Oltre
le stelle
Autore: ellephedre
Disclaimer: i
personaggi di
Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di
proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.
Prima
parte - Ritrovarsi
Gli occhi blu di Mamoru guardarono verso l'alto.
Lui mosse la bocca per
pronunciare il suo nome, poi Usagi lo vide sparire nella stessa luce
che aveva tolto la
vita alle altre. Mamoru, che lei amava con tutta se stessa. Mamoru, con
cui avrebbe costruito un futuro. Mamoru, con cui avrebbe avuto Chibiusa.
Sparì così, in un
secondo.
Anzi... era
già scomparso da mesi.
Tutto il futuro che lei conosceva, tutta
la sua vita...
erano spariti
da tanto tempo.
Poco prima erano cadute Ami, Makoto, Rei e
Minako. Le amiche che l'avevano accompagnata in ogni
battaglia, ragazze con
sogni, con un futuro.
Sparite. Morte.
Fu una forza che non credeva di avere a farla
andare avanti, grazie
all'aiuto di tre guerriere venute dallo spazio.
Non si fermò, non si arrese. Si
rifiutò di
pensare a cosa
ne sarebbe stato di lei una volta che avesse vinto. In fondo, poteva
sempre perdere.
Ma sopravvisse, non fallì. Circondata da
semi di stella che
tornavano a casa, uscì vittoriosa dalla sua battaglia.
Ora sono sola.
Per la disperazione, quasi crollò.
Poi le ragazze apparvero in cerchio attorno a lei,
tutte quante, a
cancellare
ogni sua paura.
Infine tornò anche lui, proprio come nel
sogno che aveva avuto qualche ora prima.
Ma questa volta era tutto vero.
L'appartamento vuoto e scuro. Serrande abbassate,
neanche una luce
a regalare colore alle pareti.
Fermo
sulla
porta aperta, Mamoru si sorprese a
guardare lo
spazio davanti a sé, privo di vita, spento come la sua
esistenza
negli ultimi mesi.
Non andò a cercare
con la mano l'interruttore della luce, si
diresse alle
finestre. Roteò un manico cigolante e ne aprì
una.
Lentamente sollevò le tapparelle.
La luce della luna si
infiltrò nella
stanza, posandosi prima sul pavimento, quindi sul divano
verde
scuro e infine illuminando la parete opposta.
Rimase a fissare il
salotto della propria casa.
Non gli era mai
sembrato tanto strano trovarsi dentro il suo stesso appartamento.
Sul comodino giaceva la
lampada bianca che aveva scelto anni
prima. La accese, per avere l'unico alone di luce di cui sentiva il
bisogno. Si diresse dietro la televisione e riattaccò la
spina.
Ridiede energia al frigorifero e girò la manopola
del
gas, riattivando la pressione.
Cosa
sto facendo?
Non riuscì a darsi una risposta. Si stava
muovendo, stava
facendo qualcosa di utile.
Si diresse verso il telefono. Non lo aveva staccato
per
tenere in funzione la segreteria. Una spia rossa indicava
la presenza di messaggi.
Ne immaginò il
contenuto, lo temette. Premette ugualmente
sul
tasto che avrebbe fatto partire la voce registrata.
'Ci sono 5 messaggi.'
Beep.
'Messaggio
registrato il primo maggio.
Buongiorno Mr Chiba, la
chiamo dalla segreteria della J. Hopkins University. Come studente in
scambio, lei doveva presentarsi una settimana fa presso di noi per
raccogliere il materiale necessario a formalizzare l'iscrizione
temporanea e l'assicurazione sanitaria coperta
dall'università. Ha mancato anche la sessione di
orientamento.
La preghiamo di recarsi al
più presto presso i nostri uffici del campus per fornire un
recapito telefonico statunitense, essendo questo al momento
l'unico suo numero presente nei nostri archivi. Le auguro una buona
giornata.'
Beep.
'Messaggio
registrato il venti maggio.
Buongiorno Chiba-san. La
chiamo
dall'ufficio scambi dell'università di Tokyo. La J. Hopkins
University ha contattato i nostri uffici per informarci che non
sono riusciti a reperirla per svolgere le necessaria
formalità
in loco. La preghiamo di mettersi in contatto con loro il primo
possibile.
Nel caso abbia problemi di salute o se ha incontrato problemi a partire
per gli Stati Uniti, le chiedo di
darcene
rapida comunicazione.
Buona giornata.'
Beep.
'Messaggio
registrato il primo giugno.
Mamoru! Va bene che sei
occupato, ma potresti perdere due minuti per far sapere al tuo amico
che sei arrivato vivo e vegeto?' Il suono di una risata. 'In un
mese sarai
riuscito a trovarti una sistemazione. Magari hai un numero di telefono
da darmi, così ti chiamo io se tu non hai tempo.
Non me la prendo, ti conosco. Spero solo che
tu ti stia ricordando di Usagi. Sembra proprio
a
terra in questi giorni. Be', ciao!'
Beep.
'Messaggio
registrato il venti luglio.
Buongiorno Chiba-san, la
chiamo
dall'ufficio tasse dell'università di Tokyo. Avendo
constatato
la
sua mancata partecipazione al programma di scambi, le ricordiamo che la
sua posizione finanziaria presso l'università è
da regolare
per la prossima tassa, con scadenza nel mese di settembre. Buona
giornata.'
Beep.
'Messaggio
registrato il ventidue luglio.
'... ... ...'
Un
sospiro, seguito da un singhiozzo.
Beep.
La segreteria non emise altri
suoni.
Mamoru rimase in piedi,
immobile. Poi
premette la combinazione di tasti necessaria
a visualizzare la data sull'apparecchio.
Tre agosto.
Erano passati tre mesi.
A stento arrivò al
divano, vi crollò sopra.
«Usagi.»
Nascose la faccia tra le mani.
Lo svegliò lo squillo del telefono. Dalla
finestra
aperta entrava la luce del giorno.
Indolenzito, si alzò dal
divano. Si era addormentato, senza neanche rendersene
conto.
Portò la cornetta all'orecchio.
«Pronto?»
«Mamo-chan...»
Trasalì.
«Usagi.»
Strinse il telefono, chiuse
le palpebre.
Usagi.
