And
she plays along while I sing all my blues.
A Irene,
anche se magari
“nu je
piace stoggenere”,
ma ne abbiamo parlato
così
tante volte
che ora ho scritto
e la dedico
a te
e alla memoria di un
ascolto in macchina.
Plumpton Place, Plumpton, East
Sussex, primavera del 1972
Per
prima cosa, Harrison era uno stronzo!
Non nel
vero senso del termine, sapeva che era una brava persona e, in un certo
senso,
un esempio da seguire, ma quella battuta gli aveva fatto venire un
crampo allo stomaco
di quelli che ti tengono sveglio per qualche notte. In poche parole, lo
stava
facendo ribollire di rabbia. Il che era tutto un programma. A vederlo
seduto
sul suo dondolo, circondato da pizzi e merletti e
l’espressione concentrata,
sembrava solo un placidissimo dandy
che
si gode il panorama pomeridiano. Eppure, a guardarlo bene,
quell’incarnato
pallido lo rendeva, per assurdo, cupo come una pantera che punta la
preda, la
bocca simile a una linea, così serrata da sembrare solo
disegnata.
Si
abbandonò a un sospiro pesante, che gli allargò
il petto smilzo in maniera
buffa.
Hey,
John, mi chiedevo. Non che
non ne siate capaci, per carità, ma una ballata riuscirete
mai a farla?
- E tu,
oltre a farla piangere, sai far fare qualcosa di più
eccitante alla tua
chitarra, George caro? –
sussurrò a
denti stretti, per poi chiudere la mano attorno alla pietra che teneva
sul
palmo, scagliandola violentemente sulla superficie
dell’acqua, facendola
rimbalzare per qualche metro, il tutto senza smuovere una ruga, senza
sollevare
un ciglio, l’espressione fredda e pungente come se non si
fosse mosso.
Jimmy
Page non odiava Harrison, tutt’altro, ma c’era
qualcosa che amava
profondamente: il suo orgoglio. E chiunque provasse anche minimamente a
sfiorarlo, lo mandava in bestia come niente al mondo. Non che
l’obiettivo di
Harrison fosse quello, per carità,
ma
aveva messo le mani avanti su una cosa che pensava di sicuro; che non
fossero
capaci di fare altro oltre alle “stesse canzoni”.
Un riff graffiante, un blues
sensuale, un assolo che strappasse il cuore e lo stomaco a chi lo
ascoltava,
riducendoli a brandelli.
Jimmy,
però, sapeva.
Sapeva
che con le sue dita avrebbe potuto accarezzare l’anima di una
persona
attraverso la sua chitarra; sapeva che quelle corde poteva sfiorarle
come se
fossero state di seta per comporre qualcosa di delicato; Jimmy sapeva,
era
certo, che avrebbe potuto comporre qualcosa che avrebbe fatto cascare
la bocca
di Harrison fin sotto le ginocchia.
Sospirò,
tornando con la schiena contro lo schienale del dondolo e accavallando
le
gambe.
Il
mondo, attorno a lui, sembrava il naturale adattamento al suo umore. Il
prato e
il fiume erano illuminati dal sole pomeridiano, in una tavolozza
composta dalle
più svariate razze floreali, le foglie di un verde
così brillante da sembrare
quasi gialle. I raggi di luce filtravano tra i petali rendendoli
sfumati,
accentuandone i colori, gli alberi erano immobili e niente, in quel
quadro
impressionista che sembrava uscito dalle mani consumate di Monet,
faceva
pensare all’arrivo di qualcosa che potesse destabilizzare
quella quiete. La
realtà, invece, confermò l’ipotesi che
si potesse trattare di una calma
apparente. Proprio di fronte al punto in cui il sole sarebbe
tramontato, una
coltre di pesanti nuvole grigie viaggiava lenta nel cielo, in direzione
della
grande stella quasi si stessero preparando ad inghiottirla, gettando
sulla
meravigliosa tenuta di Plumpton Place un’inquietante ombra.
Jimmy
annusò l’aria. Non si prese nemmeno la briga di
voltarsi. Nonostante lui
continuasse a vedere il “lato luminoso” del suo
giardino, il profumo lieve
della pioggia che avanzava nell’aria gli bastò per
capire che alle sue spalle
il cielo si preparava a cascare giù.
