Silenzio Apparente
Silenzio Apparente
Voci. Sussurri. Mormorii. Bisbigli.
Ben ci conviveva da anni, da quando era solo un bimbo. Un bambino
innocente, come sono tutti a quell’età. Anche se, dopo la
prima crisi, come gli avevano detto di chiamarle, non lo era
più. E come poteva essere altrimenti? Vedeva la morte, sentiva
la morte, respirava la morte, toccava la morte, viveva
la morte.
Da quella volta nel giardino della scuola, Ben era cambiato nel
profondo. La sua intera anima era stata sconvolta, distrutta, straziata
da quell’ondata di gelo e dolore né fisico né
psicologico che l’aveva travolto. Aveva schiuso le labbra,
più sorpreso che spaventato da quell’inaspettata
sensazione di vuoto. Poi qualcuno o qualcosa gli aveva risucchiato
l’aria dai polmoni, l’aveva costretto ad urlare, urlare
finché i vetri delle finestre non esplosero in migliaia di
schegge affilate, urlare finché la gola non gli andò a
fuoco, urlare finché credette di morire lui stesso. Invece no.
Non era la sua, di vita, in pericolo. Lo era stata quella di sua nonna,
Marlene, che si era spenta per sempre con la stessa facilità con
cui una folata di vento o un respiro possono spengere la flebile fiamma
di una candela.
Ben sua nonna non la conosceva bene. Anche perché, nella sua
semplice mente di bambino, l’aveva etichettata come
“vecchia bisbetica”. Di lei ricordava l’odore di
mentolo e pasticche per la tosse, i tailleur scuri e le camicette di
seta, gli occhi azzurri che lo seguivano in ogni suo movimento, la voce
aspra e arrocchita da anni di fumo che lo rimproverava quando faceva
cadere uno dei tanti e preziosi soprammobili del castello.
Al funerale rimase in piedi accanto alla madre, le piccole mani unite,
la testa china, la camicia che pizzicava, le scarpe che stringevano e
le labbra tese in una linea sottile. Una rossa linea che nascondeva un
segreto: Ben aveva urlato, Ben aveva capito, Ben sapeva che poco dopo
la sua crisi qualcuno sarebbe morto. Ma nessuno della sua famiglia
doveva saperlo. O almeno questo fu ciò che decise, da piccolo
bimbo di sei anni un po’ cocciuto qual era.
La maestra la pensava diversamente. Infatti, il giorno dopo il funerale
convocò i suoi genitori e raccontò loro quello che era
successo nel giardino. Ben ricordava con chiarezza impressionante la
madre che si copriva la bocca con le mani, le lacrime che le rigavano
le guance, i singhiozzi soffocati che le scuotevano il petto.
Il padre s’irrigidì, come faceva sempre quando era nervoso
e strinse le labbra, abitudine che aveva passato al figlio.
Confortò la moglie passandole un braccio intorno alle spalle e
sussurrandole parole dolci e rassicuranti.
Ben ne aveva sentita qualcuna, seduto sulla panca davanti
all’ufficio della segreteria dove si era tenuto il colloquio.
Aveva le mani strette in grembo, la fronte aggrottata, alcune ciocche
di capelli castani che gli andavano sugli occhi.
«Andrà tutto bene, Louise, credimi. Troveremo una
cura.» Aveva mormorato suo padre.
Ben si era rabbuiato sentendo quel mormorio, quel sussurro, quel
bisbiglio. Li odiava, odiava quando le persone non parlavano ad alta
voce perché il brusio nella sua testa copriva le parole che
venivano da fuori, dal mondo esterno, dal mondo vivo. E lui si sentiva tagliato fuori. Da tutto e tutti.
Cominciarono, per Ben, lunghi anni di terapie, visite, ricoveri,
pastiglie, intrugli vari e tanta, tanta solitudine. Passava da uno
psicologo all’altro, da un ospedale all’altro e il tempo
per gli amici, la scuola, le relazioni umane al difuori della famiglia
scomparve.
I suoi genitori lo facevano studiare con un insegnate privato, il
signor Gessen, un uomo dalle sopracciglia folte, labbra sempre tirate
in una linea dura, zigomi affilati e occhiali dalla montatura sottile. Dentro di
sé Ben lo aveva definito con una sola parola: severo. E aveva
deciso che anche il suo viso lo era, così come i suoi completi
gessati e la valigetta di pelle scura e consumata che si portava sempre
dietro.
Ben lo vedeva nelle pause tra i vari tentativi dei suoi genitori di
trovare una cura a quello strano disturbo che il loro bambino si
portava dietro come una condanna. Anche perché non aveva fatto
niente per meritarsela: semplicemente Ben sentiva,
così come si sente il cambio di temperatura quando si entra in
una stanza calda dopo essere stati fuori in un pomeriggio
d’inverno, la morte.