Si
beò del suono della voce di lei, un eco delicato nella sua
mente.
L'aveva lasciata da sola per
tre mesi.
Non riuscì a dire
nulla.
La immaginò col
telefono
in mano, devastata quanto lui dietro il silenzio. O forse lei stava per
singhiozzare? Come aveva fatto nella sua segreteria.
Iniziarono a
prudergli le mani.
«Usa, vuoi-»
«Venire da te? Esco
ora.»
«Sì.» Voleva stringerla,
toccarla.
Lei aveva già
riattaccato, per venire a trovarlo.
Infuso di nuova vita, si alzò.
Usagi aveva dormito bene fino
a poco prima di svegliarsi.
Della sera precedente
ricordava ancora il viso sorridente delle
ragazze, strette intorno a lei per abbracciarla. Le aveva amate una ad
una nel rivederle, poi si era gettata tra le braccia di
Mamoru. Aveva faticato a respirare, concentrata solo
sulla voce di lui all'orecchio - tanto agognata, finalmente di
nuovo
con lei. Mamoru aveva asciugato
le sue lacrime continuando a guardarla negli occhi, a rassicurarla.
Lei si era sentita
ridiventare una ragazza normale,
che non poteva sostenere l'enormità delle perdite che aveva
vissuto. In quel momento le ali cresciute sulla sua schiena erano
sparite ed
erano caduti tutti di qualche metro, quasi finendo sulle macerie di
asfalto prima che
lei riuscisse a sostenere di nuovo il loro equilibrio. Era tornata
immensa e aveva rassicurato tutti. Io sono luce. Lei
era la bontà che la invadeva e che i suoi amici le avevano
insegnato a non dimenticare.
Aveva desiderato che tutto
tornasse a posto nel mondo e l'energia si
era liberata dall'interno del suo animo.
Edifici distrutti erano
tornati in piedi. Ricordi di devastazioni erano
scomparsi dalla mente di innumerevoli persone sul pianeta. Molto altro
era stato
sistemato, ma non avrebbe saputo spiegare cosa.
Guardando le Starlights e la
loro principessa, che la osservavano da
lontano, si era commossa nel vederle riunite. Tra le
braccia di Mamoru aveva chiesto un ultimo regalo al cristallo
d'argento, il suo seme di stella.
Facci
tornare tutti a
casa.
Era riapparsa sopra un
morbido materasso, in pigiama. Con l'odore di Mamo-chan ancora nel
naso,
si era infilata sotto le coperte ed era crollata, al sicuro nella
propria stanza.
Di mattina aveva fatto un
singolo, terrificante
incubo: Mamoru che
la abbracciava solo per sparire subito, fino a non esistere
più.
Si era svegliata con un grido
trattenuto in gola, il cuore un martello
nel petto. Per un attimo aveva voluto piangere di
disperazione, poi i ricordi erano tornati a lei.
Aveva preso in mano il
telefono per cercare un contatto, una prova.
"Usagi?"
La voce di Mamoru era stata
la conferma di
una realtà che nessun nemico poteva più
cancellare.
Si era abbandonata sul letto,
stringendo il telefono alla guancia.
"Usagi..." aveva detto di
nuovo lui e lei era risorta di
felicità.
Non doveva più immaginare la sua voce, non
doveva più attendere una risposta che non giungeva
mai. Mamoru era lì, era tornato. Lui non l'aveva mai
dimenticata.
Voglio
vederti,
abbracciarti, baciarti. Sei vivo.
«Usa,
vuoi-»
«Venire da te? Esco
ora.»
«Sì.»
Aveva riattaccato ed era
corsa a indossare la prima
cosa che aveva trovato in giro - i vestiti sistemati sulla sedia.
In
bagno si era data un momento per riflettere ed era andata a
recuperare uno zaino. Lo aveva riempito con un pigiama, delle
ciabatte
e
della biancheria intima pulita - il necessario per non tornare a
casa quella notte. Come vestito di ricambio aveva preso la divisa
scolastica - solo per non
perdere tempo a scegliere.
Sul punto di uscire dalla sua
stanza, si era fermata
a osservare la spilla posata sul comodino.
La stava ancora guardando, chiedendosi se doveva indossarla
o meno.
Quella era
la fonte del suo potere, il gioiello che le dava la
possibilità
di combattere. Lo aveva sempre portato con sé, anche quando
una
guerra era appena terminata.
«Usagi?»
Guardò Luna. Si
chinò su di lei per abbracciarla.
«Ehi...
è tutto a posto, Usagi.»
«Lo so. Ti voglio
bene.»
«Anche
io.»
Usagi represse un singhiozzo.
«Luna... vado da Mamoru adesso. Credo che
tornerò domani.»
Dopo un momento, Luna
annuì.
Sollevata, Usagi
uscì dalla stanza.
Luna rimase a osservare la
porta aperta.
Non le era sfuggita la lunga
occhiata che la sua protetta aveva lanciato alla spilla. Il cristallo
era ancora lì, deliberatamente ignorato.
Luna non corse a
portarglielo. Per quel giorno non
era necessario.
«Usagi?»
Ikuko fermò la
corsa di sua figlia verso
l'ingresso. Cosa ci faceva quella dormigliona in piedi alle otto del
mattino, in
una
giornata di vacanze estive?
Usagi le corse incontro e la
baciò sulla guancia.
Ikuko
sgranò gli occhi.
«Mamma, oggi...
facciamo una gita con le ragazze, va bene?
L'abbiamo
deciso solo ieri sera. Tornerò domani, sta'
tranquilla.»
«Una
gita?» Per
simili programmi Usagi doveva prima chiederle il
permesso, o quanto meno avvertirla in anticipo.
Non fu capace di ammonirla:
il giovane viso serio di sua figlia le sembrò d'un tratto
molto più
maturo dei
suoi sedici anni, diverso dal volto di una persona a cui lei avesse il
diritto
di
impedire qualcosa.
Spiazzata, annuì.
Usagi
tornò dolce e bambina davanti ai suoi occhi.
«Okay, allora
torno
domani
pomeriggio. Ciao, mamma.»
Ikuko osservò sua
figlia sparire oltre il muro della
cucina.
Incerta, rimase a domandarsi
cosa fosse accaduto.
