Questa
storia partecipa al contest: Reverse,
indetto dalla pagina Facebook
“Io scrivo su EFP”.
Lo scopo era quello di scrivere una storia originale su una tematica a
noi non congeniale, pertanto ho deciso di cimentarmi con il fantasy.
Non so quanto io ci sia riuscita, o se abbia fallito miseramente, ma
questo è quanto di più fantasy io riesca a
concepire.
Auguro
a tutti una buona lettura!
“And
neither the angels in Heaven above
Nor
the demons down under the sea
Can
ever dissever my soul from the soul
Of
the beautiful Annabel Lee.”
-Edgar
Allan Poe-
Guarda
il tempo
Jano
si mosse a carponi sul ricco pavimento di marmo bianco, le mani e le
ginocchia che scivolavano sul sangue fresco. Si aggrappò al
cornicione e sollevò, tremante, il suo povero, vecchio
corpo. Deglutì nel distogliere lo sguardo dalla mattanza
alle sue spalle… i suoi figli, sua moglie…
persino la servitù.
Non
era rimasto nessuno in vita.
Sollevò
gli occhi azzurri al cielo rossastro di New York, fissando
quell’immenso idolo d’acciaio: l’Empire
State Building, il grattacielo più alto del mondo.
Era
una città immensa la New York del 1939, popolosa e caotica.
Ne aveva viste molte nel corso della sua interminabile vita: talmente
tante che della maggior parte il mondo aveva perso persino il ricordo.
Molte razze si erano estinte, altre si erano fuse assieme nel corso dei
millenni, divenendo una sola. Ma ciò che era davvero andato
perduto era la memoria. Persino lui la riconquistava di rado, ed era
sempre doloroso.
Udì
i passi, ma non si voltò.
“Avrà
mai fine tutto questo, Dareel?”, domandò.
Il
giovane gli si avvicinò, elegante in quel suo completo fumo
di Londra e i biondi capelli impomatati.
“Che
epoca terribile.”, commentò,
“C’è odore di morte nell’aria,
e le foreste stanno avvizzendo.”
“Non
m’importa dei boschi. Non sei ancora stanco?”
Dareel
si sfilò di tasca l’orologio, sorridendo con fare
distratto.
“Quando
ho parlato di eternità, non intendevo neanche un istante di
meno.”
Fu
per una frazione di secondo, ma riuscì a vederlo di nuovo
come l’aveva conosciuto: un ragazzino sudicio, ricoperto da
stracci sfilacciati e dalle frustate. Il profilo aguzzo era mutato di
poco rispetto alla fanciullezza: era appena rassimilabile
all’apparenza di un uomo al principio della
maturità. Poco credibile, come umano.
Sapeva
che le orecchie appuntite erano occultate dal velo della sua magia, ma,
con un po’ di volontà, riuscì a
sorpassare quell’inganno e a vederle: lunghe e affusolate. Le
aveva amate, tanto amate, in passato.
E
dire che all’epoca non era stato in grado di riconoscere cosa
fosse. Un errore che avrebbe scontato per sempre.
Non
sapeva a quali demoni l’elfo avesse rimandato la sua anima, o
se fosse diventato un demone egli stesso, per riuscire ad architettare
quella terribile vendetta, ma di una cosa era certo: non
c’era via d’uscita. Ogni volta il dolore era acuto,
inaspettato e pungente. Sempre di più.
Come
il suo silenzio.
“Quindi
ricominceremo da capo ancora una volta?”
“Sì.”
“Jano,
Jano, ti prego! Dobbiamo andarcene!”
Sua
moglie Altena lo svegliò di soprassalto.
Da
principio, ancora intontito dal sonno, non comprese il motivo di tanta
urgenza. Poi la scomodità del suo angusto giaciglio e il
sordo dolore alla base della spina dorsale gli rammentarono che non era
più nella sua villa sulla Kurfürstendamm, ma in un
pidocchioso nascondiglio sovraffollato.
Avevano
dovuto fuggire, nascondersi come topi per non essere rinchiusi in un
ghetto, prima, e deportati “altrove”, poi. Ormai da
tre anni erano stipati in quell’angusto solaio, lui, la
moglie, i loro due figli e i quattro nipotini, insieme ad una giovane
coppia con un bambino piccolo, e a due vecchi coniugi. La rabbia nei
confronti dei nazisti cresceva giorno dopo giorno nel suo fiero petto.
Prima o dopo la guerra sarebbe finita, e avrebbero avuto ciò
che meritavano.
L’assordante
raffica di mitraglia proveniente dal piano sottostante gli
gelò il sangue nelle vene. Guardò la moglie con
occhi pieni di panico e strinse forte a sé il nipote
più piccolo che della vita non conosceva altro che
quell’angusto sottoscala.
“N-non
aver paura…”, gli sussurrò, esitante,
tappandogli la bocca per zittire i suoi singhiozzi.
Il
loro angosciato silenzio si rivelò inutile, i nazisti
sapevano. La botola del solaio venne d’improvviso spalancata
e il primo soldato aveva già fatto capolino
dall’apertura. Il signor Azria, il giovane sposino, si
scagliò contro di lui, stringendo in mano un coltello a
serramanico che aveva tenuto nascosto chissà dove e per
chissà quanto.
“No!”,
gli gridò Jano.
Il
soldato, un giovane altrettanto spaventato, sparò; e, poi,
issatosi del tutto, aprì il fuoco anche su tutti gli altri.
Il vecchio si voltò, proteggendo il bambino con il proprio
corpo. Il dolore del piombo nelle sue carni gli strappò un
grido spezzato dalle labbra, ma non lo uccise. Per la prima volta
percepì che non poteva davvero farlo: per quanto fossero
gravi le sue ferite, non sarebbe morto mai.
La
stessa sorte, però, non la ebbero i suoi cari, e gli altri
disperati rifugiati a cui ormai voleva bene come a figli, o come ad
amici.
Il
nipotino tremava tra le sue braccia, ammutolito dallo shock. Gli
tappò gli occhi, prima di voltarsi a guardare.
“A-Altena…”,
gemette, allungando una mano verso il volto della moglie. I colpi di
mitraglia l’avevano del tutto sfigurata. Di lei restava solo
il sangue e la materia cerebrale spappolata sul pavimento ligneo.
Il
rapporto con lei era andato a rotoli da molti anni, ormai, da ben prima
l’avvento di Hitler. Ciò nonostante il legame
d’affetto che provava nei suoi confronti non si era mai del
tutto sopito.
