Tra Due Punti Passa Una Sola Retta

di SunlitDays
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Titolo: Tra Due Punti Passa Una Sola Retta
Prompt: bloccati in ascensore
Rating: giallo
Ship: Percabeth
Avvertimenti: Mortal!AU, volutamente OOC (ma non troppo), Prompt-di-Clà (What? È un avvertimento!), uso eccessivo di parentesi (tonde)
Wordcount: 2281 (fdp)
NdA: davvero non so che dire per giustificarmi, a parte che il prompt è di kuma_cla, quindi prendetevela con lei.
Ah! Il portiere della storia è la guardia dell’ingresso dell’Empire State Building e il libro che sta leggendo è Hunger Games (dato che in TLT legge Harry Potter e in TLO Twilight, mi sembrava giusto inserire pure Hunger Games).
Se non capite il senso di tutte queste parentesi (e del perché all’improvviso scompaiono) allora sono una pessima fanwriter.

 

Annabeth premette per tre volte consecutive il tasto dell’ascensore, anche se razionalmente era perfettamente consapevole che ciò non l’avrebbe fatto arrivare più in fretta, ma c’erano momenti nella vita in cui comportarsi in modo irrazionale era necessario e salutare.

Come quella mattina, ad esempio.

Nonostante avesse impostato la sveglia un’ora e mezza prima dell’appuntamento (tre minuti per alzarsi, un quarto d’ora perché la caffeina facesse effetto, ventisette minuti per la doccia, quindici per vestirsi e truccarsi e altri trenta per il tragitto da percorrere), era riuscita a far tardi. Non aveva considerato che il cardigan che le aveva prestato Piper potesse essere troppo stretto per lei o che le calze potessero sfilarsi o che il fard, se non usato per molto tempo, potesse trasformarsi in un blocco di cemento rosato. Ma questi erano incidenti, e Annabeth avrebbe anche potuto perdonarsi un incidente (non tre!) (e comunque avrebbe dovuto considerare un margine di tempo più ampio proprio per questi casi). Quello che invece avrebbe dovuto prevedere, era l’attacco compulsivo di rileggere tutte le sue credenziali (perdendo altri sei minuti preziosi!) che, se fosse stata più lungimirante (e la smettesse di ingozzarsi di zuccheri quando si sente sotto stress per poi passare una notte insonne), avrebbe saputo come controllare.

Adesso Annabeth era in ritardo di sedici minuti (e quel maledetto ascensore non si decideva ad arrivare!) per il colloquio di lavoro più importante della sua vita.

Pigiò il pulsante per altre tre volte e l’ascensore finalmente arrivò (ah! Visto che a volte serviva?). Annabeth non perse tempo a entrare, lo sguardo a terra per evitare che il tacco le si infilasse nel piccolo vano tra il pavimento del piano e quello della cabina (non sarebbe stata la prima volta) (e poi dove le avrebbe trovate altre scarpe con la stessa tonalità di grigio fumo della camicia?). Pigiò tre volte sul tasto Terra.

Si sistemò davanti allo specchio. C’era una piccola macchia sulla gonna a tubino. Si leccò l’indice e strofinò il tessuto per eliminare la chiazza. Poi si girò di lato per guardarsi il sedere e controllare che non ci fossero pieghe (non aveva avuto il tempo di stirare la gonna e adesso era un disastro) (oh, dei, era un’altra sfilacciatura quella sul poplite?), quindi agitò il didietro per cercare abbassare la gonna fino al ginocchio. Alzò la testa per controllare che capelli e trucco fossero al loro posto e si ritrovò davanti due occhi verdi che la guardavano divertiti.

Emise uno strillo poco dignitoso e si voltò di scatto, la schiena contro lo specchio.

«Scusi,» squittì. «Non l’avevo vista.»

La bocca del ragazzo si piegò in un finto broncio. «E io che pensavo che quello spettacolino fosse solo per me.»

Annabeth alzò gli occhi al cielo; eccone un altro. Ma perché gli sbruffoni capitavano sempre a lei? «Be', hai pensato male» ribatté con un sorriso sdegnoso. «Cafone» borbottò dopo, con voce abbastanza alta da farsi sentire.

Il ragazzo non sembrò scoraggiato dalla risposta. Continuò a sorridere e si appoggiò comodamente sulla parete della cabina, le gambe aperte e le braccia stese ai lati del passamano, occupando ben tre quarti dello spazio disponibile in ascensore.

