Una Sera di Settembre (In un Paese d’Estate – Side Story 1)

di _Unmei_
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UNA SERA DI SETTEMBRE
 (In un Paese d’Estate – Side Story 1)
 
___
 
 
La cena era stata abbondante.
Più che abbondante, in realtà, tanto che Matthias aveva da tempo capito quanto fosse meglio, in vista di un invito da Holger e Wilma, osservare la frugalità di un monaco.
Altrimenti come reggere poi il salmone affumicato con il burro all’aneto, la zuppa di montone, la torta salata con le ostriche e il manzo, lo shepard pie, l’immancabile colcannon, i formaggi, la torta al caramello?
E dopo, mentre Keith e Holger sorseggiavano whisky, lui e Wilma prendevano una bella tazza di tè scuro e forte, e vuoi forse rifiutare qualche dolcetto fatto in casa, correndo il rischio di ferire i sentimenti della cuoca?
Inutile assicurare che tanta abbondanza non era necessaria: Wilma era una di quelle persone che si divertono a cucinare, il cui buonumore aumenta in proporzione alle ore che passano in cucina, che provano la più appagante delle soddisfazioni nel vedere i piatti ripuliti, con l’apice, magari, delle cinture slacciate e dell’occhio appannato a fine serata.
Quindi, appunto, la preparazione per affrontare  una simile ordalia iniziava già il giorno precedente, ma ne valeva la pena, perché tutto era sempre delizioso… come i biscotti pieni di burro e uvetta che stava mangiando in quel momento, accompagnati dal tè al rabarbaro: erano tanto buoni e voluttuosi che veniva voglia di commuoversi.
Keith gli lanciò un’occhiata soddisfatta da sopra il proprio bicchiere, poi si rivolse a Wilma con voce di miele.
 
“Mia cara, stavo pensando… in tutto questo tempo non ci hai mai preparato il crappit heid. È un piatto della tradizione scozzese, credo che Matt dovrebbe assaggiarlo.”
“Oh, tesoro! Lo sai che non hai che da chiedere… certo che ve lo cucinerò!”
“Crappit heid? Cos’è?”
 
Chiese Matthias, e Keith gli rivolse uno di quei sorrisi innocenti che promettevano sempre malissimo. Fu Holger a togliergli la curiosità.
 
“È un piatto del nord, tipico dei pescatori. Roba semplice, povera, ma sostanziosa e salutare. Bisogna prendere una testa di merluzzo e riempirla con un impasto fatto con il fegato del pesce, cipolla, avena, strutto, poi…”
 
Matthias lottò per tenere il ribrezzo e la sconforto fuori dalla propria espressione; sorrideva, ascoltando la spiegazione, e intanto cercava di trovare una motivazione con cui impedire a Wilma di preparare tale specialità. Davvero, con tutta la buona volontà, ma c’erano cose che il suo spirito d’avventura gastronomico non era pronto ad affrontare; Keith, intanto, annuiva soddisfatto.
D’accordo, doveva ammettere che l’haggis, per esempio, non era stato così completamente disgustoso come aveva immaginato, persino quasi commestibile, ma trovarsi una testa di merluzzo ripiena nel piatto, bollita nell’acqua di mare… e se il nome di quella pietanza era un indizio sul suo sapore…
Va bene, forse avrebbe potuto mangiarlo, per non offendere i sentimenti patriottici di Holger, e non apparire come un inglese schifiltoso, ma l’avrebbe fatta scontare a Keith. Oh, sì!
 
Dopo aver ben spiegato l’origine e la preparazione di quella prelibatezza, Holger affermò di avere un whisky da far assaggiare a Keith, una novità messa in commercio da poco, e si alzò per andare a prendere una bottiglia ancora chiusa. L’aprì, ne versò per sé e per il giovane amico, aggiunse quella stilla d’acqua fredda che, diceva, esaltava il sapore del distillato, e tornò a sedersi, roteando leggermente il liquido nel bicchiere.
Il profumo del whisky, che già si era fatto sentire, pungente, appena aperta la bottiglia, si fece ancora più intenso.
 
