo di lasciarsi e dividere le proprie
strade. Dopo
tutte queste cose uno è single.»
Un
altro pugno, questa volta all’altro zigomo e insensibile. Rin
accusò solo il
dolore, ma non c’era niente di più, niente
messaggi nascosti o rabbie represse.
Haruka aveva sempre avuto il brutto vizio di fare del male tanto per
farne.
«Quindi
ci eravamo lasciati?»
«Già,
può sembrarti estrema come cosa.»
L’arancione
era diventato un po’ più arancione. Rin odiava
l’arancione.
«Non
prendermi per il culo.»
«Ho
smesso quando ha cominciato a farlo Makoto.»
«Ti
sei mai chiesto perché?»
«Non
so.» Rise. «Il pompiere pompa meglio del
poliziotto, immagino.»
Haru
afferrò la maniglia del forno e lo aprì,
sbattendolo contro la sua testa una,
due, tre volte consecutive. Rin gemette altrettante volte temendo di
sputare i
polmoni sui propri pantaloni della divisa.
«Mi
fai schifo.»
Non
provò nemmeno a rispondere, lo stomaco in subbuglio
tentò a mandar su un conato
di vomito che riuscì a reprimere per miracolo. Haruka si
sistemò meglio addosso
a lui, sedendosi a gambe aperte contro il suo bacino e avvicinando il
volto al
suo, fronte contro fronte.
Rin
riuscì a pensare che, di Haru, erano cose come quelle che lo
avevano convinto
per anni a non lasciarlo andare, gesti così semplici ma
nella sua intimità così
grandi da fargli accapponare la pelle per l’emozione.
«A
succhiare sei più bravo tu.»
Si
chiese se avrebbe dovuto esserne felice o meno.
Il
cellulare di Haru vibrò nella tasca dei suoi pantaloni,
entrambi ne avvertirono
chiaramente il ronzio, anche se Rin lo sentiva un po’
più distante, come se la
sua testa fosse rinchiusa in una bolla.
Haruka
accettò la chiamata ma non rispose.
Rin
riconobbe come uno spillo premuto contro il collo la voce irrequieta di
Makoto
che lo pregava di non fare pazzie. Doveva sapere qualcosa, sicuramente,
o
perlomeno doveva averlo saputo.
«Non
sto facendo niente.»
Makoto
chiese dove fosse adesso.
«A
casa di Rin.»
E
dov’è Rin?
«E’
qui con me.»
Haru,
ti prego.
Haru, ti prego. Rin quante volte l’aveva detto?
«Stiamo
bene.»
Sto
venendo
lì, okay?
«Non
ti aprirò. Sto cercando di far pace con Rin,
non c’entri.»
Haru.
«Sei
geloso anche tu, adesso? Che cazzo avete tutti
con questa storia del lasciarsi, dello scopare?»
Haru,
non
sono gelos-
Beep.
«Che
carino.» Sorrise Rin.
Haru
lo guardò, lanciando il cellulare contro il
muro e lasciando che si sfasciasse in mille pezzi sul pavimento. Rin
aveva
sempre amato il rumore delle cose che si sfasciano, e più in
quel momento che
mai avrebbe voluto avere le mani libere per rompere di tutto, pisciare,
e poi
rompere ancora cose, sentire sulla lingua il sapore della rabbia che
vola via
scoppiando a fiotti, piccole esplosioni umide e amare.
«Era
preoccupato.»
«Non
mi importa se Makoto è preoccupato, non so
cosa abbia capito che voglio farti.»
«Perché,
che vuoi farmi?» Fu una vera e propria
provocazione. Si morse la lingua subito dopo.
«A
questo punto non mi importa più.»
Haru
gli sbottonò di nuovo i pantaloni e gli
abbassò la zip così come l’aveva
alzata, accucciato contro lui in un incastro
decisamente spiacevole e poco omogeneo. Messi così, Rin lo
immaginava, davano l’impressione
di una tenda mal montata, esattamente come quando facevano sesso ma non
avevano
davvero voglia di toccarsi, aversi e sentirsi. Probabilmente era sempre
stato
in una brutta tenda che avevano alloggiato i loro sentimenti nel
periodo in cui
erano stati insieme.
«Che
cazzo stai facendo?»
Era
già incarcerato in una mano di Haruka.
«Cosa
ti sembra che stia facendo?»
«Potrei
non essere in vena.» E nel frattempo che
pronunciava quelle parole ebbe la piena sicurezza che sarebbe stata la
bocca di
Haru la sua tomba.
Quando
rinsavì fu come avere gli occhi screziati
di sangue. La stanza sembrava essere stata improvvisamente dipinta di
rosso, e
fu solo secondi dopo che si rese conto che doveva essere il tramonto e
per
questo tutto sembrava così caldo e illuminato.
Aveva
ancora i pantaloni aperti e il sesso
scoperto, sporco.