C'erano molte cose da
sistemare, pensò Mamoru, dopo un
ritorno dall'aldilà.
Spalancò le
finestre di casa e sollevò le
tapparelle.
Non sopportando il silenzio, accese la televisione.
Con
le voci estranee che parlavano in sottofondo, andò a
dare aria a tutte le stanze.
In bagno girò i
rubinetti del lavandino. La tubatura
faticò a riempirsi, ma quando l'acqua riprese a scorrere il
getto fu pulito. Lo usò per rinfrescarsi.
In camera sua aprì
i cassetti, trovando solo
pochi vestiti. Gli altri, ricordò, erano
rimasti
chiusi nella valigia
che
si era portato in America, assieme a tutti i suoi documenti e al
computer
portatile.
L'aereo!
Cos'era successo all'aereo?
Forse Galaxia lo aveva distrutto?
Certo
che no, capì. Se il suo aereo avesse avuto
un incidente, Usagi avrebbe saputo
cosa gli era successo. Invece lei era rimasta ignara,
perciò
l'aereo
doveva
aver proseguito il volo dopo che lui era stato...
Già. La valigia
doveva trovarsi all'aeroporto di Baltimora. Dopo
tre mesi senza reclami, era sicuramente abbandonata in
qualche deposito.
Si appoggiò sul
letto, tenendosi la testa
tra le mani.
Senza vestiti, senza
documenti, senza portatile, considerato disperso
dalle università e da tutte le persone che lo conoscevano.
Ma soprattutto, era morto per
tre mesi. Non una parola a Usagi per
tre mesi interi.
Con lei non avevano parlato
la sera prima. Avevano usato i loro primi
momenti per stringersi, per accertarsi di essere vivi e di nuovo
insieme.
Lui le
aveva asciugato
lacrime di gioia e tristezza: sapeva a cosa era dovuta la
disperazione di lei. Mentre tornava in vita, il cristallo che gli era
uscito dal corpo lo
aveva riempito di informazioni: era appena terminata
la battaglia
finale e Usagi aveva vinto contro Galaxia, grazie a una bambina aliena
coi codini. L'oggetto che lo aveva rianimato - che gli era stato rubato
- era un 'seme di stella' e ogni guerriera
Sailor o protettore di un pianeta ne possedeva uno. Lui aveva perso il
suo da tempo - anche se solo una volta a casa
aveva capito quanti mesi fossero trascorsi.
Abbracciandolo, Usagi gli
aveva trasmesso con chiarezza le proprie
sensazioni.
Non mi hai
dimenticata. Mi ami ancora. Sei tornato da me.
Lei lo aveva creduto al
sicuro negli Stati Uniti. Si era convinta che
lui avesse deliberatamente evitato di contattarla.
Possibile?
Si
spogliò dei vestiti che aveva indossato
nell'aereo, gli stessi con cui aveva dormito. Voleva vita in
sé e
su di sé. Si cambiò con i
pochi indumenti che gli erano
rimasti - capi che non usava quasi mai.
Irrequieto e sveglio, non
seppe più cosa fare.
Erano troppe le questioni su
cui indagare, ma
solo Usagi avrebbe potuto
rispondergli. Doveva aspettare che lei arrivasse. Nel
frattempo, non
poteva rimanere con le mani in mano. Prese un foglio, per
buttare
giù una lista.
Aveva bisogno di
organizzarsi. Cosa c'era da fare nelle ore successive?
Doveva procurarsi del cibo,
innanzitutto. Il frigorifero era vuoto,
così come la dispensa.
Dopo aver rifornito e pulito
la casa doveva... be', doveva delle
spiegazioni a tutti. Andare a trovare Motoki era una
priorità.
All'università
avrebbe detto che aveva avuto un incidente.
Gli avrebbero chiesto un certificato medico come prova. Forse
Ami lo
poteva aiutare? Sua madre era un medico.
Medico...
Alla John Hopkins a studiare
medicina, mentre Usagi e le
altre affrontavano Galaxia da sole.
Se fosse rimasto con loro,
quella donna non sarebbe riuscita a
derubarlo della sua essenza tanto facilmente. E anche se ce l'avesse
fatta, Usagi
avrebbe
saputo
subito cosa gli era accaduto, invece di vivere nell'incertezza
per... tre mesi?
Come aveva fatto lei a non
intuire che c'era qualcosa che non andava
se lui non si era più fatto sentire per tutto quel tempo?
Le aveva detto
che non sarebbe riuscito a contattarla
per i primi tempi, ma solo come forma di precauzione: sapeva
che Usagi avrebbe tentato di comunicare con
lui
appena fosse atterrato, innervosendosi nel non risentirlo subito. Per
questo
aveva cercato di prevenire possibili crisi in anticipo,
ma... aveva avuto in mente qualche giorno di attesa, non tre
mesi interi.
Come aveva fatto Usagi a
credere che lui avesse deciso di non parlarle
per più di dodici settimane, quando a stento a casa passava
un giorno tra le loro chiamate?
Voleva saperlo, sarebbe stata la prima domanda che le avrebbe
fatto.
... no.
Prima doveva scusarsi
con lei: durante la battaglia
più dura di tutte non le era stato accanto.
Non importava come o
perché, ma Usagi aveva creduto
che
lui
non avesse voluto parlarle per mesi, proprio mentre aveva
bisogno di lui nei combattimenti per aiutarla, rassicurarla, darle
forza.
Premette forte sulle tempie.
Ma che aveva pensato quando se n'era andato?
Di poter tornare subito, ricordava.
Aveva
tenuto conto del possibile arrivo di
nuovi
nemici. Se fosse stato
necessario, si era detto, sarebbe tornato indietro a combattere, senza
condizioni o
rimpianti. Usagi avrebbe saputo dirgli quando ci fosse stato bisogno
del suo aiuto, lei non era più una guerriera inesperta.
Inoltre, anche le ragazze col tempo erano diventate più
abili e
forti. Il
contributo di lui non era più indispensabile.
Si era giustificato così per partire.
Stupido.
Avrebbe dovuto immaginare il peggio,
prevederlo. Non ci aveva pensato di proposito, per non
frenarsi dal
partire.
Aveva cercato di scappare?
