A song of revenge.
Mi fermai in cima alla Collina
e mi concessi un attimo di riposo per ammirare la vista della valle ai
miei piedi.
Riconobbi
il luogo che avevo sognato nelle notti precedenti, con i boschi, il
laghetto delle canoe, la baia di Long Island che luccicava sotto i
raggi del sole mattutino e lo schieramento delle case, un assortimento
di bizzarri edifici.
Sulla
Collina, poco distante dal punto in cui mi trovavo, il Vello
d’Oro era posato sui rami più bassi di un pino. Il
drago di guardia sonnecchiava.
Era
stata mia madre a condurmi fin lì.
Era
cominciato tutto tre mesi prima, lo ricordavo fin troppo bene.
Il
giorno della morte di mio fratello.
Ero da qualche parte nella
Florida meridionale, a girovagare in un immenso centro commerciale. Mi
piaceva osservare le persone, soprattutto le famiglie, forse
perché non ne avevo mai avuta una vera.
Non
ricordavo mia madre: se n’era andata subito dopo la mia
nascita, a quanto sapevo. E mio padre, per qualche misteriosa ragione,
mi ha sempre ritenuto responsabile per l’accaduto.
Avrei
voluto poter dire che era riuscito ad amarmi comunque, ma la
verità è che mi odiava con tutto se stesso e che,
se non fosse stato per mio fratello, probabilmente mi avrebbe
abbandonata in un vicolo, o qualcosa del genere.
Stavo
spiando silenziosamente una famigliola che cenava al
McDonald’s, quando una voce mi aveva fatto sobbalzare.
«Piacere
di fare la tua conoscenza, Dalila.»
Mi
ero voltata di scatto, impaurita.
Una
donna con una criniera ribelle di capelli corvini mi stava fissando,
con un sorriso freddo stampato sul volto. Non era una persona abituata
a sorridere, chiaro. Sembrava distante, ma allo stesso tempo
incuriosita, come se stesse esaminando un insetto raro che la
disgustasse un po’.
Perché
quella donna sapeva il mio nome? Era un’assistente sociale?
Una poliziotta? Possibile che mio padre si fosse deciso, dopo tre anni,
a denunciare la nostra fuga? Mi sembrava alquanto improbabile.
«C-come
conosci il mio nome?» domandai, esitante. La donna mi
fissò come se avessi appena posto la più stupida
tra le domande possibili.
«Perché
non dovrei?» rispose «Sono tua madre,
dopotutto.»
E
lo disse proprio così, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo.
«Guarda
che mia madre è morta, probabilmente» sbottai,
inviperita dal fatto che una sconosciuta si permettesse di uscirsene
con simili storie «Non ti conosco.»
«Mi
sembra abbastanza scontato, Dalila. Vi ho dovuti abbandonare,
perché è sempre il genitore umano a crescere i
figli che nascono dalle unioni tra mortali e
divinità.»
«
Che accidenti stai dicendo? Divinità? Tu sei completamente
matta.»
La
temperatura dell’aria si abbassò di colpo e un
lampo passò negli occhi della donna misteriosa.
«Non
tollero un simile linguaggio, nemmeno da mia figlia. Ti
avverto.»
La
sua voce si era fatta gelida, come ghiaccio sul punto di spezzarsi. Poi
tutto tornò alla normalità, come se non fosse
successo nulla.
«Ne
parleremo meglio a cena» concluse la donna, con un sorriso
appena più caloroso del solito.
Cena?
Il mio stomaco brontolò.
Non
mangiavo dal giorno prima, quand’ero riuscita a rubare un
hot-dog da un chiosco. Sperai che mi portasse al McDonald’s.
Poteva anche essere una pazza psicopatica che blaterava di mortali e
divinità, ma la fame si faceva sentire con troppa insistenza.
Ci
sedemmo ad una panchina e, con un pigro gesto della mano, la donna fece
comparire un vassoio colmo di hamburger e patatine. Così,
dal nulla.
Cacciai
un urlo, scattando in piedi, e diverse persone si voltarono a
guardarci, perplesse.