Con
le lacrime che gli scorrevano sul volto pieno di rughe, strinse ancora
più forte il nipote. I colpi di mitraglia erano cessati, e
un altro uomo era salito nel sottotetto. Alto e slanciato, era elegante
in quella divisa delle SS. Jano lo fissò ed ebbe la
sensazione di conoscerlo, o, per meglio dire, di averlo conosciuto:
aveva amato quell’uomo, ma era successo oltre
trent’anni prima. Diede la colpa alla sua mente allo sbando e
strisciò indietro di fronte a quegli occhi chiari, taglienti
come lame.
“N-no!
Ti prego! Lui NO! Almeno per questa volta!..”,
ansimò, inconsapevole, nel tentativo disperato di salvare il
bambino che, privo di sensi, giaceva tra le sue braccia.
L’ufficiale
lo guardò confuso.
“Non
questa volta…”,
ripeté, “Non dovresti ricordare che ce ne sono
state altre.”
Si
sfilò la Luger dalla cinta, e sparò in faccia al
soldato, per poi puntarla verso il ragazzino.
“Non
finché Timel ancora respira.”
Premette
il grilletto. Il suono metallico che seguì gli
comunicò un inopportuno inceppamento.
Jano
gli si buttò ai piedi, cingendogli le ginocchia con le
braccia.
“T-ti
prego!”, ribadì, “Farò tutto
ciò che vuoi! Non avrei dovuto permettere che ci
dividessero, anni fa… ti supplico, Timel è solo
un bambino! Abbi pietà, Dareel, se non di me, di lui!
Sarò il tuo schiavo, sarò qualsiasi
cosa!”
“Credo
che tu sia un po’ confuso.”, commentò
l’altro, scalciandolo via.
Sollevò
il piccolo e gli premette una mano sulla fronte, sprigionando, dal
palmo, uno zampillo di energia, brillante e gelido come il ghiaccio,
per poi lasciarlo andare.
Jano
seguì la caduta del corpicino con drammatica attenzione. Con
estenuante lentezza lo vide percipitare nell’aria e
schiantarsi al suolo di schiena: la piccola testa ancora fumante e gli
occhi del tutto bruciati nelle orbite carbonizzate.
Smise
di piangere, il vecchio, memore dell’identità
dell’elfo. Lasciò che il dolore gli passasse
attraverso e si rialzò.
“Questa
volta hai davvero superato te stesso.”, commentò,
“Tutta questa devastazione…”
Dareel
si levò l’elmetto e lo lanciò via,
disgustato.
“Non
darmi colpe che non mi appartengono. Ho potere solo su di te, non sul
tutto. Gli animi degli uomini stanno marcendo, ma di che ti stupisci?
Non è forse la stessa cosa che è accaduta
all’impero da cui provieni?”
Jano
lo guardò.
“Pensavo
che i sopravvissuti potessero imparare dai nostri errori.”
L’elfo
sorrise appena.
“Sei
sempre stato un ottimista, ma sei all’oscuro di cosa stia
avvenendo là fuori. Ti sei rintanato qui per tre anni e te
l’ho concesso. Sono stato misericordioso.”
“Tu
non sai neanche cosa sia la misericodia! Con i poteri che hai potresti
fare la differenza, potresti…”
La
risata di Dareel lo interruppe.
“E
quindi tu affideresti il mondo ad un elfo? Proprio tu?”
“Non
ho mai disprezzato quelli della tua razza, e lo sai.”
“Oh,
in certi frangenti sicuramente no.”, concesse con malizia.
Osservò il corpo del vecchio iniziare rapidamente a
ringiovanire, poi distolse lo sguardo.
“Sono
l’ultimo della mia specie; potente, ma non a tal punto. Senza
contare che non m’importa cos’accadrà a
tale discendenza. Spero che appassisca il prima possibile.”
“Il
giovane elfo che ho conosciuto non avrebbe mai parlato in questo
modo!”
Dareel
gli andò di fronte, parlandogli a un palmo dal viso.
“Allora
non avresti dovuto annientarlo.”
Sollevò
una mano a lisciare con le dita la sua ispida barba di nuovo rossiccia,
accarezzando con lo sguardo la rigenerata bellezza
dell’altro. Poteva rivedere i mari di Atlantide in quegli
occhi cerulei.
Con
amarezza riconobbe una volta ancora che il suo arcaico rancore si fosse
man mano affievolito in quelle ere innumerabili. Ormai quel che faceva
era divenuto un rituale, qualcosa a cui anche Jano si era abituato, e
di fronte al quale non soffriva più come avrebbe dovuto.
Tutti quei mutamenti stavano cambiando le loro percezioni, ed essere i
soli a poterli percepire rendeva il loro rapporto profondo, per quanto
bizzarro.
“Uccidimi…”.
La
richiesta di Jano gli giunse in un sussurro, “S-sono
così stanco, Dareel.”
L’elfo
gli puntellò la mano sotto il mento, costringendolo a
sollevare il volto. Gli sfiorò il collo con il naso,
assaporando il suo odore, antico quanto il proprio.
“Non
umiliare te stesso. Neanche l’arconte che ho conosciuto
avrebbe mai supplicato.”
Un
singhiozzo roco proruppe dalla gola dell’uomo e altre lacrime
scivolarono sulle sue guance, di nuovo lisce di gioventù.
“Ogni
volta ti ho amato, da ben prima dell’inizio di questi tempi.
Nonostante tu mi costringa ogni volta a vedere la morte di tutti i miei
cari. E’ da molto che non provo più nulla, se non
la sofferenza di questa orribile solitudine. Non so a cosa sia dovuto,
forse ad un altro schiocco della tua frusta, Dareel, ma a volte sogno
dei ricordi, anche quando non dovrei aver percezione di chi io sia
stato realmente. Credi davvero che l’onore abbia ancora senso
di fronte a tutto questo?”, chiese, indicando i morti alle
proprie spalle, “Uccidimi; libera entrambi.”
“E’
prossima, non temere.”
“C-che
cosa?”
“La
fine dell’eternità…”
Era
una mattina serena e Jano sedeva alla sua scrivania. Al di
là delle tende semi aperte poteva scorgere il World Trade
Center. Sorrise, contento. Altena aveva portato i bambini da suo
figlio, e da lì a poche ore sarebbero andati tutti a pranzo
fuori. Non capitava spesso che la famiglia fosse tutta riunita, quindi
quando succedeva si godeva quei momenti.
