Storie di ebrei: il deportato e il soldato

di lapoetastra
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Mi chiamo Herbert Steindler.
Sono ebreo.
E sono un deportato.
Ho il cuore infranto.
Sono qui, con i miei compagni.
Stiamo stipati come animali da macello.
Perchè, in fondo, è quello che siamo, per i nazisti.
Ne più, nè meno.
Mi ricordo bene il giorno in cui sono arrivato, anche se non so quanto tempo sia passato da allora.
All'inizio credevo che i soldati tedeschi mi avessero portato in un ricovero per indigenti.
Uno di quei luoghi dove aiutano e curano coloro che, con la guerra, non riescono a procurarsi neanche un pezzo di pane duro da mettere sotto i denti.
Come me.
Mi sono ben presto accorto che mi sbagliavo.
Quando ho visto il campo, ho pensato di aver commesso qualche delitto.
Di avere qualche colpa, per cui era necessario punirmi, rinchiudendomi in questo posto invivibile.
E infatti è così.
Io sono colpevole.
Colpevole di essere ebreo.
Che per i nazisti è molto peggio che essere un omicida, o uno stupratore.
Ma io non posso cambiare ciò che sono.
A dir la verità, non lo voglio neanche.
Ho molti amici, qui.
Amici come possono esserlo le persone unite dal dolore e dalla sofferenza.
Anche loro sono tutti colpevoli.
Di essere omosessuali, zingari, ebrei come me.
A volte alcuni di loro scompaiono nel nulla.
A giorni alterni, i soldati tedeschi arrivano e ci dividono in due gruppi.
Portano uno di essi alle docce.
Non vedo più tornare quelli che fanno parte di quel gruppo.
Mi piacerebbe pensare che li puliscono per bene e poi li liberano, ma qualcosa nel profondo del cuore mi dice che non va affatto così.
So che verrà il giorno in cui anche il mio gruppo dovrà andare alle docce.
D'altronde, pure noi dobbiamo essere lavati, prima o poi.
Non so bene perchè, ma io sento che preferisco rimanere sporco.




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