La
prima cosa che pensò fu che Haru se ne fosse
andato lasciandolo lì, incatenato e ammanettato, ma sarebbe
stato poco da lui. Poi
pensò che non si ricordava minimamente
quando fosse svenuto; Haru doveva averlo pestato di brutto dopo che gli
era
venuto in faccia, ed infatti sentiva tutto un gonfiore sul volto, le
palpebre bruciare
e la lingua molla come un budino, ma non ricordava niente.
Brutta
storia.
Haruka
comparve nuovamente sulla soglia dopo circa
quindici minuti e gli andò incontro.
Rin
era stato talmente distratto dal dolore e dall’affanno
che non si era reso conto che, sopra la sua testa, i fornelli erano
accesi, le
fiammelle bluastre danzavano, e il sangue che gli tappava le narici gli
aveva
impedito di sentire il buon odore di brodo di pesce.
Fissò
per minuti interi le gambe di Haru, e il suo
stupido grembiule blu col suo stupido delfino stampato sopra,
finché lui non si
inginocchiò con un mestolo di legno in mano e gli fece bere
la brodaglia
bollente tutto d’un sorso. Le spezie piccanti gli mandarono a
fuoco il palato
più di quanto non fosse già.
«Mi
ami ancora?»
La
domanda di Haruka, poi, fu come sbattere la
testa contro il forno altre cento volte.
Non
lo sapeva. Lo amava ancora? Poteva amarlo con
tutto quello che gli stava facendo? Lo aveva imprigionato nella sua
cucina, lo
aveva battuto, gli aveva fatto un pompino e poi lo aveva battuto ancora
fino a
farlo svenire. Poteva amarlo ancora? Si era fatto Makoto dopo due anni
di
fidanzamento ufficiale, e poi penetrava in casa sua per tramortirlo con
una
padella perché lui aveva trovato sfogo con Sosuke.
Poteva
amarlo ancora?
«Se
non ti amassi avrei già trovato il modo di
farti inalare tutto il gas della cucina.»
«Mpf.
Sei un poliziotto, non un agente di
spionaggio, Rin.»
«Ho
partecipato ad addestramenti che tu non
conosci.» Provò a ridere e nel farlo
sputacchiò del sangue sul suo grembiule bianco
e sul mestolo. Haru glielo conficcò fra le clavicole,
strozzando un mezzo
respiro.
«Quindi
mi ami ancora, no?»
Rin
non rispose, chiudendo lentamente gli occhi.
«Perché,
sai, nelle ultime ore penso di aver capito
qualcosa, riguardo questa roba. Cioè, tipo che non sarei
dovuto andare a letto
con Makoto se non volevi, così magari tu non mi avresti
detto che, boh, cos’è
che mi dicesti? Che ero una troia, e poi non saresti andato a letto con
Yamazaki e forse adesso staremmo ancora facendo del disgustoso sesso
senza
nemmeno averne una gran voglia.»
«Il
disgustoso sesso sarebbe stato comunque meglio
di questo sangue e, complimenti Haru-chan, sei riuscito a mettere
più di
quindici parole insieme in una frase. Facciamo progressi.»
Haruka
gli picchiò il mestolo sulle labbra con una
violenza tale che Rin sentì i tagli ricominciare a
sanguinare.
«Non
mi è mai piaciuto parlare, a differenza tua.»
Rin
si leccò il labbro inferiore. «Fallo
adesso.»
«Penso
che se tu non avessi parlato tanto in tutti
questi anni non saremmo a questo punto.»
«Probabile.»
Cominciava
a diventargli difficile anche spiccicar
parola, i dolori avevano cominciato a svegliarsi per bene insieme alle
sue
membra e ai suoi muscoli.
«Cos’altro
pensi?»
«Che
siamo sbagliati.»
Quelle
parole furono probabilmente più dolorose di
un’ipotetica ultima sferzata che Haruka avrebbe potuto dargli
con una cosa un
po’ più prestante di un mestolo.
«Ci
facciamo solo del male, noi, e ne facciamo agli
altri. Dovremmo morire.»
Rin
singhiozzò dal dolore, provando a muoversi e a
dire che non si riteneva propriamente
d’accordo,
ma gli occhi di Haru – gli occhi di Haru-chan
– parlavano per entrambi e raccontavano di una determinazione
e sfrontatezza
tale da far inorridire chiunque, compresi quelli che una volta li
avrebbero
creduti innamorati.
Rin
non voleva morire. Rin non aveva alcuna intenzione
di morire. Non ne aveva avuta quando Makoto gli aveva confessato che
lui e Haru
avevano fatto sesso, non ne aveva avuta quando Haru non aveva
ricambiato il suo
primo ti amo, non ne aveva avuta quando suo padre era morto.
Rin
non voleva morire, non la ricordava nemmeno la
volta in cui aveva desiderato di morire.
Non
c’era stata, non doveva esserci.
«Haru,
amore…»
«Rin,
dovremmo ucciderci.»
«Haru,
aspetta, stai calmo.»