Aveva
appena attaccato il telefono e risolto un paio di pratiche quando
intuì con la coda dell’occhio l’aereo un
attimo prima che si schiantasse contro la torre sud. Balzò
in piedi e corse verso l’ampia vetrata, ansimando
d’agitazione. L’esplosione del velivolo fece
tremare il suolo e i suoi pensieri corsero immediatamente alla sua
famiglia, fortunatamente all’interno della torre nord.
Raggiunse
il telefono e cercò di sincerarsi delle loro condizioni, ma
le linee telefoniche erano intasate. Tornò alla finestra,
cercando di darsi una spiegazione razionale per quel tragico incidente.
Com’era possibile che un aereo avesse perso così
tanto il controllo da schiantarsi al centro di Manhattan?
Non
era distratto, quindi quando anche il secondo aereo comparve nel cielo
lo notò subito. L’onda d’urto
dell’esplosione fece saltare la vetrata. Venne sbalzato a
terra e lì rimase per qualche istante, sconvolto e
tramortito.
Il
suo segretario, l’uomo che per poco non aveva portato il suo
matrimonio al tracollo, accorse con calma.
“Dareel,
ti prego, aiutami ad alzarmi! Devo…
d-devo…”
“Siedi
e goditi la vista.”, ribatté l’altro,
accomodandosi a terra al suo fianco.
“La
mia famiglia è nella torre nord!”,
strillò Jano, con il cuore stretto nella morsa di una
tagliola.
“Lo
so.”
“Devo
andare a prenderli!”
Fece
per mettersi in piedi da solo, ma Dareel lo afferrò
saldamente per una manica, trattenendolo.
Jano
esitò, colto da un improvviso ricordo.
“Sta
succedendo ancora, vero?”, gli chiese.
L’elfo
annuì, poi ci fu un enorme boato e la torre sud
cominciò a collassare su se stessa.
“Oh
mio Dio!”, urlò Jano, gattonando sino al bordo
della vetrata infranta.
“Non
appellarti a favolette.”, fu il tetro commento
dell’altro, “Non c’è alcun
dio. Ci siamo solo noi e lo scorrere del tempo.”
“No,
non c’è alcun dio…”,
commentò Jano, straziato dalla visione di decine di persone
che, disperate, si lanciavano dai piani più alti della torre
nord.
“Cosa
sta succedendo? Tu lo sai, non è vero?”
“La
prima tessera del domino sta cadendo.”, rispose, alzandosi
per raggiungerlo.
Il
vecchio gli strinse la mano, alla disperata ricerca di un conforto e
l’elfo non gliela negò. Anche lui era, infatti,
turbato.
Rimasero
in un attonito silenzio fino al crollo della seconda torre, e tacquero
anche oltre. Jano aveva ricordato, ma ciò nonostante tenne
ancora quella mano fintanto che il suo giovane aspetto non venne
ristabilito. Solo a quel punto si allontanò
dall’altro.
“Un
soldo per i tuoi pensieri.”, disse, osservandolo continuare a
guardare tutta quella devastazione.
“Sono
disgustato.”
“Chi
è il responsabile?”
Dareel
serrò le labbra sottili.
“Difficile
da definire, sarebbe più semplice dire che è
colpa dell’umanità, ma non sarebbe accurato.
Ciò che vedi non è diverso dalla distruzione
dell’impero di Atlantide, o da quello di Mu, le nostre case,
è solo più subdolo. Daranno spiegazioni per
quanto avvenuto oggi, lasciando la responsabilità pendere
sul capo di un solo uomo, ma la verità è ben
più complessa. Questo è un fallimentare tentativo
di unire le forze occidentali contro il fantoccio di un nemico comune.
In realtà ogni avvenimento è programmato,
concordato. Ero -siamo- in errore: un dio c’è in
questo mondo, ma è tutt’altro che
benevolo.”
“Dimmi
il suo nome, lasciamene il ricordo e, nella prossima
vita…”
“Non
c’è alcun nome. Un tempo era un oggetto, il
denaro, ora è qualcosa di più intangibile della
mia magia. Il futuro è confuso, e tu non hai né
il diritto, né le capacità per opporti al lento
decadimento degli eventi. Sei un uomo debole, Jano. Il conforto
dell’agiatezza è sempre stato la tua
priorità. Senza contare che non si può combattere
il potere senza divenirlo noi stessi.”
L’uomo
chinò il capo.
“Non
sono più l’uomo che conoscevi, e tu non sei
più l’elfo che si sta vendicando. Siamo cambiati:
siamo troppo vecchi e troppo stanchi. Per ere non mi hai rivolto
più di qualche parola; adesso ti soffermi a fare
conversazione. Sai che sono tutto ciò che ti
rimane.”
Non
ricevette una risposta, ma gli bastò l’espressione
seccata sul volto dell’altro per capire di aver colto nel
segno.
E
per una volta, nonostante la sofferenza per la propria condanna,
assaporò di nuovo il piacere del trionfo.
Sapeva
di star sognando, eppure aveva l’impressione che quel che
percepiva gli appartenesse. L’aria profumava della purezza
dell’alba, ed una luce purpurea illuminava, attraverso le
rade nubi, le immense distese delle sue piantagioni. Gli uccelli del
primo mattino riempivano l’aria di un vivace cinguettio e
Jano ne era sicuro: non avrebbe potuto desiderare nulla di
più. Persino la convocazione del re, fissata per il giorno
seguente, non lo preoccupava più di tanto. Nulla avrebbe
potuto guastare la serenità di quel momento.
Stava
per abbandonare la terrazza e rientrare in camera da letto, quando
scorse i pèriti precipitarsi in picchiata in mezzo al
meleto. Un urlo straziante di donna ruppe il sublime incantesimo di
quella mattinata. Jano, armato di spada, si precipitò
giù dalla lunga scala della terrazza.
“Fermi!”,
gridò agli alati animali da guardia, che subito si fecero
indietro.
Il
corpo di un’elfa pendeva dai rami di un melo, con il ventre
squarciato e le interiora che penzolavano sin quasi al suolo. A terra,
nella polvere, stava un ragazzo seminudo e a sua volta grondante
sangue. Stringeva tra le braccia un piccolo fagotto.
“V-vi
prego…”, lo udì mormorare tra le
lacrime, “Prendetela! Lei è innocente!”
Il
giovane elfo gli porse quel fascio maleodorante di coperte e la sua
stretta sull’elsa si fece tanto molle che l’arma
gli sfuggì dalle mani all’udire il vagito della
bambina.