Annabeth si mise all’angolo per mettere quanta più distanza tra loro e girò il viso dall’altra parte. Suo malgrado, si ritrovò a fissarlo allo specchio. Dalla sua posizione stravaccata, Annabeth dedusse che dovesse essere un tipo molto sicuro di sé, una di quelle persone che non hanno paura di farsi notare, ma che, al contrario, si beano dell’attenzione che gli altri gli riservano. Indossava dei jeans slavati e decisamente troppo larghi per lui (sciatto) e una camicia a quadri sopra una t-shirt nera con una scritta che diceva “I’m the guy your mom warned you about” (occhi al cielo). Un perfetto stile grunge anni ‘90 (nonostante era chiaramente troppo giovane per averli vissuti pienamente).

Annabeth storse la bocca, contrariata (dannazione! Era proprio il suo tipo!).

Distolse lo sguardo dal riflesso del ragazzo, ma lui ridacchiò e Annabeth capì che il suo esame non era passato inosservato.

«Mi ero sempre chiesto a cosa servissero gli specchi in ascensore,» disse. «Ora ho capito che servono a farsi occhieggiare da bionde sexy e sculettanti.»

Annabeth si voltò lentamente (l’aveva chiamata bionda, quello screanzato!) e strinse i pugni (okay, tecnicamente lei era bionda), pronta a rompergli il naso con un destro ben assestato (gli uomini come lui tendevano a ritenere le bionde stupide e facili) come le era stato insegnato al corso di autodifesa  (e poi lei non sculettava!).

«Ti sbagli,» soffiò. «Serve a farti controllare i danni subiti dalle bion—»

Un scossone, la luce sfarfallò e si spense, e l’ascensore si fermò.

«Merda!» esclamò il ragazzo.

Si accesero le luci di emergenza. Annabeth premette tre volte il tasto HELP. Poi altre tre volte, per buona misura.

«No! No! No! Maledizione, non ora.»

«E adesso che facciamo?» chiese il ragazzo con un’inflessione di voce ben diversa dal tono baldanzoso di prima. Sembrava essere diventato anemico tanto era pallido.

«Adesso aspettiamo che il portiere si accorga che l’ascensore è bloccato» rispose lei, seccata.

«Abbiamo un portiere?»

«Quando si stacca da quegli stupidi libri adolescenziali che legge — Aspetta! Tu abiti in questo condominio?»

«Da meno di una settimana. Ventesimo piano. Tu?»

Annabeth non rispose (il suo appartamento si trovava al diciannovesimo) (e non aveva bisogno che quel buffone lo sapesse e venisse a seccarla). Pigiò il tasto HELP tre volte. (Com’era tardi!) (Si era giocata il lavoro, poco ma sicuro.) (Non le avrebbero mai dato un’altra possibilità.)

Con la coda dell’occhio, vide il ragazzo agitarsi: le mani picchiettavano sul passamano, poi gli scompigliavano i capelli, poi tornavano a tamburellare un ritmo che ad Annabeth sembrò di riconoscere (era un pezzo dei Pearl Jam, ne era sicura) (ma qual era il titolo?).

Inspirò profondamente e si costrinse a immaginare il suo posto sicuro: un giardino silenzioso, con splendide fontane di marmo bianco che spruzzavano acqua dolce e cristallina, le statue a grandezza umana che splendevano alla luce rassicurante del sole... (doveva controllare i pensieri ossessivi come le aveva insegnato il suo terapista) (magari quando sarebbe uscita da quella situazione avrebbe fissato un appuntamento con Silena) (perché quel tipo non si dava una calmata?) (la stava rendendo nervosa) (forse anche lui aveva bisogno di una sezione di massaggi terapeutici al centro benessere di Silena) (oh, dei, la tecnica non stava funzionando).

«La vuoi smetterla di muoverti? Sto cercando di concentrarmi qui.»

«A far che? A giocare alla bella statuina? Piuttosto, dammi una mano ad aprire le porte.»

«Cosa fai, stupido?» lo rimbeccò. «Siamo bloccati tra il quinto e il quarto piano, aprire le porte è inutile. Rischieresti solo di fare danni, e lo sai quanto paghiamo di condominio per la manutenzione dell’ascensore?»