-
Rientriamo. – si disse, quasi non fosse da solo.
Raccolse
pigramente la giacca di lana dal sedile, si coprì le spalle
esili, caricò la
chitarra acustica che giaceva a terra sul grembo e la portò
in casa con cura e
attenzione.
Appena
la porta fu chiusa con uno scricchiolio e un tonfo leggeri, un tuono
lontano e
cupo annullò il silenzio.
*
Le
nuvole avevano ormai coperto il cielo, mentre piccole gocce di pioggia
iniziavano a saltellare sui vetri delle finestre come cavallette. Ne
lasciò una
aperta, lasciando che l’odore dell’acqua e della
terra bagnata entrasse in
casa, inebriandola di quel profumo che amava così tanto. Si
lasciò andare sulla
poltrona vicino al camino acceso, il salotto illuminato dalla sola luce
del
fuoco che andava ad aggiungersi a quella fredda e opaca del tramonto
coperto
dal temporale, rannicchiandosi fino ad avere le ginocchia attaccate al
petto,
crogiolandosi nel profumo del suo accappatoio, della pioggia e del
dopobarba.
Amava
la pioggia,
il rumore lo rendeva
tranquillo, il profumo lo faceva sentire al sicuro. Adorava seguire gli
strani
disegni che le gocce formavano sui vetri e gli anelli perfetti che si
perdevano
sulla superficie del lago. E poi,
Plumpton Place. L’acqua, battendo su quelle pareti,
risuonava dolcemente
per tutta la casa e il suono era così perfettamente
amplificato che Jimmy lo
sentì rimbombare al centro del petto. Se non fosse stato
così debole di
costituzione e affezionato alle comodità, sarebbe anche
uscito lì fuori,
godendosi la sensazione della pioggia che gli appiccica addosso i
vestiti e gli
accarezza il volto.
L’unica
cosa che avvertì, invece, fu il trillo del telefono. Lo
sentì giusto in tempo,
accorgendosi che la pioggia lo aveva rilassato così tanto da
essere sul punto
di addormentarsi. Così, si trascinò pigramente
fino alla scrivania presente nel
salotto, afferrò la cornetta e rispose con un mezzo
sbadiglio.
- Oddio,
avessi saputo che dormi alle sei del pomeriggio sarei venuto a
svegliarti,
Bella Addormentata. – scherzò una voce roca
dall’altra parte del telefono.
- Che
umorismo da quattro soldi, Plant. – disse Page con aria di
sufficienza – Ma che
hai fatto alla voce?
- Nulla.
– rispose seccato – Sono solo raffreddato, tutto
qui.
- Wow,
il Dio Dorato con l’influenza! Credevo fossi immortale,
Percy! – rise piano,
passandosi una mano tra i capelli ancora lievemente umidi.
- Poi
sono io a fare umorismo da quattro soldi. – rispose
l’altro con voce seccata.
- Chi se
ne frega. – disse Jimmy continuando a ridere –
Comunque, seriamente, per
evitare certi inconvenienti dovresti perdere l’abitudine di
dormire col culo
per aria.
- Ancora?
– chiese Robert seccato, mentre Jimmy continuava a ridere.
- Ok, la
smetto! – esclamò Jimmy tirando forte col naso.
- Meno
male! – esclamò Robert – Anche se mi fa
piacere sentirti di buon umore. –
aggiunse con tenerezza.
- Giusto
in tempo. – sussurrò piano Jimmy, mentre una morsa
nervosa iniziava a farsi
risentire nello stomaco.
- Che
vuoi dire? – chiese Robert incuriosito.
- Nulla.
– tagliò corto Jimmy, scuotendo la testa, in quel
gesto inconscio che svelava
la sua preoccupazione, ma a Robert non gli servì vederla per
poterla avvertire.
- Non
dirmi che è ancora per Harrison! – disse sconvolto.
Jimmy
sospirò. Robert ormai lo conosceva così bene che
a volte lo temeva. Adorava i
propri segreti e preferiva rigirarsi nella mente le proprie
preoccupazioni, ma
con Robert era diverso. Il biondo ormai aveva imparato a intuire i suoi
pensieri anche stando in silenzio.