Poteva percepire se qualcuno stava per morire. Se erano membri della
sua famiglia, era come se qualcuno lo scuotesse dall’interno
stordendolo e facendolo urlare come se potesse bastare a mettere fine a
tutto quello. Ma non bastava mai.
Le sue urla erano così acute che a volte invece che sentirle
così come si sente un qualunque rumore, se ne avvertiva solo
l’onda d’urto, solo un qualcosa che ti lasciava una
sensazione di gelo dentro, come se non fossi più in grado di
scaldarti, di provare qualcosa, di sentirti vivo.
Ben gridava anche quando era qualcuno che non conosceva a morire: se
erano abbastanza vicini perché potesse sentirlo, urlava e i
vetri si frantumavano, le persone si coprivano le orecchie con le mani,
i bambini scoppiavano a piangere. E Ben si ritrovava svuotato, esausto,
come se quel grido l’avesse privata di ogni traccia
d’energia. Spesso crollava in ginocchio con il respiro affannoso
e la mente disordinata. E ci volevano ore, giorni prima che tornasse in
ordine.
Gli psicologi lo definivano un caso complesso, una rarità. A
volte gli dicevano che era stato lui a crearlo, era lui che diceva a se
stesso di urlare perché una qualche parte del suo cervello aveva
un problema. Con lui non scendevano nei dettagli ma Ben li aveva
sentiti dire ai suoi genitori che dovevano sottoporlo a terapie
d’urto. A Ben quelle parole non piacevano, però era sempre
stato un bambino ubbidiente e avrebbe fatto di tutto per far felice sua
madre, per vederla sorridere, per sentirle dire: «Bravo Ben, sono
tanto orgogliosa di te.»
Molto presto, Ben scoprì che “terapia d’urto”
era solo un modo carino di definire l’elettroshock. E non gli ci
volle molto per decidere che non gli piaceva proprio per niente.
Cominciò ad odiare i dottori che lo facevano sdraiare sul
lettino, che stringevano le cinghie sui suoi polsi e sulle sue
caviglie, che gli collegavano tutti quegli elettrodi, che gli dicevano
di stare calmo e rilassarsi. Li guardava sempre male e cercava di farlo
il più a lungo possibile, almeno fino a quando la corrente non
si diramava nel suo copro con gelida velocità e lo lasciva senza
fiato. Però non urlava. Durante l’elettroshock non aveva
mai urlato. Lo faceva per sua madre, non voleva vederla soffrire, non
voleva che stesse male. Eppure la vedeva piangere lo stesso, Louise
piangeva, dimagriva, non mangiava, aveva sempre freddo, non riusciva
più a fargli da madre. E quando lui si risvegliava dopo aver
perso i sensi quando staccavano, finalmente, la corrente
dell’elettroshock, lei non era abbastanza forte da
tranquillizzarlo, da rassicurarlo, da dirgli che stava andando tutto
bene, che sarebbe guarito.
Suo malgrado, Ben si scoprì più freddo nei suoi
confronti: quale madre non riesce a stare al fianco del figlio quando
lui ha più bisogno? Se prima s’infilava nel letto tra
Louise e il padre in cerca di un po’ di calore, un po’ di
contatto umano, ora preferiva raggomitolarsi nel suo letto con il
cuscino stretto al petto e la testa piena di sussurri, voci, bisbigli,
mormorii che lo accompagnavano fino a quando non si addormentava.
Spesso con le guance bagnate.
Raggiunta l’adolescenza, i medici decisero di interrompere la
terapia. Ben ne fu felice, o meglio, lo sarebbe stato se non fosse
diventato apatico, chiuso in se stesso come in un guscio protettivo ma
fragile. Aveva sviluppato una fobia per la corrente elettrica, cosa che
non lo aiutava di certo a sentirsi di nuovo normale né a
superare il trauma continuo che viveva ogni giorno.
Sua madre lo lasciò pochi mesi dopo la fine della terapia.
Quello fu probabilmente l’urlo peggiore, quello più
straziante e devastante che uscì dalle sue labbra. Quando
finalmente cessò, Ben crollò privo di sensi. Suo padre lo
trovò rannicchiato su se stesso sul pavimento di fredda pietra
del castello. Un minuto dopo, giusto in tempo perché Ben
riprendesse conoscenza, una domestica entrò di corsa nella
stanza dicendo che Louise era stata trovata morta nella sua stanza. Si
era suicidata, si era tagliata le vene perché non sopportava
ciò che aveva permesso ai medici di fare al suo unico figlio, al
suo piccolo Ben. Proprio Ben che in quel momento aveva più
bisogno di lei, proprio Ben che non aveva più appigli, proprio
Ben che era ad un passo dal precipitare nel baratro. Come Marlene. Come
lo sconosciuto all’ospedale. Come la zia Julia. Come Louise.
