Clato
This is {our} truth.
Successe al termine della giornata, mentre i Favoriti s'avvolgevano le
coperte pesanti alle spalle, di fronte al fuoco da campo, mentre
spazzolavano con rinnovato ottimismo le lepri procurate da Clove -e
dopo che tutti ebbero declinato la solita proposta di storie da
fantasmi proveniente da Marvel. Cato offrì la borraccia alla
compagna di distretto, così che potesse berci per prima, in
segno di galante enfasi, e perchè loro erano assassini
nobili, mica volgari tagliagole, e sapevano ringraziare.
Accennò
una sorta di brindisi.
«Ucciderti sarà un onore, madame.»
Sostenere la fissità oscura ed impertinente dello sguardo di
Clove non era facile, ma lui ci riusciva con impavida
disinvoltura. La ragazza inarcò le sopracciglia ed
esibì un
sorriso rapido e violento, che s'allungò come una ferita.
«Il piacere sarà tutto mio, monsieur.»
Bevve dalla borraccia. L'atmosfera, anzichè raffreddarsi,
quasi s'ammorbidì. Entrambi
ghignavano, come se si stessero già scaldando le mani l'uno
nel sangue
dell'altro. Solitamente mantenevano un certo sbrigativo distacco,
nonostante Clove non potesse evitare di lasciarsi trascinare
dal carisma
del compagno, e parlavano di rado -la loro era un'intesa
spinta dalla necessità, priva di sentimentalismi, e
piuttosto
taciturna- ma, quando lo facevano, Glimmer provava quel fastidio che
sopraggiunge nell'assistere ad un
dialogo in una lingua sconosciuta, incomprensibile, udendo senz'essere
capace di penetrarne il mistero.
«Cosa diavolo stanno facendo?» domandò a
voce bassa, lanciando un'occhiata stizzita a Marvel.
«Flirtano» dedusse lui, stringato, per poi
aggiungere più forte «Qualcuno vuole altro
tonno?»
«Buonanotte.»
«Buonanotte. Clove?»
«Che c'è.»
«Hai paura di me? Almeno un pochino?»
«Solo perchè tu hai paura di me, non significa che
io debba avere paura di te.» Scandendo una sillaba per volta,
gongolava. Cato espresse il suo scetticismo con una smorfia.
«Buonanotte, Clove.»
«Buonanotte, Cato. Mi vuoi bene?»
«Moltissimo, ma ancora di più quando ti
romperò il collo.»
«Prima di iniziare a sognare ci si addormenta, di
solito.»
«Vaffanculo.»
«Mi leggi nel pensiero.»
«Per cosa credi che mi sia allenato tutta la vita?»
«Per uccidermi.»
«Per ucciderti.»
Il loro era un cameratismo infarcito di istintivo rispetto, cementato
dall'approvazione degli arroganti e da un'implicita
complicità, che si esprimeva soltanto negli indizi di un
gesto
in più o una parola in meno, e il cui risultato era
l'affidamento della reciproca, rarissima fiducia, elargita con la
sufficienza di una gratificante elezione. Per Cato era naturale
voltarsi a
cercare l'opinione di Clove, quando si trattava di decidere se
accamparsi o procedere ulteriormente; altrettanto spesso la ragazza si
permetteva di
dormire tranquilla soltanto se era il compagno di distretto a fare
il turno di guardia. I loro erano sorrisi scoccati con l'unico
proposito di relegare il mondo ad una marmaglia di sprovveduti,
inetti e stolidi: armi, come tutto il resto. Volentieri erano disposti
ad ammettere la superiorità l'uno
dell'altra, ma di certo non erano così concilianti da
estendere
il complimento al
punto da dubitare del proprio personale successo. Si conoscevano
riconoscendosi, in una coincidenza esatta di
strade e destinazioni.