- Ti
prego, Jim. Come se non fossero già abbastanza quelle rogne
dei giornalisti,
ora passi anche il tempo a pensare a quello che dice Harrison?
– disse prima
che Jimmy avvertisse una voce in sottofondo che diceva “Mandalo
a fanculo, Pagey!”.
- E tu
avresti potuto farti i cazzi tuoi, Bonz! – lo
rimproverò Robert al telefono e a
Jimmy sembrò quasi di vedere la testa del cantante scattare
indietro per sbraitare
contro il loro batterista – Sei il solito pettegolo!
-
Suvvia, Robert, lascia perdere. Sai che passo il tempo a farmi seghe
mentali. –
disse Jimmy come se si stesse arrendendo. La verità era che
non si sarebbe mai
preso la colpa di una critica che sapeva di non meritare.
- Anche
se ogni tanto ti farebbe bene una vera, Jim! –
puntualizzò Robert, facendo
sbuffare Jimmy.
-
Ricominciamo con le battute tristi?
- Ok,
sta volta hai ragione. – disse Robert – Ma che fai
lì a Plumpton Place? Sai,
Bonzo starà qui per qualche giorno e ci si diverte pure a
vedere Pat e Maureen
che litigano in cucina. – aggiunse ridendo, ma venendo
bloccato da uno
starnuto.
“Chiamate
un’infermiera per
Percy!” urlò
John da qualche parte dal salotto di casa Plant.
- Non è
una cattiva idea. – sussurrò Robert ridendo piano
– Quindi?
-
Tranquillo, Percy. – disse Jimmy sottovoce – In
questi giorni sto componendo
qualcosa e ho bisogno di concentrazione.
- Va
bene, ho capito. – lo fermò Robert con
l’aria di chi la sa lunga.
- Grazie
della chiamata, Robert! – disse cordialmente –
Divertitevi anche per me.
Si
congedarono, Bonzo che dall’altra parte aveva urlato un
ultimo “Non ci pensare,
JimJam!”.
Fosse
facile.
Si
guardò intorno, mani sui fianchi. Le ombre di divani e
cuscini sembravano
invitanti abbastanza da poter prendere un libro, stendersi e ascoltare
solo lo
scoppiettio del fuoco e lo scorrere regolare della pioggia, ma il petto
gli
premeva troppo per starsene lì col naso ficcato nelle pagine
ingiallite; così
si precipitò sulle scale, raggiungendo il secondo piano,
infilandosi in camera
sua solo per mettersi un paio di pantaloni e abbandonare
l’accappatoio ormai
umido. Quando si assicurò di aver lasciato tutto in ordine,
uscì nel corridoio,
lo percorse fino alla fine e aprì l’ultima porta a
destra; subito le narici gli
si riempirono del profumo del legno e della moquette, godendosi quel
ronzio
rassicurante che partiva ogni volta accendesse la luce.
Il suo
studio di registrazione sarebbe potuto esplodere da un momento
all’altro per
l’infinita quantità di cavi, amplificatori,
chitarre e, soprattutto, idee.
Nonostante tentasse di mantenerlo in ordine, ogni volta che entrava
lì dentro
lasciava un caos inguardabile. Alla fine dei conti, per
lui suonare era come fare l’amore e qualsiasi amante che si
rispetti non può fare a meno di disfare le lenzuola.
Si
chiuse la porta alle spalle, sentendosi già meglio,
percorrendo con lo sguardo
la strada liscia e lucida del dorso di ogni manico delle sue chitarre.
Afferrò
la sua fedele Gibson, sedendosi a terra e incrociando le gambe,
portandola al
grembo come stesse facendo accomodare una donna sulle sue cosce. Si
piegò in
avanti, baciando con religiosità il legno che componeva la
cassa della
chitarra, soffermandosi ad annusarne il profumo, quel miscuglio intenso
tra
vernice e legno. Quando sollevò la testa, guardò
la finestra. Pioveva ancora.
Sorrise
a bocca chiusa, prima di prendere a sfiorare lo strumento con premura.
Era fredda,
ma a Jimmy dava sempre una sensazione infinita di calore; quel legno
sembrava
avere ormai la consistenza della pelle sulla quale, a furia di
accarezzarla o
graffiarla, aveva lasciato il calco delle proprie dita. Non
c’era donna che lo
completasse al meglio come la sua Gibson, né una voce che,
gemendo, lo facesse
sentire orgoglioso, felicemente virile come il suono di quelle sei
corde.