Kristen era giovane, curiosa di natura, gentile e sensibile, tanto che
il padre l’aveva soprannominata “fiorellino”
riferendosi al suo essere fragile. Come sua madre, Isabelle, morta
quando Kristen era piccola per colpa della malattia che non perdona,
della malattia che lascia tanti figli orfani, tante donne e tanti
uomini vedovi, ma soprattutto tanti cuori distrutti.
Kristen però era forte e nonostante la corporatura minuta e
l’indole buona, a volte troppo, si era ripresa e aveva trascinato
su con sé anche il padre, salvandolo da un oblio di alcool, fumo
e cupa disperazione. Aveva preso la situazione in mano quando, una
notte, suo padre era tornato a casa completamente ubriaco e le aveva
toccato il viso e le aveva detto: «Isabelle… Credevo fossi
morta.»
In quel momento, Kristen aveva deciso che non avrebbe lasciato che la
sua vita andasse a rotoli, decise che avrebbe lottato per sé e
per il padre, decise che si sarebbe rimessa in piedi. E lo fece.
Fu proprio quello a farla diventare donna prima del tempo: a soli
diciassette anni Kristen cucinava, stirava, lavava, faceva la spesa, si
occupava dei conti e delle bollette. Il padre le diceva sempre di
lasciar fare a lui perché era lui il genitore, ma lei insisteva
e lui cedeva sempre. Così come aveva fatto alla morte della
moglie.
Kristen lo odiava un po’ per questo: l’aveva lasciata sola
ad affrontare una cosa più grande di lei, l’aveva lasciata
da sola a regolare con il Diavolo i patti che lui stesso aveva stretto,
l’aveva lasciata sola e adesso non poteva biasimarla se lei aveva
perso la stima nei suoi confronti, la sua fiducia.
La curiosità era probabilmente il suo più grande pregio e
il suo più grande difetto. La spingeva ad avventurarsi
praticamente ovunque e intraprendere ogni sorta di impresa. Si diceva
di farlo solo per passare il tempo, perché amava vedere qualcosa
di nuovo il più spesso possibile, ma nel profondo della sua
anima sapeva che lo faceva per fuggire dal peso delle
responsabilità, del dolore, del rancore.
Fu proprio seguendo questa sua indole curiosa che accompagnò il
padre al castello dove lavorava come giardiniere. Era stata lei a
trovargli quell’impiego, era stata lei a portare il suo
curriculum al datore di lavoro, era lei che lo svegliava tutte le
mattine perché riuscisse ad arrivare in orario.
Quando Kristen si trovò davanti quell’imponente
costruzione di pietra grigia, rimase incantata ad osservarla,
immaginando principesse, principi, draghi, streghe e sortilegi,
perché in fondo in lei c’era ancora una parte di lei che
si rifiutava di crescere, una
parte di lei che non voleva abbandonare un’infanzia incompleta,
una parte di lei che voleva ancora vivere senza preoccupazioni che
fossero più grandi di un taglietto fatto con la carta o della
perdita di un elastico per capelli.
Varcò la soglia col padre. All’ingresso, ad accoglierli,
c’era un uomo alto, pallido, con folti capelli scuri pettinati
all’indietro e un’espressione seria e impassibile. Le sue
labbra si storsero in quello che voleva essere un sorriso quando
strinse la mano a suo padre e poi a lei.
«Buongiorno Karl, sempre puntuale, bene. E questa bella signorina
chi è?» Chiese l’uomo studiandola con profondi occhi
neri.
Kristen accennò un sorriso, anche se si sentì accapponare
la pelle. «Io sono Kristen, la figlia di Karl.»
L’uomo fece un cenno col capo. «È un piacere
conoscerti, tuo padre parla spesso di te.»
«Spero non le dispiaccia se l’ho portata, ma non volevo
lasciarla in casa da sola…» Disse Karl con voce bassa,
quasi provasse un timore reverenziale verso quell’uomo alto,
pallido e nello stesso tempo molto, molto cupo.
«Ma figurati.» Il padrone di casa si rivolse alla ragazza,
che non poté trattenersi dal rabbrividire. «Sentiti libera
di girare per il castello. Va pure dove preferisci, ogni stanza
è a tua disposizione. Ti chiedo solo di non provare ad entrare
in quelle chiuse.»
Kristen annuì vivamente, come spaventata dalla possibile
reazione dell’uomo di fronte ad un suo rifiuto. «Certo. La
ringrazio.»
Il padrone di casa le fece un altro di quei suoi sorrisi storti prima
di andarsene, le spalle rigide, la testa china, i passi che quasi non
si sentivano sulla pietra fredda del pavimento. Kristen non sapeva
perché, ma provava pena per quell’uomo, come se potesse
percepire tutto il dolore che aveva provato. E che probabilmente
provava ancora.
Voci. Quelle dannate voci. Ben non aveva un momento di silenzio. Mai.