Il vincitore era uno, ma non per questo
sorgevano rancori: sembrava più che altro che stessero
attendendo, con serafica serenità, che il verdetto si
limitasse
ad attestare agli occhi del mondo quella che per entrambi era certezza
di vittoria, mozzando le vane speranze dell'altro in una profusione di
viscere e liquidi corporei. I tributi
erano ventiquattro, eppure dal loro punto di vista non
esistevano
che due concorrenti. La vera competizione iniziava dopo, quindi
non ci vedevano niente di male nello spartirsi la cacciagione. Entrambi
lo sapevano, dove la coscienza razionale scema nella fibra bruciante
del più carnale impulso, forse fin dal momento in cui si
erano
stretti la mano sul palco della mietitura, pressando con un sorriso e
promettendoselo con le labbra chiuse. Il ciclo si sarebbe chiuso allo
stesso modo in cui si era aperto, lei di fronte a lui, come se con
quell'unico sguardo rasentassero il confine di vita e morte, in un
labile istante d'attesa. Doveva
essere Cato per Clove, o Clove per Cato -uno doveva morire, ma soltanto
l'altro lo poteva uccidere.
«Io vado.» Le mani di Clove carezzavano il
coltello senza posa. Il respiro le fremeva a fior di labbra.
Lei va. Cato
non
commentò. La trappola era evidente, nient'altro che
l'ennesimo
svago per i telespettatori che sbadigliavano sul divano, ma loro erano
oltre. Loro potevano permettersi persino di deridere le trappole.
«Se da sola non ce la fai,» la provocò,
«urla.»
Clove gli concesse un'occhiata indispettita e un verso di
scherno.
La prima reazione di Cato fu
uno sbigottimento senza nulla di triste, ma con qualcosa di
ridicolo.
I giochi avevano ingoiato Clove come avevano fatto con la
carne da macello,
e lei era morta come muoiono le pecore. Qualcosa di fulmineo ed
imprevedibile l'aveva piegata ad un destino paradossale, incongruente
con tutte le sue parole di temeraria, baldanzosa noncuranza,
incongruente con lei. Non
aveva artigliato l'erba per avanzare verso quella vittoria tanto
predicata, non si era opposta al sovvertimento delle circostanze, alle
pazzesca piega degli eventi.
Non si era attenuta ai piani. Aveva rovinato tutto.
Dopo aver ucciso tutte e ventidue le futili distrazioni, Cato avrebbe
dovuto combattere con lei per ore, in uno scontro formidabile,
rotolandosi nell'erba e nel fango, strappandola e mordendola e
graffiandola, e percependo sotto di sè l'irrequieta difesa
del
suo corpo minuto, scattante e furibondo. Avrebbe dovuto infine prendere
il suo capo corvino fra le mani e girare,
udire la sua morte, percepirla
con il tatto e l'olfatto e il gusto, come un'emozione,
assaporarla piano e lasciarla prosciugare della sua freschezza, goderla. Avrebbe
dovuto afferrare
la sua ultima parola, l'estrema invocazione, sorridere l'ultimo sorriso
che lei avrebbe mai visto, saccheggiare avidamente l'ultimo
lume
del suo
sguardo e respirare il suo ultimo respiro. Sotto i riflettori, avrebbe
dovuto raccontare a Caesar Flickerman che temibile avversaria
si
fosse rivelata la sua compagna di distretto, di quanto gli avesse fatto
sudare la vittoria, ma sempre con un ghigno di sottile condiscendenza.
Avrebbe dovuto sedersi sul trono e dirle addio, per un brevissimo
istante. Doveva essere così, e, allo stesso tempo, non
avrebbe
più potuto esserlo.
La loro era stata una promessa, quello era un tradimento. Guardando il
cadavere di una ragazzina che non credeva davvero alla morte,
nonostante l'avesse generosamente elargita, che non credeva alla propria morte -se
da viva era piccola, da morta era minuscola-
Cato perse qualcosa. La fiducia. Come l'aveva persa Clove. Venne a
mancare l'ingranaggio che aveva fatto funzionare la macchina per
uccidere. L'arroganza glie l'avevano strappata i denti di chi era morta
masticando il suo nome: una pietra spense l'immortalità dei
forti. Un presagio. Cato lo avvertì sotto la pelle.
Se non fosse andata così, non sarebbe andata in nessun altro
modo -lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Attese il dolore
finchè non tramontò la loro stella avversa.
Note dell'Autrice: Un altro
ship di gente morta. Fantastico. Non ho nessuna intenzione di cercare
di dare una logica a tutto ciò, quindi... Ma c'è
sul serio qualcuno al mondo che shippa Glato? XD Glimmer è
di Marvel, IMMO. E Cato e Clove... *teatrale sospiro*
Grazie per aver letto, chi avrà la pietà di
recensire riceverà il solito kleenex virtuale per asciugare
le solite lacrime.
Lucy
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