«Oh,
tranquilla, non hanno visto nulla di strano. La Foschia glielo
impedisce. Siediti e mangia» replicò lei, e
qualcosa nel suo tono di voce mi costrinse ad obbedire. Volevo
chiederle cosa fosse la Foschia, ma ero troppo spaventata per parlare.
Cos’era, una specie di trucco di magia? Come aveva fatto?
«Dalila,
come stavo dicendo, io sono tua madre. Il mio nome è
Nemesi.»
«Nemesi?
Come la… la dea della vendetta?» domandai,
ricordando le storie che mio fratello mi raccontava sulle
divinità greche.
Nemesi
storse il naso. «Preferirei della giustizia. Molti tendono a
dimenticare che la vendetta è un modo per riportare
l’equilibrio, per fare giustizia. Comunque, quel che conta
è che sono io, sì.»
«Tu
saresti la dea della vend- ehm, della giustizia? Non dovresti
essere… uhmm, più divina?» Mi resi
conto di quanto suonasse stupida la mia domanda.
«Se
assumessi la mia vera forma, ti distruggerei» rispose lei
«Comunque, non è questo il punto.»
Sembrava seccata, notai con rabbia.
«E
allora qual è? Vieni qui, mi spiattelli in faccia che sei
mia madre e sei una dea, cosa vuoi da me? Mi hai abbandonato
con… con quell’uomo, che mi odiava
perché per colpa mia tu eri andata via,
e…»
«Tuo
padre è stato un errore» mi interruppe lei, con un
tono diverso, quasi come se le dispiacesse per tutto quello che avevo
passato «Era molto diverso, quando l’ho conosciuto.
Un povero fallito, certo, ma che metteva grande passione in quello che
faceva. Ho deciso di aiutarlo ̶̶ del
resto, il mio compito è anche quello di concedere un
po’ di fortuna a chi ne ha troppo poca
̶ e, grazie al mio aiuto, è riuscito ad affermarsi
e avere successo.»
Era
il discorso più lungo che le sentivo pronunciare e la stavo
ad ascoltare, incantata. Conoscevo la storia, certo. Mio padre, prima
che nascesse mio fratello, era un giovane avvocato, povero, ma
ambizioso. Dopo la sua nascita, aveva vinto una serie di cause molto
importanti, arricchendosi e facendosi un nome nell’ambiente.
Poi,
non si sa perché, era crollato tutto. Poco dopo la mia
nascita, e immaginavo mi ritenesse responsabile anche per quel motivo,
era caduto in miseria. Con la stessa rapidità con cui aveva
ottenuto la fama, l’aveva persa.
«Quindi…
stai dicendo che…»
«Sì.
Abbiamo concepito tuo fratello la notte in cui decisi di aiutarlo.
Però, tuo padre si abituò al successo, alla
ricchezza, e divenne arrogante, convinto di essere meglio di chiunque
altro. Dopo qualche anno, sono dovuta intervenire una seconda e ultima
volta, perché era mio dovere farlo, e…»
«Ed
è stato allora che sono stata concepita io»
intervenni, mentre una morsa mi stringeva il petto. Ora riuscivo a
capire l’odio di mio padre nei miei confronti: ero,
letteralmente, figlia della sua rovina. Come avrebbe potuto amarmi?
Nemesi
annuì, studiando la mia espressione. Non avevo alcuna
intenzione di scoppiarle a piangere davanti, quindi trattenni le
lacrime.
«C’è
un’altra cosa. Ed è il vero motivo per cui sono
qui ora.»
Un
brivido di paura mi attraversò. Qualcosa era cambiato nel
suo tono di voce.
«Tuo
fratello Ethan è morto.» E cominciò a
raccontarmi di semidei, di Titani e di guerre.
***
Tuo fratello Ethan
è morto.
«Non
piangere mai più, Dali.»
Ethan mi
guardava, sorridendo. Aveva questo sorriso incredibile, non potevi fare
a meno di sentirti subito meglio.
«Than,
papà non mi vuole bene.»