“Laphroaig quarter cask – spiegò - invecchiato come un tempo, in barili più piccoli di quelli che si usano ora.”
 
Stava per partire con un’entusiasta spiegazione sul legno delle botti, sugli aromi e i profumi che si sarebbero dovuti avvertire, e lui arricciò il naso e mangiò un altro biscotto; non sentiva nulla della ginestra e dell’erica… figurarsi della noce di cocco! Quello era davvero il whisky più puzzolente che avesse mai annusato!
Ma ascoltare quei discorsi, inarcare le sopracciglia nel sentir descrivere fantasiosamente come piacevoli quegli effluvi, era diventata una consuetudine delle loro vacanze scozzesi di cui avrebbe sentito la mancanza, se quei due fossero impazziti all’improvviso, decidendo di diventare astemi.
 
***
 
Un paio d’ore dopo Matthias e Keith stavano tornando verso il loro piccolo cottage, camminando fianco a fianco, vicinissimi, con le mani che si sfioravano, le dita che ogni tanto s’intrecciavano. L’aria settembrina era fresca, mossa da un leggero vento umido; c’erano solo cento metri o poco più da percorrere per arrivare a casa, e decisero di muto accordo di fare una passeggiata, prima di rientrare.
Matthias portava una borsa con alcuni tupperware che Wilma aveva generosamente riempito con le pietanze della serata, più un sacchetto di quei deliziosi biscotti; Keith trasportava una bottiglia dello stesso Laphroaig offertogli dopo cena, regalo di Holger; teneva in braccio quella scatola oblunga con più cura di quanta ne avrebbe usata per un neonato.
 
“Sai Matt, registrandosi al sito della distilleria e inserendo il numero di riferimento della bottiglia, si diventa proprietari di un piede quadrato dei terreni che circondano il torrente Kilbride…”
“Scommetto che appena tornati a Londra lo farai.”
“Non lo farò solo per questa: ogni bottiglia ha un numero di riferimento diverso, quindi… - assunse un tono particolarmente ispirato - se ne berrò abbastanza, avrò la mia occasione di diventare un latifondista.”
Matt ridacchiò, e Keith continuò, mantenendosi serissimo.
“Se poi vai a visitare le loro distillerie, puoi chiedere di andare a controllare la tua proprietà, e reclamare l’affitto, che ti viene pagato in cicchetti.”
“E quindi tu, grande latifondista, di cicchetti ne avrai abbastanza da far su un barile.”
“Quanto amo come mi capisci al volo.”
 
Si fermarono per un bacio, per una reciproca carezza sul viso, che scese giù sul collo, sul petto, per poi scivolare intorno alla vita, e stringersi l’uno all’altro. Restarono fermi per un po’, così, tranquilli e vicini, sotto la luce dei vecchi lampioni, a godersi la quiete di quella bella serata.
 
“Keith… hai addosso l’odore terribile di quella roba. Lo sentivo già a distanza, ma a baciarti c’è il rischio di perdere i sensi. Avresti dovuto evitarlo, il bicchiere della staffa.”
“Esageri! Non è possibile che si senta tanto, non erano nemmeno due dita!”
“È possibile eccome. Non te ne rendi conto, e non so come fai, ma quel coso è pestilenziale, puzza di… di…”
“Ti prego, non dirlo: so già che sarà una pugnalata.”
“Puzza di copertone bruciato!”
 
Keith emise un gemito afflitto, esagerato, e Matthias gli diede un divertito bacio sulle labbra, fermandosi a parlare su di esse.
 
“Ma come vedi sono pronto a sacrificarmi.”
 