«Evidentemente non abbastanza se siamo bloccati qui.» Cominciò a dare dei colpetti leggere alle pareti, come cercando un'altra via di fuga. Si spostò da un lato all'altro della cabina, ma essa era larga solo un metro e mezzo e ogni due passi lui tornava indietro per ricominciare daccapo.

«Mi stai facendo girare la testa» disse Annabeth, massaggiandosi le tempie.

«Deve esserci un modo per uscire da qui.» Tentò di aprire il vano superiore, come se avesse intenzione di arrampicarsi su per la corda fino al piano più vicino.

Annabeth lo bloccò per il braccio e lo fece girare di scatto. «Guarda verso lo specchio,» ordinò. «Contrariamente a quanto affermato da te prima, gli specchi servono a dare l’impressione di trovarsi in un ambiente più ampio. Per chi soffre di claustrofobia come te.»

«Io non soffro di claustofobia,» obbiettò lui. «Sono iperattivo. E il solo pensiero di restare bloccato qui dentro senza far niente mi agita.»

Annabeth sospirò. «Perfetto. Un ragazzo iperattivo e una ragazza che soffre di disturbo ossessivo-compulsivo bloccati in ascensore. Non poteva andare meglio.»

Il ragazzo sorrise. «Potremmo trasformarla in una di quelle barzellette sporche: cosa ci fa una bella gnocca biond—»

«Non terminare quella frase se non ti vuoi ritrovare con un tacco tredici nell’esofago!»

Lui alzò le mani. «Okay, okay, non sparare.»

Restarono in silenzio e immobili per qualche minuto (tre e mezzo), prima che il suo compagno di sventure ricominciasse ad agitarsi (continuava a scompigliarsi la zazzera) (Annabeth aveva voglia di passargli le dita tra i capelli e pettinarli) .

«Okay, senti,» disse lui. «Siamo bloccati qui finché il nostro stupido portiere non si decide a fare il suo lavoro. Tanto vale trovare qualcosa da fare per passare il tempo.»

«Se stai per proporre di fare qualcosa di sconcio, che gli dei ti aiutino, perché—»

«Non è quello che stavo per dire! Volevo solo proporre... un gioco.»

«Un gioco? E che tipo di gioco, sentiamo» acconsentì Annabeth.

«La morra?»

Annabeth alzò gli occhi al cielo.

«Okay, allora che ne dici di... Lo so! Ognuno di noi dice qualcosa di se stesso poi fa una domanda all'altro. Comincio io. Il mio nome è Percy Jackson. Qual è il tuo?»

Era un gioco stupido, ma su una cosa l'idiota aveva ragione: dovevano distrarsi se non volevano soccombere alle loro manie. La mente di Annabeth si stava già soffermando sui pensieri più assurdi e casuali (come le scritte sulle pareti dell'ascensore) (e gli occhi di Percy) (e i suoi capelli tutti in disordine) (e la voglia che aveva di lisciargli la t-shirt sgualcita). «Il mio nome è Annabeth Chase,» rispose a malincuore. «Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ti sei fatto la barba?» (E posso passarci la mano sopra?)

Percy si grattò la guancia, producendo un suono graffiante. «Un paio di giorni, credo. Ti sei agghindata così per un appuntamento con un ragazzo?»

Annabeth sbuffò. «No. Ho un colloquio di lavoro con la miglior azienda di architettura di New York.» Sospirò e batté il tacco tre volte a terra. «O meglio ce l’avevo. Circa trentatré minuti fa.»

Percy fischiò. «Che sfiga!» esclamò, sedendosi a terra.

Annabeth lo imitò. «Già. Cosa fai nella vita?»

«Mangio. Dormo. Resto bloccato in ascensori con bionde che indossano tacchi killer… Okay, faccio il serio.» aggiunse in risposta all’occhiataccia della ragazza. «Sono un ammaestratore di delfini.»

«Ma fammi il piacere!»

«È la verità!»

«Tu saresti un ammaestratore di delfini? Tu… con quest’aria da “sono il fratello moro e scemo di Kurt Cobain”?» domandò scettica, mentre si toglieva le scarpe per massaggiarsi i piedi (però, erano davvero dei tacchi killer, questi).

«Ehi! Ora solo perché ai delfini non importa un pesce rosso se indosso lo smoking o una toga non vuol dire che non mi stanno a sentire.»