Neanche di notte. Le sentiva, nei sogni, negli incubi, nel vuoto nero
del buio. A volte erano una compagnia gradita nelle lunghe ore di
solitudine che passava nel castello. Altre erano come coltelli che gli
scavavo nel cervello ferite dolorose al punto che temeva di impazzire.
In realtà credeva già di esserlo, ma non fino in fondo.
Passava le sue giornate a guardare il paesaggio fuori dalla finestra,
seduto sul davanzale interno, nella sua stanza. La sua vita era fatta di
silenzio, almeno all’esterno, perché dentro di sé
era pieno di voci, sussurri, mormorii, bisbigli. Continuamente. La sua
mente non riusciva mai a stare zitta. O forse non era lei, forse era
qualcosa che ne aveva preso possesso. Forse proprio quel qualcosa che
lo teneva così legato alla morte. Quel qualcosa che lo faceva
urlare quando la Signora Nera si prendeva un’anima da aggiungere
alla sua collezione.
Ogni volta che provava a concentrarsi su una voce in particolare per
capire cosa stava dicendo questa spariva, lasciando dietro di sé
solo una sensazione di vuoto e un retrogusto amaro e metallico che Ben
aveva imparato a conoscere fin troppo bene: era lo stesso che sentiva
ogni volta che riusciva smettere di urlare, quando la sua gola bruciava
e si sentiva svuotato, devastato.
Ben non era mai stato vanitoso, non gli era mai importato niente di
come appariva, di come lo vedevano gli altri. Per questo e
perché non riusciva a concentrarsi sugli abbinamenti -o forse
non voleva farlo- si vestiva sempre nello stesso modo: jeans consumati
e scoloriti e magliette semplici. Aggiungeva una felpa quando sentiva
freddo, ma doveva arrivare a tremare per accorgersene.
Si strinse le ginocchia al petto, come a voler tenere insieme i pezzi
di sé, della sua anima straziata e della sua mente disorientata
e confusa. Non parlava mai, erano anni che aveva smesso di usare le
corde vocali. Neanche i domestici sentivano la sua voce da tanto, troppo
tempo. Comunicava con piccoli cenni anche con suo padre.
Si era chiuso in un mondo di silenzio apparente e voci striscianti. Era
un isolamento di cui quasi non si era accorto. Così come non si
accorgeva di quasi niente di quello che lo circondava.
Proprio per questo sussultò quando sentì qualcuno schiarirsi la gola. Era vicino. Troppo vicino.
Si voltò di scatto e vide una ragazza che aveva più o
meno la sua età, con lunghi capelli castani e profondi occhi
marroni. Lo guardava con aria incuriosita e lui per poco non si
strozzò con la sua stessa saliva. Chi era quella ragazza?
Perché era lì? Era una visione? Ben non lo sapeva, a
dirla tutta sapeva poco o nulla del mondo esterno, ma era sicuro che
quella giovane donna fosse decisamente fuori posto lì, nella sua
stanza.
Kristen aveva vagato a lungo nei corridoi di pietra fredda del
castello, abbastanza a lungo da decidere che quel posto le piaceva,
molto. Ci avrebbe vissuto volentieri, soprattutto dopo aver visto i
meravigliosi giardini che lo circondavano. Non aveva incontrato
nessuno, a parte i domestici, ma loro erano di poca compagnia, se ne
rese conto in fretta.
Le sembrava strano che in un castello così grande vivesse solo un uomo, senza moglie, senza figli. Solo. Come lei.
Si strinse nella felpa e proseguì, rabbrividendo un po’
per il vento che entrava dalle finestre nel corridoio un po’ per
il freddo che ispirava il padrone di casa: non era nei dintorni, ma lei
aveva impressa nella mente l’immagine dei suoi occhi neri
così bui da sembrare pozzi senza fondo.
Passò davanti ad una porta socchiusa e si fermò: in quel
corridoio tutte le stanze erano chiuse e lei sapeva di non dover
neanche provare ad aprirle. Eppure quell’unica camera aperta
esercitava su di lei un grande fascino. Si avvicinò con
titubanza ed alzò una mano sulla maniglia. Fece un respiro
profondo prima di aprirla. Quello che si ritrovò davanti la
lasciò senza parole, non tanto per la bellezza della stanza, che
a dirla tutta era decisamente semplice, minimalista, ma perché
non si aspettava di trovarci un ragazzo.
Era seduto sul davanzale interno della finestra, rannicchiato su se
stesso come se avesse paura di qualcosa. Aveva i capelli castani molto
scompigliati. Alcune ciocche gli andavano sugli occhi, ma lui non
sembrava curarsene.
La ragazza si schiarì la gola per richiamare la sua attenzione.
Lui si voltò di scatto verso di lei trattenendo il respiro. I
suoi grandi occhi da cerbiatto con le iridi di un azzurro profondo
erano fissi su Kristen e lei pensò che fosse lo sguardo che un
animale in trappola rivolge al proprio cacciatore.