~°~
 
Rientrarono a casa dopo poco più di mezz’ora; il vento s’era fatto più insistente, alcune gocce avevano iniziato a scendere, e si prepararono a terminare la serata in maniera tranquilla: una doccia di coppia, un po’ di lettura, e poi consumare quante più energie possibile a letto.
Le vacanze nel cottage scozzese di Keith servivano proprio a quello: a riacquistare la tranquillità che la vita quotidiana nella loro pur amata Londra cancellava. Passare una settimana senza impegni, senza orari, crogiolandosi nella pigrizia e tagliandosi completamente fuori dal mondo: niente televisore, niente computer, no ai giornali, abolivano persino il telefono.
Quando erano in vacanza in qualche città straniera, Parigi, Berlino, Madrid, le loro giornate erano intense, sature d’impegni, di cose da vedere e da fare; erano giorni fantastici che li lasciavano stremati, com’era giusto e com’era bello che fosse. Ma lì era diverso; lì, davvero, si rigeneravano; quei giorni oziosi erano l’equivalente di un bel bagno caldo dopo una giornata infernale.
 
Keith mise via la sua preziosa bottiglia nella credenza riservata ai liquori, poi seguì Matthias in cucina, a sistemare in frigo i tupperware e a dividersi una bottiglia di sidro e qualcuno degli ottimi biscotti di Wilma.
Quando si riaffacciarono in sala stavano discutendo sul visitare davvero qualche distilleria, in una prossima occasione; quelle dell’isola d’Islay erano tra le preferite di Keith, e un tour sarebbe stato davvero interessante. Poteva anche essere l’occasione perché Matt imparasse finalmente ad apprezzare il divino distillato, a riconoscerne profumi e aromi senza fare paragoni criminali capaci di ridurre in lacrime un intenditore. 
Il discorso s’interruppe di colpo, loro stessi gelarono sulla soglia, appena messo piede nella stanza, perché nel mezzo di essa, dove non avrebbe dovuto esserci nessuno… dove non c’era stato nessuno, un quarto d’ora prima, stava in piedi una persona.
A entrambi il cuore saltò un battito, e d’istinto si fecero più vicini, mentre Keith valutava l’intruso, stringendo i pugni già pronto ad attaccare, se necessario, e Matt si domandava se egli fosse già stato in casa, quando erano rientrati, o se vi si era introdotto mentre loro si trovavano in cucina, e…
… tutte azioni e pensieri che si compirono nel giro di tre secondi, prima di rendersi conto di chi fosse  l’ospite inatteso. Quindi la loro postura si rilassò, e un sospiro sollevato alleviò loro la stretta al petto.
 
“Rain! Dannazione!”
 
Lo raggiunsero con pochi passi, e nonostante il tono aspro nella voce, Keith fu il primo ad abbracciarlo con forza. Cercò di tenere a bada le emozioni, ma non ebbe molto successo, e la voce gli uscì quasi tremante.
 
“Sono passati quasi tre anni, accidenti a te!”
 
Lo rimproverò, e continuò a stritolarlo ancora per qualche secondo. Cedette il posto a Matthias, che sorridendo si strinse al vecchio amico; al contrario di Keith non fece nemmeno un tentativo di dominare la commozione.
 
“Sono tanto felice di vederti! Ci eravamo così preoccupati! Non vi siete più fatti vivi, e non vi abbiamo nemmeno potuto ringraziare.”
“Abbiamo anche provato a chiamarvi, e se qualcuno ci avesse visti così, mentre parlavamo al vuoto, mentre chiedevamo ‘ehi, ci siete?’ non ci avrebbe pensato due volte a farci internare.”
“Scusate. Mi dispiace avervi fatto stare in pensiero.”
 
Rain parlò quasi in un sussurro, sopraffatto dalle emozioni anche più dei due umani, mentre ricambiava abbracci e sorrisi. Era così piacevole quella sensazione di calore, di familiarità, così consolante, rassicurante. Li aveva osservati, quand’era stato possibile, durante quel periodo di separazione, rallegrandosi per il modo in cui le loro vite procedevano in amore e serenità, dissolvendo i fantasmi del passato, dolore, senso di colpa e rimpianto. Guardarli lo aveva fatto sentire meno solo, ed essere finalmente di nuovo con loro era come una piccola rinascita.
 