Iniziò a
suonare, piano, quasi avesse paura di fare rumore, amplificatore
spento.
Lasciava viaggiare le mani a vuoto, chiedendo ispirazione.
So che
tu puoi aiutarmi. Sei tu
l’unica che sappia leggermi dentro, che sappia tradurmi in
Musica. Guidami,
amore mio, portami alla meta.
E la
Gibson rispose, cristallina, armonizzando i pensieri di Jimmy.
Ed
eccola lì, la sua preoccupazione, il suo problema.
Something.
Harrison,
proprio lui. Quelle note così malinconiche, dolci, semplici.
Accordi che, in
quel momento, pizzicarono un punto tra il cuore e lo stomaco di Jimmy,
facendogli chiudere gli occhi. Una canzone d’amore e
nostalgia, quasi una
dichiarazione d’arresa. Una ballata.
Continuò
a suonarla, sicuro che dentro ci avrebbe trovato qualcosa.
Le note
iniziali, che piano salgono per poi posarsi lievi.
Le
ripeté, all’infinito, fino a quando non si accorse
che gli stava cambiando la
velocità.
Era
diventata lenta, abbandonando la malinconia per poter diventare
evocativa, un
ingresso, una carezza. Un invito. Si vide, per un attimo, a piedi nudi
sotto la
pioggia, il viso rivolto al cielo.
Sorrise
ancora.
Cambiò
un accordo, ebbe un brivido.
Eccola,
la melodia, le note esatte. Un lieve crescendo, come l’inizio
di un temporale,
le gocce che, rade toccano terra, senza violenza. Jimmy chiuse gli
occhi, per
avere una visuale migliore sulle sue fantasie.
Devo
vedere la Musica per poterla
seguire.
Continuò
a muovere le mani sulla sua chitarra, con tenerezza, come una donna
amata.
Immaginò di poterla prendere per mano, portarla sotto la
pioggia e farla
danzare con lui, i piedi nudi immersi nell’erba, sporchi di
fango, annusando
quel profumo che l’aria assume durante un temporale estivo.
Suonava e vedeva,
ad occhi chiusi, quel legno trasformarsi nella più calda
delle pelli, morbida,
giovane, ricca del tepore di quel sole nascosto dietro le nuvole
grigie. La
immaginò scura, in modo da poter vedere gli aloni delle
gocce posarsi sulle
braccia, sulle spalle nude. La melodia continuava nella sua testa e
nelle
orecchie come un lento dolce, ma passionale, di quelli che ti fa
stringere le
braccia l’uno attorno a l’altra, come a fingere di
ripararsi dalla pioggia.
Sorrise,
ad occhi chiusi.
Nemmeno
si rese conto che stava dondolando avanti e indietro, trascinato, la
Gibson che
ad ogni movimento rifletteva la luce che entrava dalle finestre.
Un
lento sotto la pioggia …
Nel
frattempo, quelle corde, avevano “cambiato voce”.
Non più il suono metallico
dell’elettrica spenta, ma quello caldo emesso dagli
amplificatori e quello
romantico dei violini. Tutto nella sua testa, un’orchestra
immaginaria ed invisibile
che segue i passi dei danzatori. Niente
regole. Nella sua mente, se era lui a ballare, aveva la
facoltà di decidere
cosa avrebbero suonato gli strumenti, che cosa avrebbe cantato la voce
del
vento tra la pioggia, che rumore avrebbe fatto ogni singola goccia che
si
infrange sul lago, come si sarebbero piegati i fiori ad ogni schizzo.
Sentì le
dita umide, gli sudavano le mani. O forse era la sua donna ormai umida
di
pioggia, che gli porgeva la mano. Una giravolta, una risata, capirsi e
parlarsi
solo con gli occhi. Riconoscersi ad ogni suono, fino alla fine dei
tempi.
La
sentiva, l’acqua. Quel rumore cristallino, come piccole
bacchette che
picchiettano piatti di bronzo.
La
melodia che cresce.
La
pioggia che diventa incalzante.
Il vento
che sale un’ultima volta e poi tace.
Il
tuono.