Annabeth era sbalordita. «Sei davvero un ammaestratore di delfini.»

«Vacci piano, ragazza, se mi fai ancora un altro complimento, potrei sciogliermi dall’imbarazzo.»

«Scusa. È solo che… wow!»

«Sì, lo so, me lo dicono in molte che sono wow.»

«Sta’ zitto!» Lo colpì piano sul braccio con il tacco della scarpa e rise (okay, forse era un po’ troppo pieno di sé, ma non era male, il tipo).

«Tocca a me,» disse Percy, strofinandosi le mani come se si stesse preparando a vendicarsi con lei per aver dubitato delle sue parole. Annabeth si preparò alla domanda imbarazzante (un po’ lo meritava in fondo, no?). «Dimmi, Annabeth: sei bionda naturale o tinta?»

Questa volta il tacco gli colpì la fronte.


Senza che se ne rendessero conto, passarono un’ora seduti in ascensore a scambiarsi domande e a prendersi in giro.

Annabeth non sapeva perché gli avesse raccontato che il fattore scatenante delle sue manie compulsive era stato l’abbandono di sua madre, o che la morte di Thalia e il tradimento di Luke l’avessero trasformata in una persona possessiva, che non riusciva ad avere una relazione che durasse più di un mese perché tendeva a voler avere il controllo su tutto. Ma era così facile parlare con Percy quando la guardava con quel sorriso storto e faceva battute nei momenti più inopportuni, come se quella che stesse raccontando, fosse la storia di un personaggio fittizio, e non eventi che l’avevano plasmata per sempre in quello che era ora. Allo stesso tempo, lo sguardo di Percy non vacillava mai, dandole l’impressione che stesse immagazzinando tutto nella mente e prendendo tutto con la giusta serietà.

Dal canto suo, Percy le disse che, oltre a soffrire da deficit dell’attenzione e iperattività, fosse anche dislessico, cosa che, unita al suo odio profondo verso i bulli, gli avevano creato non poche grane a scuola. Le raccontò di sua madre, con un affetto così disinibito da riuscire quasi a commuoverla, delle loro difficoltà economiche, del padre quasi sempre assente, e ammise che, nonostante il rancore, il suo amore per le creature marine l’avesse ereditato da lui. Le parlò della Signora O’Leary e Blackjack, i suoi delfini, e di quanto amassero le aringhe.

Parlarono fino a seccarsi la gola e risero fino ad avere le lacrime agli occhi, e solo molto tempo dopo Annabeth avrebbe realizzato che Percy aveva smesso di agitarsi e lei di contare i minuti.

«Okay,» disse. «Tocca a me.» Respirò profondamente. «Hai mai baciato una bionda con un tacco da killer con cui sei rimasto bloccato in ascensore?»

Gli occhi di Percy, se possibile, diventarono ancora più intensi. «No, ma mi piacerebbe provarlo. Tu?»

«No,» sussurrò. «Ma anche a me piacerebbe provare.»

Si sporsero contemporaneamente l’uno verso l’altro, gli occhi semichiusi, e proprio quando le loro bocche stavano per incontrarsi…

TUMP! TUMP! TUMP!

(Ma che diavolo…!)

«Ehi, voi,» disse una voce lontana. «Tutto bene lì dentro?»

«Tempismo perfetto» commentò Percy.

L’ascensore scese di mezzo piano e le porte si aprirono. Dall’altra parte, comparve il portiere con un libro dalla copertina nera con un uccello infuocato.

«Perché non avete suonato l’allarme? C’è altre gente che ha bisogno di usare l’ascensore, sapete?» borbottò.

Annabeth era pronta a rispondergli a tono, ma Percy l’anticipò. «È interessante?» chiese, con un cenno verso il libro.

«Sì. Muoiono un sacco di persone.»

«Allegro...»

Annabeth alzò gli occhi al cielo. «Andiamo.» Agguantò il braccio di Percy e lo trascinò via. Arrivati alla tromba delle scale, però, si bloccò. Il colloquio era andato ormai e non sapeva che piani avesse Percy (né se potessero includere lei).

Ancora una volta, lui anticipò la domanda. «Ti va di conoscere la Signora O’Leary e Blackjack?»

«Tipo… ora? Conciata così?»

Lui scrollò le spalle. «Perché no?»

«Già,» concordò lei, prendendogli la mano. «Perché no.»


 




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