“Va bene, va bene… immagino che ci sia un valido motivo se un impiccione come te non si è fatto vedere tanto a lungo.”
“Quello che Keith intende dire è che ci siete mancati.”
 
Keith sorrise e strinse la spalla a Rain a conferma di quelle parole. Gli venne da chiedere:
“E Guildenstern dove l’hai lasciato?”
Ma la battuta non lasciò mai le sue labbra, perché notò la desolazione sotto la gioia, la malinconia nel sorriso di Rain; il vuoto al suo fianco era rumoroso, sbagliato, sempre più grande ogni secondo che passava.
Era come se ci fosse qualcosa in sospeso, qualcosa d’importante che ancora non era stato pronunciato, ma che già gettava la sua ombra. Anche Matt doveva averlo capito, perché gli rivolse uno sguardo preoccupato, interrogativo.
 
“Rain, cos’è accaduto?”
 
***
 
Così Rain raccontò.
Di come Jael aveva trasgredito agli ordini ricevuti, di come aveva agito tenendolo all’oscuro… manovrandolo, in un certo senso, ma anche proteggendolo.
Di come si era addossato ogni responsabilità, e di come gli aveva ordinato di non intromettersi, lasciando che i Sommi decidessero la sua punizione, e la sua soltanto.
 
“Osa fare di testa tua e non ti perdonerò mai.”
 
Quelle parole ancora lo scuotevano con la stessa forza di quando Jael gliele aveva sibilate nel Salone del Consiglio. Le ricordava così bene… ricordava ogni parola che Jael gli aveva detto, tanto che avrebbe potuto ripeterle una per una. Lo faceva, ogni tanto: le ripeteva a se stesso, cercando in esse la forza, la speranza, persino la rabbia, perché essere arrabbiato con Jael gli dava un po’ di sollievo. Pensava che, una volta lui fosse tornato, gli avrebbe rinfacciato tutto, lo avrebbe sepolto sotto una tale mole di proteste, lamentele e contumelie, che persino quel pezzo di ghiaccio avrebbe chinato il capo, chiedendo scusa.
E quella sì, sarebbe stata una grande soddisfazione, e forse anche la più clamorosa vittoria della sua lunga vita.
 
Raccontò come si era sentito, e come ancora si sentiva. Dei momenti di speranza, di quelli di sconforto, di come i secoli di attesa che si paravano davanti a lui gli sembrassero un muro invalicabile, una montagna invincibile.
Trecento anni avrebbero dovuto essere uno scherzo, per una creatura virtualmente immortale, niente di più che un breve intervallo nell’esistenza, ma non era così: i giorni scorrevano lenti, ed erano tanti, tantissimi, come sarebbero apparsi a un essere umano. Almeno, per lui era così.
E non si trattava solo dell’attesa, si trattava soprattutto della paura.
Dal cristallo Jael sarebbe potuto non tornare… o tornare profondamente mutato. Era un pensiero che non abbandonava mai, e che non riusciva a combattere nemmeno usando tutta la logica che possedeva. Beh, quella in fondo era sempre stata poca, non era forse uno dei rimproveri di Jael? Il suo essere troppo umano, troppo coinvolto, poco razionale.
Troppo coinvolto, già… detto da uno che poi si era sacrificato per tutti.
Sì, ma in modo estremamente logico e pianificato, avrebbe puntualizzato Jael, pieno di sussiego.
Non era un’orribile fregatura, essere innamorato di un individuo del genere?
 
E lui, con quel po’ di ragionamento logico che possedeva, si diceva che se c’era qualcuno in grado di resistere, di opporsi al nulla divorante del cristallo, era Jael. Lo aveva pensato sin dal momento in cui si era trovato di fronte il suo compagno, immobile in quella prigione.
Se aveva messo a rischio tutto, era perché doveva essere certo delle proprie forze.
Se aveva accettato un simile pericolo, doveva averci pensato con attenzione.
Se aveva messo in gioco le proprie ambizioni, era perché non temeva di subire un danno.
Ma era ragionamento logico, quello, o il tentativo zuppo di emotività di convincersi che tutto sarebbe andato bene?
 