«Ehm… Ciao. Io sono Kristen, la figlia del giardiniere.» Disse timidamente.
Il ragazzo non fece niente, rimase lì a fissarla come se fosse
stata chissà quale mostro. Kristen deglutì e provò
a sorridere.
«Tu sei il figlio del padrone di casa… giusto?» Chi
altro avrebbe potuto essere? Fino a poco prima credeva che l’uomo
che l’aveva accolta all’ingresso fosse completamente solo
ma quel ragazzo gli assomigliava, aveva gli stessi lineamenti sottili,
la stessa pelle pallida, così chiara da sembrare bianca.
Lui annuì appena stringendosi di più le ginocchia al
petto.
«Oh… Bene… C-come ti chiami?» Domandò
Kristen.
Il ragazzo strinse le labbra prima di sillabare “Ben” senza
emettere alcun suono. Kristen lo considerò un po’ strano,
ma non commentò: non le sembrava gentile. «È un
piacere conoscerti.» Aggiunse lei.
Lui inclinò appena la testa di lato e la studiò per
qualche secondo. Kristen si sentì quasi messa a nudo di fronte a
quella figura magra e spaurita, come se avesse potuto vedere i suoi
demoni, i suoi pensieri, i suoi rancori per il padre. D’istinto
si strinse le braccia al petto.
Il ragazzo schiuse appena le labbra come incuriosito e lei provò
tenerezza vedendolo così ingenuo, così interessato,
così stranito. Sorrise d’istinto mentre lui drizzò
appena la testa, quasi sorpreso.
«Posso… Ehm, posso entrare?» Chiese Kristen
stupendosi del suo stesso coraggio.
Le labbra del ragazzo si serrarono e fece per scuotere la testa, lo
sguardo cupo, la fronte aggrottata. Poi sembrò ripensarci e
annuì, un movimento appena accennato. Kristen sorrise appena e
varcò la soglia. Lui s’irrigidì e deglutì
con fare nervoso: quanto tempo era passato dall’ultima volta che
qualcuno era entrato in quella stanza? Qualcuno che non fosse una
domestica?
«Quanti anni hai Ben?» Volle sapere Kristen osservandolo.
Il ragazzo esitò prima di mimare un “diciassette”
con le labbra. Kristen sorrise di più.
«Anche io, sai?» Replicò.
Lui assunse di nuovo quell’espressione incuriosita e schiuse
appena la bocca: sembrava voler dire qualcosa, però si
tratteneva, per un qualche motivo che la ragazza non si spiegava.
Dovette ammettere con se stessa che le sarebbe piaciuto sentire la sua
voce. Chissà se era roca, profonda, leggera, flebile…
Kristen tornò tutti i giorni al castello per settimane intere. E
ogni giorno, puntuale come un orologio, saliva nella camera di Ben e
gli parlava per ore raccontandogli di tutto: di sua madre, dei rancori
per suo padre, della scuola, dei lavori che faceva in casa, degli
amici… Era come se Ben fosse stato il suo personale psicologo
capitatole davanti per caso proprio nel momento giusto, quando temeva
di aver accumulato troppa tensione per riuscire ad andare avanti, a
fingere con suo padre che stesse andando tutto bene, che lei fosse
ancora forte e intoccabile.
Anche se Ben non diceva assolutamente niente, Kristen sapeva che la
ascoltava, la capiva, e soprattutto non la giudicava né la
allontanava. Le sorrideva quando la vedeva entrare, la stava a sentire
con aria attenta, si stringeva le ginocchia al petto quando parlava di
qualcosa di doloroso, la salutava con un altro timido sorriso quando se
ne andava. E Kristen si avvicinava a lui ogni giorno di più, sia
fisicamente sia sentimentalmente.
Ogni volta si sedeva sul pavimento un po’ meno lontana, sempre
meno, sempre meno… Finché un giorno lui non le fece cenno
di accomodarsi sul davanzale interno della finestra accanto a sé. Quando lei lo fece,
s’irrigidì per un attimo, ma poi si rilassò e un
angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso.
Parlarono per ore e ore. O meglio, lei parlò. Ben rimase ad
ascoltarla in perfetto silenzio, sollevando le sopracciglia di tanto in
tanto e osservandola con quei suoi occhi così azzurri.
Kristen. Era bella, pensava Ben ogni volta che la vedeva entrare, ogni
volta che gli sorrideva, ogni volta che parlava. Era bella con le mani
screpolate e arrossate dai detersivi. Era bella con i vestiti
spiegazzati. Era bella con i capelli disordinati. Era bella con le
lentiggini sul naso. E Ben amava starla a guardare. Avrebbe potuto
farlo per ore, anche perché quando c’era lei, le voci
nella sua testa sembravano calmarsi, diventavano meno rumorose, meno
invadenti.