Il
soprannome Than era rimasto fin da quando, ancora piccola, non riuscivo
a pronunciare bene il suo nome.
Avevo sei
anni, ma avevo già capito tutto. Sapevo interpretare i
silenzi di mio padre, il suo evitare di guardarmi o a leggere il
disprezzo nei suoi occhi, quand’era costretto ad abbassare il
suo sguardo su di me. La maggior parte del tempo, fortunatamente, si
limitava ad evitarmi.
«Papà
è malato, Dali. Non riesce più a provare
sentimenti, è una cosa molto dolorosa. Lui sbaglia a
sfogarsi su di noi, ma non è colpa sua.»
Ethan
riceva un trattamento leggermente migliore rispetto a quello riservato
a me. Non disprezzo, ma indifferenza. E questo, credetemi, era
già qualcosa.
«Non
devi piangere, Dali. Finché io sarò con te, non
ne avrai bisogno.»
E io gli
avevo creduto.
***
«Perché
non te ne vai?»
La voce di
mio padre era calma, come se stessimo amabilmente discorrendo riguardo
il tempo.
«P-papà…»
balbettai, fingendo di non aver sentito. Ero immobile sulla soglia del
suo studio.
«Seriamente,
vattene. Liberami dalla tua presenza» aggiunse lui, annoiato.
Non alzò nemmeno lo sguardo dai documenti che stava leggendo
«Vai da tua madre, o vai al diavolo. La scelta è
tua.»
Gli occhi
cominciarono a bruciarmi, ma trattenni le lacrime. Ero abituata a
quelle scenate, non riuscivano più a ferirmi come
all’inizio. Ma facevano comunque male.
«Piangi?»
Per un
istante, sembrò preoccupato, e osai sperare, sperare che
qualcosa avesse finalmente penetrato la sua corazza. Poi, il suo volto
si deformò in una smorfia di scherno.
«Povera
piccola. Come ti senti a non essere amata da nessuno?»
ghignò, e tornò a leggere le sue carte.
Conversazione finita.
Mi chiusi
alle spalle la porta dello studio, crollai sul pavimento e mi
imposi di non piangere. Avevo promesso ad Ethan di non piangere, mai.
Di non lasciarmi scalfire dall’odio di quell’uomo
patetico, che mi addossava la colpa del suo fallimento. Strinsi i denti
e mi rialzai, stampandomi in faccia un bel sorriso.
Ero forte,
io. Ero una combattente.
***
«Than?»
Mi dava le
spalle, fissando un punto imprecisato al di là del vetro
della finestra.
Ethan si
voltò a guardarmi. Aveva un’espressione strana,
distante, che aveva sostituito il solito sorriso che riservava a me
sola.
«Dali,
credo che presto dovremo andar via da qui»
affermò.
«Perché?
Inizi a spaventarmi.»
«Non
saremo al sicuro ancora per molto, restando qui.»
«Ti
riferisci a papà?» domandai, sorridendogli. Era
fin troppo protettivo nei miei confronti, ma era il suo modo di
dimostrarmi il suo affetto, ormai ci ero abituata.
Ethan era
la mia àncora di salvezza, la mia Stella Polare, a cui
guardavo come punto di riferimento. Solo grazie a lui, crescendo, mi
ero trasformata in una ragazza solare e allegra, nonostante
l’atmosfera triste e opprimente che si respirava in casa
nostra.
«Non
è per papà.» E rispose forzatamente al
mio sorriso. Capii che non avrebbe aggiunto altro.
La mattina
dopo, Ethan mi aveva svegliato all’alba, mi aveva ordinato di
vestirmi e di preparare uno zaino con ciò che avrei voluto
portare con me. Aveva un’aria risoluta, quindi non osai
fiatare e obbedii.
Aveva
portato con sé un coltello. La cosa mi spaventava un
po’, del resto avevo appena dieci anni, all’epoca.
Ethan mi disse che mi avrebbe difesa, ad ogni costo.
E andammo
via dal posto che più odiavo al mondo.