Tre anni. Solo tre anni, e dovevano passare tre secoli.
Li avrebbe impiegati per obbedire all’ordine di Jael, impegnandosi al massimo per diventare più forte e ristabilire tra loro l’equilibrio che si era spezzato.
Conosceva anche quella parte della storia, ormai, e lì c’era altra rabbia e altro dolore, rivolti però contro se stesso, per non essersi accorto di nulla, per non aver capito cosa si nascondeva sotto l’atteggiamento scostante di Jael.
Non doveva essere stato semplice convivere con un segreto del genere, nemmeno per uno come lui, e l’averlo accusato di freddezza ed egoismo ora lo riempiva di rammarico.
Ecco, si trovava nel mezzo di un tale vortice di sentimenti ed emozioni contrastanti che per la prima volta pensava fosse vero, che era preferibile non essere in grado di sentire così profondamente.
Ma non durava che un attimo, perché non avrebbe mai barattato la sua natura con l’algido distacco che avrebbe dovuto essergli proprio, anche se ciò significava soffrire, provare rimorsi… e di quelli ne provava molti, con la sensazione di aver fallito, come amico e come custode.
Osservando loro, però, era sempre riuscito a sentirsi meglio.
Vederli insieme, felici, mentre costruivano quella nuova vita insieme, lo riempiva di gioia, di orgoglio, gli dava sollievo.
Li aveva visti affrontare gli incubi del passato, le insicurezze, le angosce, e ritrovare l’equilibrio; aveva visto Edg scrollarsi di dosso la morte che lo aveva accompagnato tanto a lungo, i sensi di colpa e i tormenti interiori. L’aveva visto guarire grazie all’amore fedele e radioso di Ewan, di Matt, che era stato capace di cancellare ogni ferita nell’anima del suo antico duca. Non era bastato un giorno, né una settimana o un mese, perché c’erano stati fantasmi testardi sempre in agguato, ma alla fine quel ragazzo che in apparenza era sempre stato il più fragile dei due aveva vinto su tutto.
 
All’inizio gli era stato imposto lo stretto divieto di contattarli; tutto ciò che gli era stato concesso era di poterli osservare. Credeva non avrebbe mai ottenuto di più, e non aveva osato chiedere, ma poi Lariel, stupendolo, gli aveva dato l’autorizzazione a far loro visita. E di raccontare, se avesse voluto.
Era strano, Lariel.
Lo aveva detestato, un tempo, perché sapeva che aveva sacrificato il proprio compagno all’ambizione, perché sembrava condividere con Jael un legame a lui negato, perché era stato lui in persona a imprigionare il suo compagno. Lo aveva detestato anche quando gli aveva spiegato tutto ciò che era capitato alle sue spalle, il piano di Jael e la propria connivenza… lo aveva detestato perché si era sentito escluso, perché aveva pensato, illogicamente, che Lariel avrebbe potuto fare qualcosa per risolvere la situazione senza richiedere un tale sacrificio.
 
“No, Rain. Non era possibile, e lo sai benissimo anche tu.”
 
E la quiete della sua voce aveva aumentato la sua rabbia, contro di lui, contro Jael, contro se stesso.
 
“Diventa più forte, come ti ha detto. Non deluderlo.”
 
Non era tenuto a spiegargli nulla, Lariel, ma lo aveva fatto.
Non era tenuto a permettergli di incontrare loro, ma lo aveva fatto.
Non era tenuto nemmeno a lasciargli vedere Jael, da solo, ma glielo permetteva, di tanto in tanto.
 