Aveva deciso che era una compagnia piacevole e che poteva entrare nella
sua stanza quando voleva, non l’avrebbe cacciata. Mai.
L’unica cosa che temeva era avere una crisi davanti a lei: era
terrorizzato all’idea di vederla trasalire, di vederla correre
via da lui lasciandolo di nuovo in balia delle sue dannate voci.
«Ho sentito dire dai domestici che passi molto tempo col figlio
del mio datore di lavoro…» Le disse una mattina sua padre
mentre Kristen preparava la colazione.
Lei bloccò di colpo e si voltò verso di lui con una
strana sensazione di freddo nel petto. «È vero.»
Karl si passò una mano sul viso. «Io non voglio che tu lo faccia Kristen.»
«Perché no? Ben è un bravo ragazzo e sto bene con
lui.» Rispose lei poggiando la tazza che aveva in mano sul
tavolo.
«Lo sai cosa dicono di lui, giù in città?» Le chiese il padre con tono stanco.
«No, non lo so e non mi interessa.» La sensazione di gelo si amplificò.
«Dicono che sia posseduto, che abbia contatti col Demonio in
persona.» Rivelò Karl.
Kristen scosse la testa. «Ben è un ragazzo perfettamente normale. Non ha niente che non va.»
In realtà Ben aveva ben poco di normale: non parlava mai, non
mangiava mai, era capace di passare ore e ore seduto sul davanzale a
guardare il paesaggio.
Il padre la guardo con aria preoccupata e tesa. «Io ti voglio
bene, Kristen, e voglio che tu sia felice. Ci sono tanti ragazzi nella
tua scuola, perché non esci con loro? Perché perdi tempo
con un povero pazzo come lui?»
Kristen strinse i pungi così forte da conficcarsi le unghie nei
palmi. «Ben non è pazzo papà, è un bravo
ragazzo e io gli voglio bene. Non smetterò di vederlo.»
Lui irrigidì le spalle. «Sono tuo padre e sono io a
decidere cosa è giusto e cosa no per te. Ben non è
assolutamente giusto.»
«Non m’importa di cosa pensi tu. Mi sono affezionata a Ben
e voglio continuare a stare con lui, con o senza il tuo
permesso.» Insistette Kristen con la voce resa tremante dalla
rabbia.
Karl si alzò in piedi facendo rovesciare la sedia. «No!
Smetterai di vederlo! Tu sei mia figlia, io dico cosa devi fare, non
tu. E non lascerò che ti rovini con uno come lui. È pazzo
Kristen. Sua madre si è suicidata perché non sopportava
di vederlo, non sopportava il suo unico figlio. Suo padre l’ha
chiuso in quel castello perché non facesse del male a nessuno.
È pericoloso e tu non lo vedrai più.»
«Chi ti da il diritto di dirmi cosa fare? Sarai anche mio padre,
ma da quando è morta la mamma non sei più lo stesso. Se
non ci fossi io saresti ad ubriacarti in chissà quale bar. Sono
io che ti ho trovato l’impiego al castello, sono io che ti
sveglio tutte le mattine, sono io che pulisco e cucino ogni giorno. E
sono grande abbastanza per decidere con chi uscire. Quindi smettila di
insistere perché non ti ascolterò, continuerò a
vedere Ben anche se non lo vorrai.» Sbottò Kristen
sentendosi gli occhi lucidi.
Karl impallidì di colpo, come se qualcuno gli avesse pugnalato
il petto, e rimase a guardare la sua unica figlia che se ne andava
grandi passi dalla cucina sbattendosi la porta alle spalle.
Una mattina Kristen entrò nella sua stanza con una borsa di
stoffa a tracolla. Ben inclinò la testa di lato incuriosito e
anche un pochino teso.
Kristen posò la borsa a terra e rimase a distanza da lui, gesto
che lo innervosì ancor di più: aveva paura di lui? Lo
temeva? Ben non era sicuro di riuscire a sopportare una cosa del
genere, lei era l’unica cosa bella che aveva.
La ragazza aveva lo sguardo fisso sul pavimento, le braccia strette al
petto, le spalle tese. «Io so cosa sei Ben.» La sua voce
era poco più di un sussurro.
Ben si strinse ancor di più le ginocchia al petto e, per
l’ennesima volta, desiderò scomparire. Kristen sapeva
cos’era. Lei sapeva quale strana e orribile creatura si
nascondeva dentro quel copro magro e pallido.
«Sei un Farshee.» La pronuncia di Kristen si fece un
po’ incerta sull’ultima parola ma Ben quasi non lo
notò: quella ragazza così gentile, così cordiale,
così intraprendente poteva avergli appena dato la risposta ai
dubbi e alle domande che lo perseguitavano da una vita intera.