«Rin,
accendo il forno, possiamo baciarci con la
testa lì dentro se vuoi.» Sembrava serio.
Oh
cazzo,
oh cazzo, oh cazzo.
«Haru-chan,
ti prego, pensa al ristorante, pensa ai
nostri amici.» Sporgendo la mano oltre il suo orecchio
sinistro Haruka cominciò
a settare i parametri del forno. «Pensa a Makoto, pensa a chi
vuoi, ma… CAZZO,
HARU!» Rin aveva appena cominciato a scalciare e a dimenarsi,
tanto che il nodo
allentato della catena che gli incarcerava la mano si fece abbastanza
largo da
sfuggirne alla presa.
«Rin.»
Il
suo nome fu l’ultimo soffio di Haru prima che
gli schiantasse la fronte contro il marmo del piano da cucina. Sul
volto fu
tutto rosso e poi amaro.
Di
sera le cose si facevano sempre un po’ più
nitide.
O
forse era Makoto, a far sempre le cose un po’ più
nitide.
Rin,
dopo aver abbattuto Haru stroncandolo come una
bestia, si era trascinato dietro il cassetto per trovare le chiavi
delle manette,
e quando una mezz’oretta più tardi Tachibana aveva
bussato alla sua porta non
se l’era proprio sentita di lasciarlo fuori.
Makoto
leccava le ferite di Haru, Rin leccava le
proprie come da bambino e ,in una bolla di pensieri confusi e
strozzati,
rimpiangeva che Haruka non fosse sveglio per vedere quant’era
solo, adesso.
«Cosa
hai intenzione di fare?»
Rin
smise per un secondo di tamponarsi con il
ghiaccio la faccia livida.
«Mi
stai chiedendo se ho intenzione di arrestarvi
entrambi?»
Makoto
non sembrò preoccuparsi di essere stato
tratto in ballo senza che davvero c’entrasse qualcosa in
quella carneficina di
sentimenti, pazzi, robe a caso. La
sua preoccupazione al momento, sembrava essere disinfettare
la brutta ferita di Haru sulla
fronte e pensare ad un posto sicuro dove portarlo e dove non avrebbe
mendicato vendetta
o giustizia, che dir si voglia.
Rin
sospirò, il primo e più lungo sospiro pulito
che era stato in grado di fare in ventiquattr’ore.
«Temo
solo che non finisca qui.»
«Non
finisce qui, infatti.»
Affondò
il volto nei palmi aperti delle mani e si
stropicciò gli occhi con le dita, e si pentì di
quello che stava per dire ancor
prima di pensarlo.
«Stagli
vicino, okay? Voleva ucciderci entrambi,
voleva uccidersi.»
Makoto
alzò lo sguardo, forse per la prima vera volta
da quando era arrivato lì.
«E
se un giorno scompaio, nessuno mi trova e
nessuno trova il mio corpo… tu non sai niente,
chiaro?»
Makoto
si aspettava di vederlo ridere, dopo, ma Rin
non lo fece. Era serio, più serio di quanto non fosse mai
stato, e quell’improvvisa
ovvietà sbattuta in faccia come una bottiglia di vetro
fredda fece tremare il
fegato ad entrambi e, come un riflesso spontaneo, abbassare gli occhi
sul volto
di Haruka.
Rin
si leccò le labbra spaccate a sangue e si passò
una mano fra i capelli.
Se
Haruka gli avesse creduto quando gli aveva
risposto che sì, lo amava, sarebbe stato già
morto.
Now he's gone. I don't know
why
And till this day, sometimes I
cry
He didn't even say goodbye
He didn't take the time to
lie.
Note dell’autrice:
Mi
dispiace essere una di quelle persone che trova
divertente scrivere cose violente senza senso e magari anche un
po’ demenziali
con protagonisti maniaci/psicopatici. Sì, in poche parole mi
dispiace essere un’ammiratrice
della cinematografia di Tarantino (a proposito, la citazione alla fine
è della
canzone “You shot me down” perché
stamattina ho rivisto per la trentesima volta
“Kill Bill” e perché SSSI’).
Mi
dispiace anche vedere Makoto come eternamente
innamorato di Haruka e arrendevole, Rin eternamente innamorato di
Haruka ma
consapevole di quanto sia pazzo, e Haruka eternamente innamorato di
entrambi ma
consapevole che, se Makoto non lo abbandonerà mai, Rin ha
bisogno di essere un
po’ spronato a stargli vicino (magari legandolo ad un forno a
gas, sì!). Perché
loro tre sono la mia OTP (beh, OT3) in questo fandom, ma per Makoto qui
c’era
un po’ di spazio in meno.
Ero
un po’ insicura nel postare questa… roba, ma
alla fine mi son detta “boh, al massimo mi metteranno qualche
bandierina rossa
e mi lanceranno un paio di pomodori bannandomi dalla sezione, che
sarà mai?”
Direi
che possiamo terminare qui.
Au
revoir! :*
|