“Jael non comprende i sentimenti, né riesce a provarli in maniera piena, ma pare che conosca giustizia e compassione, e questo riesce a sostituirli degnamente. Io provo fin troppi sentimenti, li capisco da sempre, ma ho preferito voltare loro le spalle. In qualche modo devo fare ammenda.”
 
Rain non avrebbe saputo dire se quelle visite gli facessero male o bene, ma non sapeva rinunciarvi; guardava la statua che era Jael da lontano, e gli parlava, raccontava leggerezze, e terminava sempre pregandolo di non fargli scherzi stupidi.  Da dentro quella prigione non si poteva avvertire nulla del mondo esterno, così aveva raccontato chi era riuscito a tornare, eppure lui voleva credere, con tutto se stesso, che Jael riuscisse a percepire la sua presenza, e che ciò lo aiutasse. Era vivo e cosciente, lì dentro, e solo, a lottare per non svanire… stare lì e parlare, se non aiutava Jael, almeno aiutava lui, un po’.
E così attendeva.
 
Gli era stato assegnato un compagno temporaneo, e lui aveva protestato, considerandolo in cuor suo di cattivo auspicio, ma non aveva potuto opporsi. Quei tre anni, comunque, erano stati di quasi inattività, e non sapeva se avrebbe avuto qualche incarico importante, nei secoli futuri… fino a che non avesse riavuto il suo vero compagno. O fino a che non l’avesse perso per sempre.
 
E così andò avanti, a parlare, a raccontare, a sfogarsi, tra speranze e paure, a volte ripetendosi, a volte saltando da un argomento all’altro, restando seduto tra i suoi due amici, e a volte alzandosi e vagando irrequieto per la stanza. Era uno sfogo che sgorgava senza che lui potesse fare nulla per bloccarlo, o per guidarlo: le parole uscivano e basta, ed era come se un peso se ne andasse da lui, poco a poco, con ognuna di loro.
Il sollievo non sarebbe durato molto, la solitudine e il rimpianto sarebbero tornati presto, ma intanto, condividendo i propri sentimenti con qualcuno che gli voleva bene, qualcuno capace di ascoltarlo e capirlo, gli sembrava che la strada da percorrere fosse più breve e agevole.
 
***
 
Quando Rain terminò il discorso, Matthias e Keith erano colmi di emozione, e a corto di parole.
Non avevano mai immaginato che la prolungata assenza dei loro custodi fosse dovuta a simili circostanze; avevano immaginato che, magari, risolte per il meglio le cose con loro, i due fossero passati ad altro… erano stati molto in pensiero per quell’allontanamento improvviso e totale, ma l’idea che potessero essere in guai tanto gravi non li aveva sfiorati.
Al contrario, credevano che il loro operato fosse stato ben giudicato, visti i risultati; per loro, senza dubbio, era stato quanto di più perfetto immaginabile.
 
Keith scambiò con Matt uno sguardo costernato, ed entrambi si fecero più vicini a Rain.
 
“Io… mi dispiace così tanto. Non so nemmeno cosa dire. Vorrei poter fare qualcosa… vorrei poterci parlare io con questi Sommi, e spiegare loro che infrangere le regole può essere più saggio e altruista che rispettarle.”
“Già tentato, Edg, me medesimo. Inutilmente. Ma grazie per il pensiero.”
“Io mi sento in colpa. – mormorò Matthias – Se non avessi reagito come ho fatto, Jael non sarebbe stato costretto a operare in quel modo… io e Keith avremmo potuto affrontare il problema da soli, e lui non si sarebbe messo nei guai.”
“Alla base della tua reazione stava la bugia che ti raccontai sulla nostra morte… che sbaglio maledetto! Se avessi taciuto, quella volta, tutto sarebbe stato più fa-”
“Ehi, voi due, chiudete il becco! Ci manca solo che vi mettiate a palleggiarvi un senso di colpa completamente ingiustificato! Siete umani, è solo ovvio che commettiate errori. Tutti se lo aspettano, insomma… come razza siete usciti dalle caverne l’altro ieri. Quell’errore in particolare ha innescato un effetto valanga, ma tu, Edg, non eri certo in grado di prevederne le conseguenze, e Matt non ha colpa se, in un momento di tale stress emotivo, non è stato in grado di mantenere la razionalità.”
 