Farshee. Non suonava come una
malattia. E probabilmente non lo era. Quella era una parola che Kristen
aveva usato per definire Ben stesso, non qualcosa che aveva. Questo
voleva dire che lui non era umano, non era come suo padre, come sua
madre, come le persone che sentiva morire. No. Lui era
qualcos’altro. Qualcosa di diverso, di strano, di sbagliato
forse.
Farshee. Sembrava piuttosto innocuo però. Forse Ben non era un mostro come aveva sempre
creduto di essere, forse era solo un po’ diverso, solo un
po’ più… complesso.
«Io non voglio farti del male Ben, okay? Io… voglio
aiutarti.» Kristen si chinò e prese dei libri dalla borsa.
«Sono stata in biblioteca e ho cercato delle informazioni sul
soprannaturale. Mi ha insospettita il fatto che tu non mangi mai,
eppure non sembri stare troppo male, e il fatto che non parli come se
non avessi voce. E… mio padre ha detto che alcuni ti credono
posseduto dal Diavolo e che questo è il motivo per cui sei stato
rinchiuso qui. Ma io so che non è vero. Ho trovato delle
informazioni interessanti riguardo alle Banshee e continuando a leggere
ho scoperto che esiste anche la versione maschile. Il Farshee appunto.
Conosci le Banshee, Ben? Sono donne che urlano quando muore qualcuno.
Sentono che sta per succedere e appena arriva la morte…
gridano.» Mentre parlava, si avvicinava al ragazzo con passi
lenti, misurati come se avesse avuto a che fare con un animale che
poteva spaventarsi e quindi fuggire da un momento all’altro.
Si fermò di fronte a Ben e aspettò che fosse lui a dirle
cosa fare: non voleva forzarlo, non voleva obbligarlo a fare niente. Non voleva perderlo.
Lui allungò una mano e sfiorò la pietra su cui era
seduto, gesto che aveva ripetuto da qualche mattina a quella parte per
invitarla a sedersi e lasciar uscire le parole e la rabbia repressa.
Kristen sorrise appena e prese posto accanto a lui, i libri sulle
gambe, lo sguardo basso, le labbra strette. «Tu… senti
delle voci, vero? Voci continue, ininterrotte… Solo nella tua
testa, giusto?»
Ben spalancò gli occhi e schiuse le labbra: nessun medico gli
aveva mai chiesto una cosa del genere, tutti credevano che lui sentisse
le voci da fuori, che la sua testa fosse solo un gran caos che non
riusciva ad analizzare le informazioni come faceva una mente normale.
Kristen invece lo aveva capito, lo aveva ascoltato, aveva ascoltato
quel suo silenzio così apparente e falso. Aveva fatto quello che
molti consideravano inutile, stupido. E poi aveva passato del tempo in
biblioteca, da sola, per cercare quei libri, per leggerli, per trovare
le informazioni giuste. Giusto. Essere giusto.
Riuscì ad annuire, una sola volta, senza staccare gli occhi
dalla ragazza che gli stava accanto e che stava concentrando buona
parte delle sue attenzioni solo su di lui.
«E quando qualcuno è sul punto di morire tu… Ecco,
tu lo senti e urli, dico bene?» Continuò con voce incerta
guardandolo di sottecchi.
Ben distolse lo sguardo e fece cenno di sì con la testa.
Si mordicchiò il labbro inferiore, abitudine che aveva preso
proprio da Kristen: lei lo faceva quando parlava di qualcosa di
sbagliato, qualcosa che doveva essere stato fatto in un altro modo. Perché lui doveva essere stato fatto in un altro modo.
«Ma non è una cosa che controlli, giusto Ben? Succede e
basta, tu ti ritrovi a farlo senza averlo precedentemente scelto,
mmh?» Aggiunse Kristen.
Lui sospirò appoggiando la schiena al muro e annuendo. I jeans
che indossava avevano un buco all’altezza del ginocchio da cui si
poteva vedere una piccola porzione di pelle pallida, candida come la
neve che spesso Ben vedeva dalla finestra della sua stanza, nei
lunghi pomeriggi invernali passati in solitudine perenne. Prima di lei.
«Ho ragione allora, sei un Farshee. Ma non preoccuparti, ho preso
tanti libri, vedrò ti trovare qualcosa che potrà
aiutarti. Non c’è una cura, però… qualcosa
faremo, okay?» Chiese Kristen trovando finalmente il coraggio di
guardarlo negli occhi.
“Okay”, pensò Ben. E avrebbe voluto dirlo, ma la sua
bocca non voleva collaborare. Schiuse le labbra in attesa che un suono
ne uscisse, però rimase deluso. Così come una piccola
parte di Kristen rimase delusa, glielo lesse negli occhi, da quella
mancanza di parole dette a voce alta, non solo tramite gesti. E Ben
sapeva perché: lei si era impegnata tanto e lui non riusciva
neanche a pronunciare poche lettere.