***
La notte
in cui il mondo mi crollò addosso la prima volta, faceva un
freddo terribile. Stavamo scappando verso questo posto, che Ethan
chiamava “Campo Mezzosangue”. Continuava a ripetere
che lì saremmo stati al sicuro, ma al sicuro da cosa? Ci
eravamo accampati in un bosco, poco distante dall’autostrada.
Ethan era
nervoso. Non riusciva a stare fermo, anche se non significava molto,
dal momento che siamo entrambi iperattivi e dislessici.
Quella
sera, però, era diverso. Aveva paura, mi resi conto.
A un certo
punto, saranno state le tre del mattino, mi svegliò.
Tremava,
per il freddo e la paura, e aveva uno sguardo folle.
«Dali,
ti fidi di me?» mi domandò, mentre raccoglieva
freneticamente le mie cose.
Annuii,
ancora stordita.
«Allora
prendi le tue cose e scappa. Io devo assicurarmi di una cosa.»
Interdetta,
feci per domandargli qualcosa.
«Fidati
di me, ti prego. Verrò a prenderti» mi interruppe
lui, porgendomi il mio zaino.
Perché
non lo fermai? Perché non rimasi?
Invece,
afferrai il mio zaino e scappai, nascondendomi nelle tenebre del bosco.
***
Non era tornato a prendermi.
Forse
non era riuscito più a trovarmi, o forse aveva creduto che
sarei stata più al sicuro senza di lui. E così
era cominciata la mia odissea.
***
«Eravate inseguiti
da un mostro, quella notte.»
Nemesi
sembrava aver letto i miei pensieri, e forse era davvero
così.
«Ethan
lo ha attirato verso di sé, pensando che il mostro stesse
inseguendo solo lui. È riuscito ad ucciderlo. Ed ha pensato
di proseguire da sola, perché così saresti stata
al sicuro. Non aveva idea del fatto che tu fossi una semidea, proprio
come lui.»
Annuii,
stancamente. Avevo ascoltato il suo interminabile racconto, ma ora ero
stanca. Volevo il tempo di piangere mio fratello, di realizzare il
fatto di averlo perso per sempre.
«Dalila.»
Nemesi
mi stava fissando, così mi costrinsi ad incrociare il suo
sguardo.
«Ho
un favore da chiederti.»
E
mi aveva regalato un motivo per continuare a vivere, anche senza di lui.
Mi
aveva promesso la vendetta nei confronti di chi era responsabile per la
morte di mio fratello e mi aveva dotato di un’arma per
combattere.
«C’è
un prezzo da pagare, ovviamente» aggiunse, alla fine.
Avevo
già intuito che, per quanto fosse mia madre, non avrei
ricevuto un trattamento preferenziale.
Accettai.
Nemesi mi regalò uno dei suoi rari sorrisi.
«Sei
così bella, figlia mia.» Sfiorò lo
chignon in cui tenevo legati i miei capelli corvini, così
simili ai suoi. Per un istante, sembrò una mamma come le
altre, quasi affettuosa. Ma poi tornò la divinità
fredda e calcolatrice che era.
«Fidati
dei sogni che farai. Ti indicheranno la via fino al Campo.»
***
«E tu chi
saresti?»
Mi
voltai in direzione della voce. Una ragazza di qualche anno
più grande di me mi stava fissando. I suoi grandi occhi
grigi erano imperscrutabili.
Un
sorrisetto malizioso si aprì sul mio volto.
«Una
fonte di guai, chiaramente» le risposi, avvicinandomi a lei
con passo sicuro.
La
ragazza si ritrasse, circospetta.
«Il
mio nome è Dalila Nakamura, figlia di Nemesi.»
La
vidi impallidire.
Le
rivolsi un’occhiata di commiserazione e la superai,
dirigendomi verso la Casa Grande. Non avevo tempo da perdere con lei.
Dovevo
compiere la volontà di mia madre.
Dopo
aver pagato il suo aiuto concedendole i miei sentimenti, del resto, la
vendetta era l’unica cosa a cui potevo ambire.
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