Un colpo
di grancassa che gli fece aprire gli occhi, la stanza illuminata per un
istante
da un fulmine.
Jimmy
sorrise, gli occhi che saettavano da una parte all’altra
osservando la pioggia
scrosciare giù con violenza, le sue mani che come impazzite
ne enfatizzavano la
caduta come se fosse stato un trionfo.
La
melodia era cresciuta con un tale impeto che sentì il cuore
rimbalzargli nella
gola e chiuse gli occhi un’altra volta. L’immagine
di lui sotto il temporale
era ancora lì, in compagnia della sua chitarra divenuta la
più amata delle
donne. Più bassa di lui, se ne accorse solo quando la
trascinò a sé, baciandola
con trasporto e a labbra serrate, sovrastandola e facendole piegare la
testa
all’indietro. Un bacio da cinema,
pensò.
Drizzò
le orecchie, si accorse che i tuoni si allontanavano, il suono che
arrivava
ovattato come un addio urlato da un treno in corsa.
Il temporale
stava per finire.
Decise
di seguirlo.
Riaprì
gli occhi.
Tornò a
guardare la sua Gibson, nelle sue forme naturali. Accarezzò
dolcemente quelle
corde, improvvisando un assolo delicato, sottile, come le ultime gocce
di
pioggia che ormai scivolavano sui vetri, quasi silenziose. La mano
destra
pizzicò quelle corde di ferro come se fossero state fili di
ragnatela, come se
ad un tocco più forte si fossero spezzate.
La
quiete che torna dopo la tempesta.
La mano
sinistra scivolò sul manico.
Gli
tornò in mente Harrison.
Una nota
amara nell’assolo, un breve istante di inquietudine che volle
trasformare in un
arpeggio.
Ogni
cosa doveva essere Musica in quel momento.
Poi si
accorse di cosa aveva composto.
Sorrise
per l’ennesima volta.
Trasformò
l’arpeggio, facendolo diventare romantico, pieno della
felicità che gli
sbocciava nel petto.
Poggiò
le labbra sul legno caldo della sua Gibson.
Un’ultima
nota.
Fuori il
cielo si aprì. Un arcobaleno sottile e sbiadito, ma luminoso.
Poi, il
silenzio.
Si
lasciò andare a terra, portando il manico al petto, la cassa
tra le gambe. Le
strinse intorno al legno, quasi lo strumento potesse ribellarsi e
sfuggirgli.
Se Dazed and Confused era stato il
suo modo di esprimere la sua feroce passionalità e il suo
lato oscuro, ciò che
aveva suonato in quel momento era il lato più tenero, dolce
e nascosto della
sua anima.
Era
felice, la melodia che aveva composto era perfettamente impressa nella
mente.
Vaffanculo,
Harrison!
Angolo della pazza:
Salve! ^^
C’è poco da fare, The Rain Song è una delle mie
preferite
(seconda solo a Since I’ve Been
Loving
You e non uccidetemi se metto Stairway
To Heaven solo terza, succede) e non potevo non scriverci
qualcosa di
specifico.
Prima d’ora, avevo
scritto qualcosa del genere solo su Echoes
dei Pink Floyd (altra meraviglia! *^*) ed ora mi sentivo in dovere di
dedicare
qualcosa a questa perla dei Led.
Non so voi, ma per me,
per capire Jimmy, bisogna ascoltare Dazed
and Confused e The Rain Song. La
prima rappresenta la sua parte sadica, quella rude e arrabbiata,
quell’archetto
scagliato sulle corde come una specie di frustino. Poi, la delicatezza
della
seconda, quelle carezze e quell’abbandono che diventa
palpabile nelle ultime
note.
Nessuna antipatia per George, of
course. La
verità e che andò a dire veramente a Bonzo
perché non facessero ballate e quella pettegola baffuta lo
spiattellò agli
altri. Ergo, come poteva reagire quel paranoico/segaiolo mentale di
Jimmy?
Questa è la mia risposta!
Bene, detto ciò, nessuno
scopo di lucro per:
- Cherry, Amy Winehouse.
Ascoltatela, leggetene il
testo e ditemi se Jimmy non sarebbe d’accordo! :3
Un ringraziamento a Ire e
Cla.
Siete le mie fedelissime,
come posso dimenticarmi di voi?
Un abbraccio,
Franny.
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