No. Non si era
iscritto a nessun concorso, né ad alcun progetto di scambio.
Aveva
solamente completato una ricerca su cui si era impegnato per
mesi. Il suo lavoro era stato notato da un professore che lo aveva
lodato
presso un'università americana e, dal nulla, lui si era
ritrovato
con
una
proposta creata su misura. Dottori rinomati, tra i migliori
nel campo, avevano pensato che valesse la pena investire su di lui,
dandogli un'opportunità.
Ne era stato così fiero.
Perché se n'era andato? Per provare almeno a vivere
l'esperienza. Se i nemici si fossero ripresentati sapeva qual era il
suo dovere, il
compito così intimo al suo essere da non costituire
un
peso. Sarebbe tornato immediatamente.
Prima di accettare
si era consultato con Usagi. Senza il consenso di lei non avrebbe messo
piede fuori dal Giappone e Usagi... gli aveva detto di
partire.
Una parte di lei avrebbe preferito non vederlo andare
via, per continuare a vederlo tutti i giorni, ma quando lo
aveva incoraggiato ad andare, a parlare era stata una persona matura
che lo
amava e lo appoggiava incondizionatamente. La sua famiglia.
Nei giorni
precedenti alla partenza, lui si era reso conto di quanto Usagi fosse
cresciuta.
Da secoli - e ormai da due anni
- lei era l'amore della sua
vita. Si avvicinava
sempre più il
giorno in
cui
sarebbero stati una famiglia vera e propria. Perciò
le aveva comprato un
anello. Era troppo presto per
una promessa di
fidanzamento, ma l'aveva visto dietro una vetrina, rosa e a forma di
cuore, e aveva
pensato
che quell'anello rappresentava perfettamente la sua Usako.
L'aveva preso con
l'intenzione di portarselo dietro, per tenerlo con
sé mentre erano lontani.
Poi Usagi aveva cominciato a
piangere in aeroporto e lui aveva capito che,
nonostante la scelta consapevole di lasciarlo andare, per lei la
nostalgia sarebbe stata
devastante. Le aveva dato l'anello, per
ricordarle la verità che
aveva sempre presente: lei era e sarebbe stata unica nella sua
vita, il
centro
del suo universo.
Un giorno, nel futuro, ci
sarebbe stata Chibiusa, ma soprattutto il
regno di cui lui e Usagi sarebbero stati sovrani e...
Sentì una fitta al cervello - un tocco rapido,
un'iniezione di conoscenza.
Respirò la sensazione.
Nella sua testa si erano consolidate nuove informazioni.
Strinse gli occhi, cercando di farle andare via.
Perché si stava immaginando che...?
Inspirò a fondo, finché non ebbe
chiarezza: come quando Usagi lo aveva risvegliato, qualcosa - qualcuno?
- lo aveva dotato di risposte.
Il cristallo d'argento?
Gli veniva detto che... che l'avvenire era più
vicino di quello che pensava. Il regno argentato sarebbe
durato oltre mille anni nel futuro, ma sarebbe sorto entro...
dieci anni?
No, tra meno di dieci anni.
Sbatté le palpebre, incredulo.
Lui e
Usagi sarebbero diventati Re e Regina tra più di... cinque?
Sì, cinque anni. Ma entro dieci anni.
Ne
era certo, in maniera spaventosamente sicura.
Ma cosa-?
Massaggiò le tempie, cercando di smettere di pensare.
Si alzò, andò in un'altra stanza.
Provò a distinguere il sogno dalla realtà, ma non
cambiò nulla nella sua mente.
Sarebbe
diventato sovrano della Terra nel giro di pochissimo tempo.
Uscì sul balcone, cercando aria. Strinse
il cornicione tra le mani.
Re? Io?
Lo aveva sempre saputo, ma
aveva creduto di avere anni davanti, di poter vivere prima una sua vita.
Udì un rumore in casa, si voltò.
Qualcuno stava aprendo la porta dell'ingresso.
Entrando, Usagi vide Mamoru in controluce, stagliato
sulla
finestra del balcone. Le mancò il respiro finché
lui non si mosse. Non era un sogno.
Mamoru stava camminando verso di lei, fino al centro
del salotto. La stava raggiungendo piano, di sua volontà.
Non
era più lei a immaginarsi che lui volesse tornare a vederla,
a
sentirla.
Divenne vero quando lo guardò negli occhi. Mamoru
era attonito e colmo di emozione, sul punto di correre. Era
reale, vivo. Era veramente tornato da lei.
Usagi scoppiò a piangere.
Sentì i passi veloci di lui, poi le sue braccia
intorno al corpo che la sollevano di peso, aggrappandosi male alla sua
schiena, al vestito. Non le importò, si tenne stretta alle
sue spalle. Quegli abbracci, quanto le erano mancati!
Singhiozzò, non riuscì a respirare.
Annaspò pur di sentire l'odore dei capelli di lui,
del suo viso. Mamo-chan.
Cercò di balbettarlo, di dirglielo. Non riuscì,
premette il
naso contro la sua pelle, morì di gioia e dolore.
Pensavo che mi
avessi dimenticata! Lo baciò a bocca aperta
sullo zigomo, sulla
guancia. Nel sentirsi stretta forte morirono in lei mesi di sofferenza.
«Usako.»
Oh sì, era di nuovo Usako. Il sollievo
uscì da lei in un gemito. Non riuscì
più a
baciare perché si ritrovò baciata, amata.
Come si era tenuta dentro tutto quell'amore? Come aveva fatto
a non
esprimerlo, a trattenerlo?
Graffiò Mamoru tra nuca e collo mentre cercava di
tenersi su, per
continuare a dargli le labbra, a prendere le sue. Erano dolci e dure,
morbide, ansiose di ritrovarla. Era Mamo-chan, che non si era scordato
di lei nemmeno per un momento.
Insieme, inciamparono di lato,
ritrovando un equilibrio solo quando lui la tenne stretta con un
braccio,
piegando le ginocchia per sedersi.
Io potevo
perderti!
Gli cadde addosso, lo strinse
a piene mani. Passò le dita sulle sue spalle, sulla schiena,
tra i capelli, convulsamente, con forza. Non le sfuggì un
centimetro di pelle, perché voleva sentirlo tutto intero,
sano e
al sicuro. Aderì a lui col petto per sentire come si
muoveva,
come viveva. Era tornato, dopo essere morto.