Si
accovacciò di fronte al giovane e lo costrinse a sollevare
quel volto sudicio di terra e di sangue raggrumato.
“Qual
è il tuo nome?”, gli chiese.
Da
lontano si potevano già udire le grida degli uomini che li
stavano inseguendo. Il ragazzo quasi gli buttò tra le
braccia la sorellina, prima di balzare in piedi e correre via nella
speranza di essere inseguito.
Jano,
come riscosso, affidò la piccola ad uno dei bracciati
accorsi, ordinando a tutti loro di chiudersi nel capanno del bestiame e
di nasconderla. Sapeva che proteggere degli schiavi in fuga era un
reato tra i più gravi, ma la sua coscienza non gli
permetteva di rimanere inerte di fronte a quella barbarie. Era un
arconte, per quanto giovane e di nomina fresca: avrebbe fatto valere la
propria autorità.
Seguì
le impronte del ragazzo, ma quando giunse al limitare del meleto venne
sbalzato indietro da una violenta onda d’urto. Rimase a terra
per qualche istante, tramortito, poi, con le vesti da notte e i capelli
bruciacchiati, osò alzare lo sguardo: un vortice di fuoco si
era sollevato a poche centinaia di metri da lui, al di là
degli ultimi alberi, e vorticava ben al di sopra dell’altezza
delle cime. Durò solo pochi istanti, ma gli parvero eterni,
poi le fiamme si spensero d’improvviso, lasciando solo un
ambiente carbonizzato e il tanfo di carne bruciata. Due ettari di
colture erano andate distrutte. Erano rimasti solo pochi arbusti che,
anneriti, ancora brillavano avviluppati da danzanti fiammelle.
Jano
era convinto che nulla fosse potuto sopravvivere, ma
sussultò, sconvolto, quando scorse il giovane elfo al centro
del campo. Circondato dai resti fumanti dei suoi aguzzini; tremava, in
ginocchio, e piangeva sommessamente.
Corse
da lui, incurante della nudità dei suoi piedi.
“C-cosa…
cosa sei tu?”, gli chiese, sconvolto.
“Io
non volevo! NON VOLEVO!”, strillò il giovane elfo.
Una
lacrima cadde, e allo sfiorar del suolo il secondo prodigio avvenne: il
vento si levò dolcemente e la terra si risanò,
divenendo ancor più rigogliosa di come era stata.
Poi
il ragazzo si afflosciò al suolo.
Jano
lo prese tra le braccia. Quel fanciullo era così magro che
il sollevarlo non gli causò alcuno sforzo. Lo
trasportò sin dentro la grande casa, adagiandolo sul letto.
“D-devo
fuggire!.. Adryl…”, gemette l’elfo,
risvegliandosi.
“Non
temere, vi proteggerò. Nessuno vi farà
più alcun male. Hai la mia parola.”
Jano
si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Altena non era
al suo fianco: era con la loro ultima figlia a preparare il pranzo per
la famiglia. L’uomo non aveva ben capito il senso di quella
partenza improvvisa: che bisogno c’era di una vacanza a marzo
e dall’altra parte del mondo?
Bevve
un sorso d’acqua per cercare di placare i nervi. Non era il
primo sogno bizzarro che gli capitava di avere: lo tormentavano da
mesi. Quando chiudeva gli occhi si immaginava ancora giovane, ma in un
mondo del tutto diverso dal proprio. Da principio non se
n’era curato, poi però la concretezza delle
sensazioni che provava al loro interno, quella veridicità,
lo avevano portato, giorno dopo giorno, notte dopo notte, a non saper
più discernere quale tra le due fosse la sua vera vita,
quale delle due veglie quella reale. Oppure potevano aver ragione i
dottori che Altena aveva chiamato a consulto: forse quelli erano
davvero i primi sintomi di una demenza senile.
Fu
l’incertezza di un momento a portarlo a piegare la gamba e a
guardare, con tutta la fatica che la sua età avanzata gli
comportava, la pianta del suo piede sinistro.
“Oh
mio Dio!..”, gemette, coprendosi la bocca: poteva vederle, le
cicatrici di quelle ustioni, la pelle chiara, accartocciata su se
stessa ma avvizzita dagli anni.
Come
aveva potuto non notarle sino a quel momento? Una fitta di dolore gli
trafisse le tempie, quando un altro ricordo tentò di
sostituirsi a quello onirico. Da bambino! Si era fatto quelle
scottature da bambino, quando la casa dei suoi genitori era andata
distrutta in quell’incendio.
“No!”,
gridò, mettendosi le mani tra i capelli.
Suo
figlio fu il primo ad accorrere.
“Papà,
che succede?”
Jano
non gli rispose, ma si scagliò brutalmente contro Altena,
quando la vide comparire sulla soglia.
“Tu!
Cosa ho fatto?! COSA MI HAI FATTO FARE?!”
La
donna si fece indietro, gli occhi pieni di preoccupazione. Il figlio,
invece, gli andò incontro con un sorriso rassicurante.
“Calmati,
papà. Su, coraggio. Hai solo avuto un altro attacco. Va
tutto bene, il dottore l’aveva detto che lo stress del
viaggio…”
“E’
per questo che mi avete portato qui!? Per un altro stramaledetto
consulto? Io non sono pazzo! Atlantide è reale, è
da lì che veniamo!”
Altena
provò ad avvicinarsi.
“Non
agitarti, tesoro. Vieni giù, facciamo
colazione…”
“Non
mi toccare, puttana! E’ colpa tua! Oh mio Dio!”
Diede
loro le spalle, finendo con il trovarsi di fronte al proprio riflesso.
Sapeva che quel vecchio raggrinzito nello specchio era lui, ma non si
riconobbe. Furioso e sconvolto vi si scagliò contro,
mandando in frantumi quell’immagine che sentiva non
appartenergli. Suo figlio lo tirò indietro, spaventato, e
Jano si afflosciò tra le sue braccia, privo di forze.
Udì
di sfuggita Altena chiamare a gran voce la figlia ed ordinarle di
contattare al più presto il dottor Nakagawa.
L’altro,
invece, lo riaccompagnò a letto, e il vecchio, mansueto, lo
lasciò fare. Chiuse gli occhi, volutamente sordo alle
premurose rassicurazioni del figlio. Sperò di
riaddormentarsi per poter di nuovo sentirsi a casa, o forse solo con lui.