Sorrise loro, rassicurandoli, dalla sua espressione, dai suoi occhi, dal tono della voce, fu evidente il vero essere di Rain, la sua età reale, la sua esperienza; era così umano il suo comportamento, di solito, che era facile dimenticarsi, con lui, di avere a che fare con un’entità sovrannaturale, della cui natura in fondo sapevano ben poco.
 
“E non dimenticate – continuò lui – che non ha agito a quel modo solo per aiutare voi, ma anche per salvarmi, e se qualcuno deve sentirsi in colpa quello sono solo io, per non aver capito cosa stava succedendo a lui e a me. Voi non avete alcuna responsabilità in questo, voi siete… le anime che ci furono affidate perché potessero ritrovarsi e ricominciare, le anime che dovevamo sorvegliare e proteggere. E, soprattutto, due cari amici per i quali valeva la pena rischiare.”
“Ma sentiamo lo stesso che un po’ di responsabilità in tutto questo pesa su di noi… e sentiamo  il bisogno di chiedervi scusa.”
“Chiedete pure, se ci tenete; io dirò che vi perdono per farvi contenti, così vi sentirete meglio.”
“Ah, Rain…”
“Davvero ragazzi. Me la cavo… mi sentivo solo, ma parlare con voi mi ha fatto bene. Stare con voi mi fa sentire meglio. Finora la mia libertà era stata limitata: ero un po’ un sorvegliato speciale, visti gli accadimenti, ma pare che stiano cominciando ad allungarmi la catena. Verrò a farvi visita più spesso… forse potrei ottenere il permesso di vivere per qualche tempo tra gli umani: penso che potrebbe essermi d’aiuto. È consigliabile per noi, per capirvi meglio: cambiate usanze e codici morali con una tale velocità che se vi perdiamo di vista per mezzo secolo corriamo il rischio di rimanere confusi… osservare dall’esterno non basta per comprendervi, amici miei.”
“E dici che te lo concederanno, questo permesso?”
 
Rain si strinse nelle spalle, facendo una smorfia, e di nuovo comparve la sua versione umanissima che conoscevano così bene.
 
“Può darsi di sì, insistendo un po’. Si tratterebbe di passare almeno un anno tra gli umani, ma in realtà nessuno resta per così poco… c’è anche chi si è fermato per decenni. Questo senza la possibilità di utilizzare i miei poteri, e con il divieto di tornare a casa fino allo scadere del tempo previsto. Ciò mi darebbe cose a cui pensare che di certo riuscirebbero a distrarmi, ma… beh, significherebbe non poter vedere Jael per tutta la durata della mia permanenza.”
“E temi che sentiresti ancora di più la sua mancanza?”
“Credo di sì.”
“Io credo che se Jael fosse qui – disse Matthias - ci guarderebbe con un sopracciglio inarcato, scuotendo lentamente la testa. Non direbbe proprio nulla, ma sarebbe il silenzio più eloquente mai sentito.”
 
Rain e Keith sorrisero, perché era vero: potevano immaginarlo benissimo così, perplesso dalla loro emotività, intento a cercare di capirla… distaccato, ma solo in apparenza.  
 
“Mi sforzo di non preoccuparmi troppo per lui, perché credo che la prenderebbe come una mancanza di fiducia nelle sue capacità. Mi ripeto che tornerà da me, e potrò dirgli tutto quello che si merita, farci una bella litigata… che immagino sarà a senso unico, ma un po’ di soddisfazione me la darà lo stesso. Attendo, spero, ma convincersi non è poi così facile: sono stati pochi quelli che sono tornati dal cristallo. Anche la statistica  mi dà contro.”
“La statistica si ritrarrebbe guaendo, da Jael.”
 