Smise di muoversi, le mani ferme sul suo collo.
Percepì le labbra di lui che premevano
sulla sua bocca da sole, con la voglia di ritrovarla, di sentirla.
Non era un sogno. Non aveva lasciato che morisse, lo aveva
riportato indietro.
Lo strofinio del bacio si era fatto leggero, troppo bello per
essere solo nella sua immaginazione.
Prese aria, per accarezzare anche il nome di lui.
«Mamo-chan.»
Stava ancora piangendo. Le dita di Mamoru le tenevano le
guance, accudendo il suo viso per mandare via le lacrime.
Si baciarono piano, come bambini, consolandosi.
Non voleva mai
più staccarsi da lui: voleva custodirlo, amarlo da vicino.
Voleva continuare a baciarlo piano e forte, veloce e lento,
riempiendosi del suo sapore. Non lo sentiva più come prima e
si
azzardò a cercarlo con la lingua, proprio quando Mamoru
aprì le labbra e cercò quello di lei.
Tremarono. Usagi rabbrividì quando ripeterono
l'assaggio, troppo per non provare a staccarsi, poi a strofinarglisi
contro.
Si sciolse per quanto fu divino, dolce.
Aprirono di nuovo le labbra, l'uno nell'altra, non
più per disperazione. Le uscì un suono,
un gemito. Scivolò
sulle ginocchia di lui, si ritrovò seduta, poi con
la schiena cadde all'indietro. Non smise per un momento di stringerlo -
in quella tenerezza voleva disfarsi. Si adagiò sulla
moquette
con lui sopra, insieme.
«Usagi.»
Pulsò di gioia, sistemando la testa nell'incavo del
braccio di lui per continuare a baciarlo, comoda. Non lo avrebbe
più
lasciato andare. «Mamo-chan,
Mamoru.»
Lui si fermò, e nel respiro contro la guancia Usagi
sentì dolore. Tenne il volto attaccato al suo, non lo
abbandonò. Perdonami.
Era stata lei ad abbandonarlo. L'agonia della colpa fu
lancinante. Lo racchiuse tra le gambe, tra le braccia, forte e stretto
contro di
lei. Dondolarono insieme e fu talmente piacevole e bello... Ma
stando ferma sentiva di non dargli qualcosa, voleva e cercava
qualcosa... Si agitò tra le sue braccia, facendo muovere
Mamoru
contro di lei.
Trovò quello che cercava quando i loro fianchi si
incastrarono, una
puntura di realtà al bassoventre.
Spalancò gli occhi, non riuscì nemmeno
ad ansimare.
Lui si tirò su sulle braccia, rigido. Lentamente,
si
scostò da lei.
Usagi cercò i suoi occhi, ma Mamoru li teneva per
terra, confuso. Sulla parte superiore delle
guance lui aveva un po' di... colore?
Non lo aveva mai visto così. Non lo vedeva
davanti a sé, con tanta chiarezza e vicinanza, da molto
tempo.
«Eri morto» mormorò, reprimendo
un singhiozzo.
«Eri morto per tutti questi mesi.»
Lo vide soffrire di nuovo e non poté resistere:
gattonò fino a raggiungerlo, lo abbracciò.
Vibrò
al contatto, scioccamente, per sensazioni nuove che erano nulla
rispetto a quelle che lui le dava da sempre.
Si scostò per
guardarlo negli occhi: le iridi blu del suo Mamo-chan, con cui lui la
guardava quando la teneva stretta, le sorrideva, la contemplava. Quando
la chiamava Usako, facendola rabbrividire di dolcezza.
Aveva creduto che a lui non mancasse niente di loro due, che
non
avesse sentito il loro amore forte quanto lei.
Quanto era stata stupida.
Mamoru pativa e le accarezzava il viso. «Mi
dispiace.»
«Non è stata colpa tua...»
Perché aveva ancora voglia di piangere?
«Mi dispiace» continuò a
ripetere lui, ma lei
riuscì a pensare solo quando si ritrovò stretta
al suo
petto e lo sentì ansimare forte, sull'orlo della
disperazione.
No!
Si tirò indietro. «Sei vivo ora.» Lui
stava bene, non doveva avere paura.
Mamoru respirò veloce. «Non
andrò più via. Non ti lascerò
più.»
In lei si sciolse un altro nodo di dolore. Quelle erano le
parole che aveva agognato di sentirgli dire.
Era immatura a pensare ancora a se stessa. «Sei
vivo,
Mamo-chan.» Si sollevò sulle ginocchia, per
stringere al
seno la sua testa, cullandolo. «Non lascerò
più che
qualcuno ti faccia del male.»
Udì un suono basso, una risata stentata.
Le era mancato sentirsi presa in giro da lui.
«Cosa?» Asciugò la scia di una lacrima.
«Non posso essere
io a proteggerti?»
«Puoi.» Mamoru smise di sorridere.
«Ma è tutto cambiato. Avrei dovuto essere io ad
aiutarti.»
Lui stava trovando colpe dove non ne aveva. Non stava
pensando, ragionava male. Sicuramente si era appena svegliato e... Oh.
«Guarda cosa ti ho portato.» Tornò in
piedi e per un
istante faticò a separarsi da lui. Per il suo Mamo-chan fu
forte
e smise di fare la sciocca, muovendosi verso i sacchetti che aveva
lasciato cadere a terra,
sull'ingresso.
«Non hai mangiato nulla, vero?» Come
poteva
avere lui del cibo in casa? Lei ci aveva pensato mentre veniva a
trovarlo, era stata bravissima.
«Ti ho comprato delle cose. Avrai fame.»
Mamoru era rimasto seduto a terra. Si sciolse in un sorriso,
il più tenero e giovane che lei gli avesse mai visto fare.
«Pensi sempre al cibo.»
No. Su quella moquette, con lui, aveva pensato per anni ai
baci,
agli abbracci, a quanto gli voleva bene e ai momenti di
felicità che
creavano insieme, anche con in mezzo un tavolo
per mangiare o dei libri. Ora voleva tornare al suo fianco, arruffargli
i
capelli e un giorno sdraiarsi di nuovo insieme al suolo, stretti e
uniti.