Quante
altre vite fittizie aveva attraversato? E perché si era
scagliato con tanto odio contro la moglie? Le voleva bene, non aveva
mai fatto del male a nessuno, quindi: perché?
Quando
si ridestò erano trascorse ore. La sveglia sul comodino,
l’unica cosa che avesse elementi comprensibili in quel paese,
segnava le 13.11. Si alzò e non si curò neppure
di vestirsi. Scese dabbasso in vestaglia e ciabatte. Da dietro lo
stipite del salotto vide i figli, i cognati e la moglie seduti attorno
a un tavolo, intenti a discutere delle sua salute a bassa voce. Una
cosa positiva c’era, in fin dei conti: quel dannato
televisore era finalmente spento. Proseguì, silenzioso, sin
fuori nel piccolo giardinetto; e guardò i suoi nipotini
litigarsi le altalene con un paio di bambini giapponesi. Non parlavano
la stessa lingua, ma incredibilmente sembravano capirsi meglio di
qualsiasi adulto.
La
più grande, invece, sedeva sul gradino del cancelletto
aperto. Le passò accanto, scompigliandole i capelli con una
carezza; e non la rimproverò di non star cercando di sedare
la multiculturale disputa a pochi metri da lei.
“Dove
vai, nonno?”, gli chiese la ragazzina, sollevando appena lo
sguardo dall’ennesima diavoleria elettronica compratale dai
suoi genitori.
“Solo
a fare due passi.”, rispose con un pallido sorriso.
“Ma…
sei in pigiama!”
“Già…
tutti quanti, prima o dopo, dovrebbero fare una passeggiata in pigiama.
Non si può sapere cosa ci si troverà di
fronte.”
Lei
scrollò le spalle, e tornò a concentrarsi sul suo
gioco. Jano proseguì in strada senza meta alcuna.
Osservò, quasi avido di conoscenza, quel popolo
così diverso, così distante. Era sempre stato
affascinato dalle altre culture.
“Atlantide…”,
mormorò con nostalgia.
Per
poco non rischiò di venire investito, e sbuffò
nel realizzare che anche in quel buffo paese la guida era dal lato
sbagliato.
Stava
camminando lungo un ampio marciapiede, ormai senza più
cognizione di come tornare verso casa, quando, d’improvviso,
la terra cominciò a tremare. Si dovette aggrappare ad un
palo della luce per non cadere, ma, soprattutto, per non venir travolto
dal panico degli altri passanti.
Proseguì
non appena gli fu possibile, ma sussultò, quando le macchine
alle sue spalle cominciarono a schizzargli accanto a folle
velocità, per poi non passare più. Il tempo
sembrava essersi fermato e lui sentiva, sapeva, avvertiva che qualcosa
di terribile stava per avvenire.
Con
lentezza si spostò al centro dell’enorme
carreggiata.
L’ultimo
automobilista lo mancò per un soffio, e gli
sbraitò un avvertimento, o forse un insulto, in quella
lingua a lui sconosciuta.
Non
si scompose neanche quando udì quello sciabordante fragore.
Sapeva che da qualche parte c’era la casa della figlia, e
lì, tutta la sua famiglia.
Ma
non
era
la sua famiglia. Loro erano morti molto tempo prima. La scomparsa di
quelle ombre non lo angustiava.
Dopo
il suono arrivò il vento, che con dolorosa potenza lo
schiaffeggiò, facendo svolazzare la sua pesante vestaglia.
Il
terrore lo colse insieme a un ricordo: anche Atlantide era perita in
quel modo. Lui c’era, l’aveva visto, e senza morire
era affogato nelle profondità dell’oceano.
Riuscì quasi a rievocare quell’atroce agonia e
tremò al pensiero che la sua ora fosse giunta, e lo fosse
proprio in quel modo.
Serrò
le palpebre quando scorse l’onda nera sbucare tra i palazzi e
spalancò le braccia, pronto ad accogliere il suo destino. Il
suono dell’acqua lo assordò, ma neanche una goccia
giunse a bagnarlo.
L’elfo
era tornato, e di fronte ad un suo cenno persino
l’incontrastabile potenza della natura aveva tremato e si era
fatta da parte. Nulla li avrebbe toccati.
“Credevo
che questa sarebbe stata l’ultima volta, Dareel. Io
ricordo.”, gli disse, sfiorandosi il viso per sincerarsi che
le sue sensazioni fossero corrette: era di nuovo giovane.
L’altro
non si voltò, la mente offuscata da ben altri tetri
pensieri. Uno strillo improvviso sovrastò il frastuono
dell’onda e Jano scorse una bambina, sola, aggrappata
disperatamente al tettuccio dell’auto dei suoi genitori.
Pochi istanti e sarebbe stata risucchiata insieme a tutto il resto.
“Salvala,
ti prego!”
“Avrà
conseguenze.”, fu la laconica risposta dell’elfo.
“Non
m’importa! Guardati intorno, salva lei! Almeno,
lei…”
Dareel
balzò verso l’auto, annullando lo scudo mentale
che li stava proteggendo. Jano fece in tempo a vederlo afferrare la
bambina, prima di essere travolto. La potenza dell’impatto
gli frantumò molte ossa. Strillò, muto, sotto
quella sterminata distesa d’acqua. Trascinato come un pupazzo
pregò che la sua agonia finisse presto: erano ere che Dareel
lo trasportava nella successiva vita risparmiandolo
dall’onere di morire ogni volta, ma evidentemente, le sue
capacità avevano un limite.
Si
sorprese quando, riaperti gli occhi, si ritrovò su un tetto.
Per lunghi istanti non riuscì a percepire altro che il
dolore delle sue ossa che si rimettevano a posto. Quando si riprese era
esausto ed affannato.
“G-grazie!..”,
balbettò tra i colpi di tosse, avvicinandosi alla bambina
che, terrorizzata, li fissava.
“Susanoo¹!”,
continuava a ripetere, “SUSANOO!!!”
“Falla
star zitta, o potrei ripensarci.”, sibilò Dareel
infastidito, camminando sino al bordo del tetto.
Jano
strinse la piccola, cercando di farla calmare. Impresa complessa, dal
momento che non parlavano la stessa lingua.
Ci
volle molto tempo, ma alla fine la bambina smise di urlare, anche se
non di piangere.
“Basterebbe
una tua lacrima…”, disse l’uomo.