Matt lo disse con la più completa serietà, come evidenziasse un dato di fatto: la determinazione e l’orgoglio di Jael erano in grado di fargli superare qualunque cosa, ecco ciò in cui tutti e tre dovevano avere fede. E con quel pensiero in mente decisero, senza doverselo dire, di cambiare argomento, in leggerezza, proprio in onore di quella fede.
 
“E così ci sarebbe la possibilità che tu, per un po’, viva in pianta stabile fra noi umani appena usciti dalle caverne.”
“Me lo auguro. L’ultima volta è stata… centocinquanta anni fa. Vivere come umano tra gli umani non è semplice, per chi non è abituato, ma  è interessante… entusiasmante! Le difficoltà diventano uno stimolo, tutto acquista un valore diverso, e si riesce a cogliere la preziosità del tempo, l’unicità di ogni essere vivente…”
“Ah, l’innocente ottimismo di colui che non conosce la folla dell’ora di punta in metro, né tasse da pagare, o ausiliari del traffico molesti.”
 “Keith!”
 
Rimproverò Matthias, ma con un sorriso. Anche Rain sorrise, distogliendo gli occhi e voltandoli alla finestra buia.
 
“Visione troppo rosea? Lo so… lo so benissimo, anche più di voi; ma per il momento ne ho bisogno.”
Per il momento sei qui, e quindi ci pensiamo noi farti sentire meglio. A questo servono gli amici, no? Avanti, ti offriamo da bere, così puoi cominciare a calarti in panni umani: lo sai che lo facciamo con qualsiasi scusa, con qualunque umore e per qualunque occasione.”
 
Keith gli diede un paio di colpetti sul ginocchio e si alzò, dirigendosi alla credenza; pieno d’ottimismo ne tirò fuori tre bicchieri, e versò.
Così anche Rain ebbe la sua occasione di pugnalarlo al cuore.
 
“Cos’è quest’odore tremendo di pneumatico in fiamme?”
 
 
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NdA
 
L’incredibile è accaduto, alla fine ho davvero scritto una side story di ‘In un Paese d’Estate’!
E per chi l’ha letta solo qui su EFP non sarà passato poi molto, ma chi la seguì ai tempi della prima pubblicazione sa che sono dieci anni che dico “Eh, mi piacerebbe scrivere qualche side, prima o poi!”. E se infine è arrivata, devo ringraziare ‘Tenebra e Luce’: ero alle prese con un blocco che mi sembrava insormontabile, giorni e giorni di fila senza riuscire a scrivere, e dopo quasi un mese passato senza aver risolto nulla mi sono chiesta se il problema fossi io o se fosse il capitolo in sé. Così ho voluto cambiare storia e ho provato una delle tanto procrastinate side story… nel giro di poche ore, diluite in due pomeriggi, è nata questa. Adesso spero di riuscire a scrivere le altre che ho in mente con una certa regolarità, senza far passare un altro decennio.
 
Spero vi abbia fatto piacere incontrare di nuovo Keith e Matthias, vedere che stanno bene e che sono più innamorati che mai… e che Rain tutto sommato se la passa meglio del previsto. Tra l’altro, ho già pronto il suo eventuale lavoro, in caso di trasferta umana.
Ah, il whisky citato ha davvero un odore tremendo, lo dico persino io che apprezzo il profumo del whisky. Ed è anche vero che registrando la bottiglia acquistata si guadagna la proprietà simbolica di un fazzoletto di terra intorno al torrente la cui acqua viene usata per la produzione. Ho tuttavia la sensazione che se Keith decidesse davvero di diventare grande proprietario terriero a quel modo, Matt glielo impedirebbe.
 
Grazie per essere venuti a trovare di nuovo questi miei personaggi, e per aver letto fin qui.  E, nel caso, stavolta i commenti sarebbero più benvenuti che mai, vista l’occasione ^_^
A presto (anche con Tenebra e Luce, su cui nel frattempo mi sono sbloccata)!
 
 
 





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