Arrossì e fu felice di raggiungerlo. Gli prese le
mani.
«Vieni. Ora la tua Usako ti prepara una bella
colazione.»
Mamoru non riusciva a smettere di guardare Usagi. Lei
trafficava nella
sua cucina, muovendosi piano, per farsi osservare. Sorrideva quando
incrociava i suoi occhi.
Averla a pochi metri da lui era familiare, incredibile dopo
quello che era successo a entrambi e... dolorosamente raro.
Perché non le aveva chiesto più
spesso di stare in casa sua? Aveva troppi pochi ricordi di
come lei preparava un caffè, di come strappava le buste dei
biscotti.
Aveva quasi perso per sempre momenti come quello, e tutti
quelli che sarebbero venuti con lei in quella cucina, nella sua casa,
nella
loro vita.
Come aveva potuto andarsene?
Usagi era la stessa di sempre, ma lui sentiva un vuoto tra
loro, per i mesi dell'esistenza di lei a cui non aveva partecipato. La
distanza era solo
nella sua testa, irreale, perché Usagi non era cambiata. Gli
sembrava di averla vista solo il giorno prima - all'aeroporto - ma per
lei era passato
molto più tempo. Settimane di angoscia e preoccupazione di
cui
lui aveva solo un misero riassunto.
Perché non mi
hai cercato?
Strinse le labbra e non fece quella domanda. Usagi voleva solo
un momento di pace. Lui poteva darle almeno quello.
Lei si voltò, per contemplarlo di nuovo.
«Appene l'acqua bolle, preparo anche il tè. Come
piace a te.»
Non le aveva mai detto che gli piaceva qualunque cosa quando
era lei a prepararla.
Usagi si fermata, aveva gli occhi fissi su
di lui. Lo guardava come se fosse un sogno diventato realtà,
o
un fantasma tornato in vita.
Lei era la quotidianità che lui non aveva
apprezzato abbastanza. «Mi saresti mancata dopo il primo
giorno.»
Lei patì. «Dovevi studiare.»
Avrebbe potuto farlo ovunque. L'America sarebbe stata
un'esperienza
di studio inarrivabile, ma solo se avesse potuto portare Usagi con
sé. Solo se non fosse stato Tuxedo Kamen e lei non avesse
avuto
sulle spalle il destino del mondo intero. «Ti ho lasciata
da sola.»
Usagi guardò per terra. «... mi avresti
chiamata.»
Oh sì. Appena atterrato, per tranquillizzarla. O,
se il fuso
orario non lo avesse permesso, l'avrebbe lasciata dormire e non avrebbe
aspettato più di dodici ore dall'arrivo negli Stati Uniti.
Avrebbe
pensato a lei in ogni momento. L'aveva avuta in mente quando Galaxia lo
aveva trovato, e persino quando era morto.
Sapevo che
avresti salvato tutti. Avevo fiducia in te.
«Perché non mi hai cercato?»
Era morto pensando al
dolore che le avrebbe causato, pregando perché fosse felice
e forte. Ma
lei...
«Avevi detto... che saresti stato
impegnato.»
Era vergogna quella che sentiva nella sua voce? «Per
tre mesi?»
Usagi non lo guardava, invasa dal senso di colpa.
«Avevi detto che non avresti chiamato subito. Dovevi studiare
tanto, io non- non volevo disturbarti...»
Era la verità? Doveva essere la verità,
ma- «Hai
creduto che per tre mesi io non mi facessi sentire?» Era
irreale.
«E non hai sentito il bisogno di chiamarmi tu?»
Usagi lo guardò. Il suo silenzio lo
lasciò con un buco nel cuore.
Si era dimenticata di lui? Non le era mancato?
Lei scosse la testa. «Sono stata stupida. Ti ho
scritto
una lettera ogni giorno, Mamo-chan. Non c'era ora in cui non ti
pensassi.»
Lui continuava a non capire. «Credevi che ti stessi
ignorando?»
«... Sì.»
Si spazientì. «Come?!»
«Non lo so! Sembrava sensato che tu fossi
impegnato e che
ti aspettassi che io... Il silenzio era da te, nella mia testa era
normale!»
Lui non la incolpò più,
perché il dolore le aveva deformato il volto.
«Ci stavo così male, Mamoru! Ed ero
così stupida, perché in realtà ero io
quella che ti aveva abbandonato!»
No, no.
Andò da lei, la abbracciò. La sofferenza di
lui era a posteriori, era un ragionamento. Non aveva vissuto settimane
di silenzio e dubbi come lei.
Usagi si aggrappava alle sue braccia. «Voleva la tua
voce!
Così tanto che ho persino... Sollevavo il telefono, facevo
il numero e... Mi sento
così patetica.»
«Hai chiamato la mia segreteria.»
Lei sussultò.
«Ti
è sfuggito un messaggio...
Piangevi.» Eccola la prova, se davvero aveva avuto
bisogno di averne una.
Contro il suo petto, Usagi sollevò la testa. Aveva
ripreso
coraggio e fece un passo indietro, tenendogli le mani.
«Credevo
nel tuo amore, Mamo-chan.»
Lei non doveva spiegargli. Forse non era possibile ed era
stato tutto solo un enorme malinteso.
«Io ero sicura che tu mi pensassi. Non
dubitavo che stessi bene - come nei giorni di esame qui a Tokyo,
ricordi? Quando non ci sentivamo per un po'. Io sapevo che tu
c'eri, tu sapevi che ti sostenevo... Non avevamo bisogno di parlare. Mi
ero convinta che in queste settimane stesse succedendo la
stessa cosa. La stavo prendendo come una prova di pazienza, di...
resistenza.»
«Non ti avrei mai fatto una cosa simile.»
Lei non annuì, non lo
guardò. «Tu non sei come me. Parlavamo
ogni giorno quando
non avevi da studiare, ma di solito ero io che ti chiamavo. Sono io che
ho bisogno di conferme. Tu mi ami in un modo tuo, tranquillo. A volte
senza parole.»
... era questa l'impressione che le aveva dato?
«Tu mi pensi anche quando non parli, Mamoru,
io lo so.