“E
perché mai dovrei piangere? Hanno bramato questa
devastazione, se la sono voluta! Non molto lontano da qui, presto tre
reattori nucleari esploderanno, avvelenando ancor di più
questo loro lurido mondo. La stupidità mi riempie di furia,
Jano, ma di certo non mi rammarica.”
“Questo
lurido
mondo
è anche il tuo, il nostro!”
“Una
volta, forse: quando il nostro tempo scorreva ancora come il loro. Non
sono un dio, come quella sciocca creatura asserisce, ma anche lo fossi
non riesco a vedere alcun motivo per cui dovrei scomodarmi a portare
salvezza. Vedo più lontano di te, arconte. Quanto vorrei che
fosse sempre stato così…”
“Smettila
di prendertela con un intero mondo solo per vendicarti di me!”
“Ti
ho già detto che non ne sono responsabile.”
“Ma
potresti intervenire: scegliendo di non farlo, sei tu il più
grande carnefice!”
“Sono
stanco di questa conversazione.”
“NO!
Sai che ho ragione! E’ tutto sulle tue spalle!
Dareel!”
“DAREEL!”,
urlò, svegliandosi di soprassalto.
Altena,
accanto a lui sul letto, si destò a sua volta.
“Chi
è Dareel?”, chiese, confusa.
Jano
si alzò, ordinando alle vetrate di aprire l’antone
oscurante.
“Non
ne ho idea.”, ammise.
E
non era l’unica cosa che non sapeva. Altena era sua moglie, e
questo gli era chiaro. Probabilmente in casa c’era anche il
resto della sua famiglia, ma quale fosse stata la loro esistenza, dove
si trovassero, e in quale tempo, rimanevano dati foschi e confusi.
Toccò
la superficie della vetrata rinforzata della capsula per sfiorare il
proprio riflesso.
“Quanti
anni ho?”, domandò, vedendosi giovane.
Altena
rise.
“Te
l’avevo detto di non esagerare con l’H09, ieri
sera!”
“Rispondimi!”
“Settantacinque,
tesoro. Come ieri.”
Jano
trasalì: non se ne sarebbe dati più di quaranta.
L’H09… sì, ora cominciava a ricordare.
Era il farmaco sintetico messo sul mercato dalla Trimer. Inc., la
più grande casa farmaceutica del mondo, l’unico in
grado di proteggere l’organismo umano dall’alta
concentrazione di ioni radioattivi sulla superficie terrestre. Certo,
ora era chiaro: ne aveva preso una dose troppo massiccia e questo gli
aveva causato il manifestarsi del principale effetto collaterale del
farmaco, ovvero dei temporanei vuoti di memoria.
Si
stropicciò gli occhi, osservando la distesa sterminata di
cupole al di là dell’ampia finestra. Erano case,
lo sapeva, ma sentiva comunque di non appartenere a quel luogo.
“Hai
mai la sensazione che qualcuno stia giocando con la tua
memoria?”
La
donna rise di nuovo.
“Ti
prego, non ricominciare con le tue paranoie! Mi domando chi te le abbia
messe in testa!”, esclamò.
“C’è
una guerra, là fuori. La Terza Guerra Mondiale, Altena! E le
uniche informazioni che abbiamo vengono dal Centro. Non abbiamo
più notizie di nostro figlio da quando è stato
prelevato per la leva. Non possiamo vederlo, non possiamo contattarlo,
non possiamo sapere se è vivo o morto! Scusa, se sono
preoccupato. Scusa, se nulla di tutto questo mi sembra normale! Torna
pure a rimbambirti di fronte all’Intrattenimento,
e non occuparti delle mie paranoie.”
Altena
sbuffò.
“Vado
a preparare la colazione.”
“Come
se delle barrette sintetiche si possano definire cibo!”, si
ritrovò a pensare Jano, mentre indossava la sua tuta in
grafene. Aveva settantacinque anni e ricordava bene quando il mondo era
un luogo vivo, benché fosse l’unico.
Chiuse
gli occhi, sconsolato: quella non era vita. Si sentiva un prodotto alla
mercé di qualcuno più in alto di lui, e, attimo
dopo attimo, gli risultava sempre più difficile tollerarlo.
Premette un pulsante al centro della parete e un piccolo cassettino si
aprì. Non ci rifletté più di tanto e
strinse in mano la pistola.
La
sua famiglia al completo era nell’ampia e sterile sala da
pranzo della cupola: i bambini sedevano sul divano, rincoglioniti dai
loro impianti di realtà virtuale, mentre Altena si stava
lamentando con i loro figli più giovani del suo insofferente
risveglio.
Sarebbe
stata una mattina come tutte le altre, se non fosse stato per
l’arma che stringeva in mano. Provò quasi sollievo
nel sfiorare con il dito il cursore per la massima potenza.
Fece
fuoco e le due donne crollarono a terra ancor prima di accorgersene. Il
figlio gridò, spaventato, ma anche lui venne messo presto a
tacere. Poi fu il turno dei suoi nipoti: li uccise uno dopo
l’altro, senza rimpianti e senza causar loro dolore, per poi
sedersi al centro della sala, in attesa che un Inquisitore
giungesse ad annientarlo per i suoi crimini.
Buttò
a terra la pistola, quando la porta si aprì. Si
preparò a dire qualcosa di sprezzante, ma non
riuscì a pronunciare neanche una parola quando vide
l’uomo che gli stava di fronte. Pallido e sottile appariva
quasi spettrale in quella candida tuta bianca, i lunghi capelli biondi
lasciati sciolti. Lo aveva conosciuto, se non in quella vita,
sicuramente in un’altra.
“Questa
è una mossa che non mi aspettavo, Jano. Stai forse cercando
di affrettare le cose?”, gli domandò
l’elfo.
“Le
tue orecchie! Sono cambiate! Sono…”,
esclamò l’altro.
Dareel
inclinò il capo, turbato.
“Non
lo hai fatto per me... Perché li hai uccisi?”
“Perché
questa non è vita.”
“Non
posso darti torto.”, ammise l’elfo,
“Torno subito.”
Jano
si sorprese quando l’altro gli svanì
d’innanzi gli occhi, ma un istante dopo tutto era chiaro:
l’ultimo suo figlio era morto, e lui ricordava di nuovo.
“La
tua scelta mi ha sorpreso.”, riprese l’elfo,
riapparendo alle sue spalle.
“E’
tutta colpa tua.”
“Mia!?
Come osi anche solo insinuarlo?”
Jano
si voltò e lo allontanò da sé con uno
spintone.
“Tua!
Sei talmente vuoto che non riesci a comprendere come le cose sarebbero
potute andare diversamente se solo tu l’avessi voluto! Non
provo più dolore per queste ombre che dovrebbero
rappresentare la mia famiglia, Dareel, ammesso che l’abbia
mai fatto. Hai voluto andare tanto lontano che ogni cosa ha perduto il
suo senso. Mi sono sempre sbagliato, e adesso… adesso non
sono più capace di ricordare che cosa ci avessi visto in te.
Ti veneravo, avrei baciato il terreno dove camminavi, ora non fai altro
che disgustarmi.”
“Ci
avete schiavizzati, torturati, avete fatto esperimenti su di noi, e
infine ci avete sterminati perché avevate paura! Ora state
galoppando verso la vostra stessa autodistruzione. Che cosa dovrei
fare? Avete avuto innumerabili ere per imparare, e tu hai
l’arroganza di incolpare me della vostra
stupidità? Tu! Che hai ancora le mani macchiate di
sangue!”
“Direi
che hai superato qualsiasi tempo massimo per
rinfacciarmelo.”, sentenziò Jano, infuriato.
“Non mi ha neppure mai domandato perché
l’abbia fatto, Dareel. Ti ho lasciato infliggermi
questo tormento perché non potevo impedirlo; e, in buona
parte, perché mi sentivo responsabile, anche se non di
ciò di cui mi incolpi tu, ma il tempo di subire è
finito. Non ho il potere di costringerti a fare la cosa giusta,
né di mostrarti per cosa lottare. Sto solo cercando di
appellarmi all’uomo che amavo. La mia razza ha sbagliato, lo
ha fatto sempre di più, ma non merita di sparire. Ci sono
tante persone là fuori che sono innocenti
e…”
“Noi
lo eravamo tutti.”, lo interruppe l’altro,
“E non facemmo mai nulla per nuocere a noi stessi, tranne
avvicinarci a voi! Le vostre guerre, la vostra avidità, la
vostra inconsistenza! Avete rubato le nostre conoscenze, sfruttato la
nostra magia, per poi cancellare ogni cosa senza trarre alcun
insegnamento dalle tragedie che avete scatenato! La storia dovrebbe
servire da monito, invece rieccovi qui all’alba della fine!
Abbiamo cercato allora di indicarvi la via, ma non avete voluto
ascoltare. Perché io, l’ultimo della mia razza,
dovrei sprecare la mia vita per la vostra miserabile causa?”
“Perché
io lo farei per la tua. Sono passate ere, ma non puoi aver dimenticato
quanto mi battei nell’Alto Consiglio per osteggiare lo
sterminio degli elfi. E non l’ho fatto perché eri
il mio amante, ma perché era giusto!
E’ stato vano, lo so, e se potessi tornare indietro per
cambiare il corso degli eventi, lo farei! Darei la mia anima per farlo!
Non posso, Dareel! Non posso!”, urlò Jano, per poi
scoppiare in rochi singhiozzi di furia.
“BUGIARDO!
Non hai mai fatto niente per la mia razza! Non hai mai fatto niente per
me!”, urlò, scaraventandolo contro la vetrata con
un’onda psichica.
Chinò
il capo e serrò gli occhi, travolto da dolorosi ricordi.
“Se
eri stanco avresti solo dovuto dirlo... uccidermi! Io mi fidavo di te,
come la mia razza si è fidata di voi...”
“Generalizzare
è tutto ciò che sei in grado di fare, giunti a
questo punto? Ho fatto solo ciò che ritenevo più
giusto! Anche per Adryl!”
“Non
nominarla! Era solo una bambina! Tu…”
Dareel
si interruppe, voltandosi bruscamente.
“Dobbiamo
andare!”, esclamò, e, per la prima volta da un
tempo inenarrabile, Jano vide di nuovo la paura nelle iridi
dell’elfo: era braccato, ma chi potesse essere una minaccia
per lui, non avrebbe saputo dirlo.
Aveva
trascorso quella vita nella solitudine e nei ricordi. Non
c’era stata Altena, né alcuno dei suoi figli o dei
suoi nipoti. Jano aveva vissuto, come ogni volta,
nell’agiatezza. Ed ora guardava la Terra da migliaia di
chilometri di distanza dal finestrone della Nola,
la sola stazione spaziale rimasta. Forte della propria consapevolezza,
aveva lottato per riuscire a riportare i rimasugli della razza umana ad
una pace che forse, solo forse, avrebbe potuto salvarli tutti. Ma la
guerra continuava ad impazzare, e ormai la soglia umana era quasi al di
sotto dei dieci milioni di esemplari che avrebbero potuto, con fatica,
garantirne la sopravvivenza.
“Ambasciatore,
la flotta dell’Unione
è appena entrata nel Sistema Solare!”, lo
informò via radio il suo secondo.
“Richiami
le nostre navi. Che si tengano pronte all’attacco al mio
comando.”, scosse il capo e interruppe il collegamento.
“Non
avrei voluto che si arrivasse a questo…”,
mormorò, “Dove sei?”
Aveva
provato a rintracciare Dareel, ma dell’elfo sembrava non
essere rimasta traccia. C’erano state vite in cui era tornato
ad essere il suo compagno, solo per fargli assaporare il dolore di
un’altra pietosa fine, ma non questa volta. Era solo e tale
aveva voluto rimanere, nessun amico, nessun compagno, o compagna.
Nessuno per duecentoventisette anni, la più lunga delle sue
temporanee esistenze, e la più assurda. La biotecnologia
molecolare aveva fatto passi da gigante, e lui appariva tanto giovane
quanto la prima volta che aveva incontrato Dareel.
Sussultò
quando la porta alle sue spalle venne sfondata da
un’esplosione, ma si voltò sereno, colto dalla
speranza che l’altro l’avrebbe finalmente aiutato.
Ma non era l’elfo ad aver fatto irruzione: al comando della
squadra c’era un giovane ufficiale, Kobayashi, uno dei suoi.
Non
pronunciò una parola, mentre veniva legato sulla poltroncina
del suo ufficio. L’Unione
era riuscita ad infiltrare delle spie tra le sue fila. Non
c’era più speranza.
“Dicci
dov’è!”, esclamò
l’ufficiale, puntandogli contro il fucile al plasma.
“Chi?”
“Il
dio.”
“Non
so di cosa tu stia parlando.”, rispose, calmo, dissimulando
il suo stupore.