Perciò... te n'eri andato lontano, per studiare cose
importanti.
Te l'eri meritato ed eri concentrato. Ti immaginavo chino sui libri.
Ogni
tanto magari ricordavi la mia faccia e sorridevi. Ma chiamare non era
indispensabile per te, non era... così importante.»
Lui iniziò a vedere l'errore, il problema che era
nato da un suo atteggiamento.
A volte si era comportato così con lei, con
innocenza, senza credere di farle alcun danno,
per poco tempo. Per
poco, vero?
Usagi sospirava. «Per me era ovvio che stessi bene.
Non potevo pensare che ti
fosse successo qualcosa, era... impossibile. Tu eri lontano e stavi
bene!»
Lui la prese per le spalle. «Usagi.»
Iniziò ad avere
una paura nuova. «Hai creduto fino alla fine che io pensassi
sempre a te?»
Lei annuì, dolorosamente. «Ma sentivo il
bisogno di un tuo
segno. Mi mancava da morire un contatto. Tu mi conoscevi e... Non
capivo! Sapevi sicuramente che stavo male ma non mi chiamavi. Mi
sentivo così...»
Abbandonata.
Lei si rifiutò di dirlo. «Tu non hai
fatto niente, era
tutto nella mia testa. Cercavo di distrarmi, sai? Le ragazze si
preoccupavano e mi stavano vicino. Anche se non sapevano che non mi
chiamavi, sentivano che ero giù. Poi c'era la
novità dei Three
Lights, e Seiya che...»
«Aspetta.» Non voleva ancora parlare di
altre persone. «Se fossi
partito, ti avrei richiamato già nella prima settimana.
Più volte.»
Lei si coprì il volto con le mani.
Mamoru non lo
sopportò: Usagi non aveva colpe da sola. «Non
avrei
dovuto lasciarti credere che non mi importasse di te.»
«No, non è-»
«Invece sì. Parlo poco e non ti dico
tutto. Mi chiami
di più tu, Usa, perché quasi sempre mi precedi,
ma
è vero che... io mi distraggo. E penso che tu sia
lì ad
aspettarmi.» Suonava crudele, e lo era per ciò che
aveva
causato. «Ma io ti sento con me. So che ci sei sempre, che ti
penso, e che tu... mi pensi a tua volta.» Era partito con
l'intenzione di spiegarle, ma stava finendo col ripetere le motivazioni
dietro l'errore di lei, confermandole.
Si teneva tutto dentro, come faceva Usagi a sapere cosa
provava lui?
Lei annuiva mesta. «Lo so.»
Era una consapevolezza che ora le portava speranza, ma che
l'aveva fatta soffrire a lungo.
Usagi non era felice di vederlo stare male. «Basta,
ho capito. Perdonami. Io ti ho già perdonato se
c'è qualcosa che
tu... Ma non è vero. Ho fatto tutto da sola.»
Lui non lo credeva più. Ma aveva tempo per
rimediare. Settimane, mesi. Anni.
L'acqua stava bollendo. Usagi si staccò e
andò ai fornelli. «Facciamo colazione ora. Solo...
colazione.»
Era la richiesta di un momento di calma. Anche lui ne sentiva
il bisogno e annuì.
La aiutò a tirare fuori le tazze, si destreggiarono
insieme nel portare a tavola tutto quello che volevano bere e mangiare.
Usagi si servì una bella tazza di latte, lui alla fine ne
versò un goccio nel tè. Il caffè lo
avrebbe innervosito e le disse, con gentilezza, che lo avrebbe bevuto
dopo.
Usagi lo guardava come se si aspettasse da lui un racconto,
inconsciamente.
Era strano, davvero, che alla fine non fosse mai andato in
America. «Sai, stamattina
sono andato in camera a cambiarmi... Sono quasi senza
vestiti. Li avevo messi nella valigia che mi ero portato
dietro.»
«Già.» Lei ebbe negli occhi un
ricordo. «Quando lei
ti... È accaduto mentre
eri in
aereo.»
Lui provò quasi vergogna. «...
Lo hai visto?» Il modo misero e rapido in cui era stato
sconfitto.
Usagi deglutì. «Galaxia me lo ha fatto
vedere.» Scosse la testa. «Era plagiata dal
male.»
Lei non voleva più pensare male di niente e
nessuno, ma Mamoru voleva sapere. «È successo
un'ora dopo che sono partito. Il resto dell'aereo è arrivato
in America, vero?» Si rispose quasi subito da solo.
«Sì,
nessun incidente.»
Naturale. Se un intero volo di linea fosse scomparso, ne
avrebbero parlato al telegiornale e lei avrebbe saputo cosa gli era
accaduto.
Fino a quel momento Usagi aveva riflettuto e
d'improvviso raddrizzò la schiena,
sorpresa.
«Cosa c'è?»
Lei sorrideva. Si alzò e lo trascinò per
un braccio, verso il balcone. Aprì l'anta di vetro. In un
lato non visibile dall'interno del
salotto, era riposta
una grossa valigia. La sua.
«Ma
come...?» Lui si inginocchiò e trafficò
con la combinazione numerica del lucchetto. Era la sua valigia?
Lì in casa?
La aprì. C'era tutto: vestiti, portatile, tutto.
«Ma
come...?» Guardò Usagi.
«Non
so spiegarti. Ma appena ne hai parlato ho avuto come una sensazione in
testa. Ci ho messo un po' a capire. Dev'essere riapparsa qui ieri
sera.»
Era stata lei.
Usagi guardava i suoi vestiti ben piegati. «Non so a
quante cose sia capace di pensare il mio cristallo. Ha rimesso
in piedi gli edifici che la battaglia ha distrutto e ti ha riportato da
me. Deve aver cancellato i ricordi di questi giorni di guerra dalla
mente delle persone, come al solito.»
«Era quello che desideravi. Pace.»
«So che è dipeso tutto da me,
però...» Lei provò a ridere.
«Non sono così precisa, ma il mio cristallo
sì. Per la tua valigia dobbiamo
ringraziare lui.»
Usagi aveva vinto l'ennesima guerra tutta da sola ed era
ancora modesta, troppo umile.
Lei si inginocchiò al suo fianco. «Piano
piano le cose torneranno come prima.» Inspirò e
trovò una sua mano. «No, meglio di prima.
Questa volta cercherò di capirti per davvero e non
farò mai più l'errore di-»
Doveva dirlo lui. «Usa.» Le
accarezzò un braccio. «Sono io che devo farti
capire cosa provo per te. Non adesso o solo una volta. Tutti i giorni.
Mi impegnerò. Devi sentire quanto ti amo.»
Poche parole e un effetto così grande: Usagi
gonfiò il petto di gioia, si illuminò.
Accarezzò tutto il suo braccio, la sua spalla. Giunse al suo
viso e per la prima volta, sulla sua mano, lui sentì
qualcosa.
Voltò la testa, toccò l'anello che le
aveva regalato.
«Non l'ho mai tolto» sorrise lei.
Per tutti quei mesi, in cui lui non le aveva parlato.
Lei l'aveva ricordato. L'aveva amato.
Lei si gettò tra le sue braccia.
«No» sorrideva. In gola avevano entrambi un masso
duro, buono, ma troppo pesante da gestire. Usagi lo mandò
giù. «Basta dolore. Lascialo andare con me,
Mamo-chan. Siamo insieme.»
Sì, lo erano. Con tutte le sue forze la strinse e
lì, su quel balcone, in casa sua, giurò. Non ti lascerò mai
più.
CONTINUA
Nota
di giugno 2015: ho
riscritto praticamente daccapo la storia dal momento in cui Usagi e
Mamoru si ritrovano. Il contenuto nella sostanza è lo
stesso, cambia l'ordine delle parti, lo stile, la presentazione. Non
c'è più un alternarsi continuo di punti di vista,
bensì abbiamo prima la voce di Usagi e le sue sensazioni nel
momento dei primi abbracci con Mamoru, poi solo la voce di lui. Avrei
voluto mantenere il più possibile ciò che c'era
nella versione precedente e in un certo senso l'ho fatto - tanti
concetti sono solo parafrasati, resi meglio - ma alcune cose erano
proprio ingenue a livello di stesura.
Dopo molto tempo volevo dare una versione più 'degna' di
quella che è stata la mia prima vera storia, ma soprattutto
ancora adesso la storia che introduce la mia saga. Rivedrò
anche il resto dei capitoli.
Ringrazio i lettori del mio gruppo Facebook, 'Verso l'alba e oltre...'
per avermi dato alcune prime indicazioni sulle reazioni che suscitavano
alcune modifiche. Spero che il capitolo completo vi soddisfi e vi dia
emozioni paragonabili a quelle della prima volta.
A voi, e a chiunque altro, lascio comunque detto che se volete una
copia della prima versione e non l'avete salvata, potete sempre
chiedermela via email :) Il mio indirizzo è
ellephedre@gmail.com
Leggo sempre i vecchi
commenti, se avete letto e il capitolo vi è piaciuto, mi
farà sempre piacere sentirlo ;)
ellephedre
NdA
originali:
salve a tutti, grazie per aver letto la prima parte della mia fanfic.
Come
vedete, ho voluto scrivere di quello che è successo
poco
dopo la fine della battaglia contro Sailor Galaxia in Sailor Star, la
quinta e ultima serie di Sailor Moon.
Ho
modificato e modificherò alcuni particolari dell'ultima
parte
dell'anime per adattarsi alle esigenze della storia che ho in mente (ad
esempio, avrete forse notato che ho ben definito i particolari
temporali; ecco, non so se sono quelli giusti, so solo che li ho
trovati
adatti.)
Al
momento ho già pronte almeno un altro paio di parti. Le
ho
scritte di getto per buttare su carta tutte le idee che avevo in mente
e ora mi sto dedicando a rendere il tutto stilisticamente migliore e
coerente col resto della trama.
Nella
prossima parte, farò valere il rating Rosso che ho
dato
alla storia, se per caso ve lo state chiedendo. ;) Praticamente
è già pronta ed è una lunga parte
incentrata quasi
esclusivamente su quello che forse vi aspettavate di trovare
già
qui. Non penso potrei definire proprio Lemon quello che
andrò a scrivere :)
Affronterò
anche l'argomento Seiya (per come lo vedo io ...
questa è una storia chiaramente e totalmente pro
Usagi/Mamoru,
quindi non aspettatevi nulla che vada in altro senso). In una parte che
ancora devo definire meglio, ci saranno anche le altre guerriere.
Al
momento non ho deciso se terminare questa mia storia con la
descrizione di ciò che succede appena dopo la fine di Sailor
Stars. Forse avrete notato che in un punto ho gettato le basi per
qualcosa su cui potrei costruire una trama più corposa.
Vedremo.
Ulima
cosa .... il titolo. Il titolo è stata davvero
l'ultima
cosa. L'ho scelto solo poco fa ma ora mi sembra appropriato. Volevo un
titolo che indicasse che scrivevo su qualcosa che veniva dopo Sailor
Stars. Dopo le stelle, appunto. Ho scelto 'oltre' perchè
dà un'idea più 'vasta', dal mio punto di vista.
Come
dicevo, ora mi sembra davvero un bel titolo.
Vi
ringrazio fin d'ora per ogni commento che vorrete darmi. Mi farebbe
veramente piacere sapere cosa ne pensate di questa prima parte.
Ellephedre
Settembre 2009:
ho riscritto qualcosa, per rendere meno pesante o ingenuo lo
stile. E tuttavia ritengo che lo stile di questa prima parte sia
pesante, ma per evitare l'effetto dovrei effettivamente riscrivere
tutto daccapo, impostare intere scene da un solo punto di vista.
Per
ora credo possa andare bene così. 'Oltre le stelle'
è stata la mia prima storia 'seria' e credo sia naturale
mantenga qualche difetto del momento in cui è stata per la
prima volta concepita. A meno di rivoluzioni, manterrò il
capitolo così com'è.
Gennaio2010:
ho sistemato un po' la questione dei punti di vista e migliorato
qualche parte scritta abbastanza male (sia a livello di descrizioni che
di dialoghi). Continuo ancora a credere che come lavoro sia
migliorabile, ho giusto limato qualche problema grossolano, tuttavia
continuo ad apprezzarlo a livello di contenuti (mi piacciono e basta :)
)