“Non
prendermi per il culo!”, urlò Kobayashi,
schiaffeggiandolo, “Sappiamo tutto, Jano Day-Nell. La mia
famiglia ha trovato tracce del tuo passaggio in tutto il corso della
storia. Prima che il pianeta diventasse inabitabile, cinquecento anni
fa, siamo persino riusciti a trovare Atlantide e ad impadronirci della
tecnologia che può piegare il dio al nostro volere. Abbiamo
bisogno di lui per sconfiggere l’Unione!”
“Stai
delirando.”
“Ah,
davvero? Non conosci neanche lei? La sola ed unica che abbia incontrato
il dio? Era una mia antenata!”, esclamò attivando
il proiettore olografico.
Jano
guardò la bambina giapponese che Dareel aveva salvato quasi
ottocento anni prima. Scosse il capo, l’aveva avvertito sulle
conseguenze di quel gesto…
Non
lo confortava neanche il fatto che Kobayashi non avesse tradito il suo
schieramento, perché quella, senz’altro, non era
la corretta via da percorrere.
“Non
ho idea di dove sia. L’ho cercato per più di
duecento anni e non si è mai presentato. Dubito che questo
fatto sia destinato a cambiare. Tuttavia ti sconsiglio di
provocarlo.”
“Ho
intenzione di fare ben di più: ho modificato questa nave
perché fosse la trappola perfetta.”
“E
credi che lui non lo sappia? E’ molto più antico
di te.”
“Ma
voi siete collegati.”
Jano
rise, divertito.
“Procedi,
allora. Sono pronto persino a morire, ammesso che possa
farlo.”
L’ufficiale
sorrise.
“Qui,
dove i suoi poteri sono asserviti a me, posso ucciderti.”,
ribatté, sfilandosi dalla cinta un coltello e puntandoglielo
alla gola.
“Mi
stai ascoltando, dio!?”
“Dareel,
no! Ovunque tu sia...”
“Non
sono un dio.”
L’elfo
avanzò oltre la porta distrutta.
“E
sono qui da ben prima che ultimassi la tua trappola, umano. Se sono
rimasto, è solo perché l’ho voluto.
Liberatelo.”
Kobayashi
tagliò le funi e si avvicinò a quello che, sino a
quel momento, aveva creduto un dio.
“Che
cosa sei?”
“Non
ha più importanza. E, ad ogni modo, non puoi neanche
controllarmi. La tua traduzione dell’atlantideo è
incompleta. Ho vissuto troppo a lungo. Il mio retaggio è
superiore ai vincoli della macchina che hai ricostruito. Puoi tenermi
qui, puoi persino uccidermi, ma non riuscirai a farmi lanciare nessun
incantesimo. La fine giungerà comunque.”
“Noi
non ci estingueremo! Abbiamo lottato per sopravvivere, vogliamo farlo
e, credimi, sono pronto a fare qualsiasi cosa!”
“Sei
libero di desiderare quel che preferisci, ciò non
renderà te, né nessun altro su questa nave,
meritevole.”, ribatté l’elfo, guardando
le due flotte cominciare a scontrarsi al di là della vetrata.
“Questa
è la mia ultima parola.”
Kobayashi
gli si scagliò contro con il coltello stretto in pugno,
intenzionato a ferirlo per obbligarlo a collaborare. Jano si frappose,
inaspettato e improvviso, e un gemito strozzato gli sfuggi dalle labbra
quando la lama lo trafisse al petto. Cadde, consapevole che, quella
volta, non ci sarebbe stato alcun ritorno. Provò sollievo,
quando finalmente il suo corpo si schiantò sul pavimento con
un tonfo leggero.
Il
calore delle fiamme della furia dell’elfo non lo
scalfì, ma si sorprese quando, nella luce rossastra di
quell’inferno, Dareel si inginocchiò al suo fianco
e lo sollevò tra le braccia.
Si
aggrappò alla tuta che indossava, guardando il suo bel viso.
La certezza che quelli sarebbero stati gli ultimi istanti in cui
avrebbe potuto vederlo era più dolorosa della sua mortale
ferita.
“Q-quando
ti ho accolto… volevo davvero dare un rifugio a te e ad
Adryl. Non potevo…”, tossì, e un rivolo
di sangue gli colò giù dalle labbra,
“N-non potevo sapere che ti avrei amato più della
mia stessa salvezza; che da lì a pochi anni l’Alto
Consiglio avrebbe ordinato il vostro sterminio… Mi dispiace,
Dareel! Non avevo capito che Altena fosse così…
così ferita dal nostro amore da usare il mio sigillo di
nascosto per denunciare la vostra presenza nella mia casa.”
“Tu
non hai… non hai mai..? Io pensavo che ci avessi denunciati
tu per mantenere il tuo retaggio...”
“No.
Non ti ho mai tradito. Come avrei potuto? Gli anni con te sono stati i
più felici della mia intera esistenza. Ho ucciso tua
sorella… l’ho fatto velocemente perché
non dovesse fuggire. Era troppo pura, troppo innocente. Sarebbe morta
comunque, Dareel. V-volevo… che fosse in pace, e che tu
fossi forte… forte abbastanza per sopravvivere, anche al
prezzo del tuo odio.”
“Io…”,
l’elfo esitò, mentre il suo abbraccio si faceva
tremante e i suoi occhi si inumidivano di nuovo dopo ere di
sterilità.
Jano
gli carezzò il viso.
“C’è
del buono in noi, anche se non riesci a vederlo… p-piangi,
Dareel! T-ti prego...”, sospirò, prima che il suo
sguardo si spegnesse per sempre.
Dareel
lo strinse e gridò il suo dolore sulle sue labbra, e tra i
suoi singhiozzi e le sue lacrime, la base esplose.
L’onda
d’urto si propagò per migliaia di chilometri,
mandando in tilt le armi delle due flotte, forzando la fine delle
ostilità.
“Guardate
la Terra!”,
esclamò il generale dell’Unione
in un comunicato a tutte le navi.
“Sta
risorgendo!”
Fine
1):
Il dio giapponese delle tempeste.
N.d.A.:
Eccoci qui alla fine. Dunque, questa è la prima storia
originale che pubblico in questi lidi. Per quanto bizzarro, non era
stata scritta per essere postata proprio l’11 Settembre, dal
momento che tratta anche di questo, ma il destino ha voluto
così.
Se
vorrete lasciarmi una recensione, un parere, una critica,
sarò felice di leggere i vostri pareri. Grazie per essere
arrivati sin qui.
Un
bacione,
Ros.
|