Abbassò lo sguardo, mortificato. Poi si ricordò di
annuire, un gesto appena accennato, come i primi che le rivolgeva.
Kristen cominciò a leggere i libri ad alta voce fermandosi ogni
tanto perché lui potesse “dirle” se quello che
c’era scritto corrispondeva alla sua realtà. Trovarono
persino un brano sull’elettroshock. Nel sentirlo nominare Ben
spalancò gli occhi e si strinse contro il muro, come per fuggire
da una minaccia inesistente. Kristen sollevò una mano e lo
tranquillizzò con parole dolci.
Ma dopo non riuscì a trattenersi dal chiederlo: «Ti hanno
fatto l’elettroshock Ben?»
Al cenno d’assenso si lui si coprì la bocca con le mani,
come aveva fatto sua madre anni prima. «Mio dio Ben! Ma è
orribile! E i tuoi genitori l’hanno permesso?» Lui
affondò i denti nel labbro inferiore e puntò lo sguardo
verso il pavimento.
Kristen fece un respiro profondo. Fu come se tutta l’aria gli fosse stata risucchiata dai polmoni.
«Scusa, non avrei dovuto chiedertelo… Pensavano di fare
bene… D’altra parte quando un figlio sta male, si devono
prendere decisioni difficili. A volte.»
A Ben sembrò quasi che parlasse per esperienza. Ma lei era
giovane, non aveva figli. Eppure qualche volta sembrava una donna
vissuta, da come parlava, da come muoveva le mani, dai termini che
usava. Era cresciuta troppo in fretta. Come lui.
Kristen riprese a leggere. Ogni tanto le tremava la voce, ma
s’imponeva di andare avanti, di continuare. Per lui. Faceva tutto
quello, sopportava tutto quello solo per lui, per quel ragazzino magro
e pallido che non parlava mai e sembrava sempre in fuga da qualcosa. O
qualcuno. Forse da se stesso, o forse da quello che c’era nella
sua mente.
Dopo un po’, suo malgrado, Ben si perse ad osservare i riflessi
dorati che la luce del sole creava sui capelli di Kristen, la curva del
suo collo, le ombre che le ciglia le disegnavano sugli zigomi, i
movimenti fluidi e veloci delle labbra...
«Ben? Ehi Ben? Ci sei?» Solo dopo un po’ il ragazzo
si rese conto che Kristen lo stava chiamando.
Sbatté le palpebre un paio di volte e si concentrò sulla
ragazza. La guardò in attesa che parlasse cercando di incitarla
a dire qualcosa con lo sguardo.
«Ho trovato qualcosa che potrebbe aiutarti.»
Picchiettò col dito sulla pagina di un libro. «Qui dice
che puoi imparare a controllare i tuoi poteri. Non completamente,
però puoi riuscire ad avere una vita più… normale.
Basta che tieni le voci nella tua testa sotto controllo. Fino ad ora le
hai lasciate libere di condizionarti, di rovinarti, di farti sentire
escluso e strano. Però adesso puoi mettere fine a tutto questo.
E, se lo vorrai, io ti aiuterò. O almeno posso provarci.»
Ben spalancò gli occhi e schiuse le labbra. Si sentiva…
bene? Rassicurato? Speranzoso? Dentro il suo petto aveva un miscuglio
di tante emozioni diverse. Non era la prima volta che provava qualcosa
del genere, ma per la prima volta in tutta la sua vita erano emozioni
positive, piacevoli.
Sorrise sentendosi bene, quasi in pace con se stesso e con le voci
nella sua testa. Annuì vivamente e allungò una mano come
a voler toccare Kristen. Contatto fisico… Per lui era quasi
sconosciuto. Un po’ come il suono della propria voce.
Kristen gli prese la mano e la strinse con un sorriso sinceramente
felice ad illuminarle il viso. Ben si irrigidì a quel contatto
strano, inaspettato: la pelle di lei era calda, un po’ ruvida, ma
rassicurante. Quella di lui era fredda, liscia, morbida come quella di
un bambino. Gli venne spontaneo ritirare la mano da quella stretta, ma
si trattenne: in fondo non lo voleva, in fondo gli piaceva, in fondo Kristen gli piaceva. Tanto.
«Ce la farai Ben, vedrai.» Mormorò la ragazza senza smettere di sorridere.
“Ce la faremo”, pensò Ben ricambiando il sorriso.
I loro occhi si incontrarono. Azzurro e marrone. Cielo e terra. Prima
di allora si erano scambiati brevi occhiate, in quel momento invece i
loro sguardi sembravano incatenati da quello che pareva un legame
più grande di loro, più forte di loro, più
duraturo. Più permanente.
Ben sussultò quando si ritrovò con le labbra di Kristen
premute sulle sue. Non aveva mai baciato nessuno prima di allora e di
sicuro non si aspettava che sarebbe successo quel giorno. Né
mai. Non visto ciò che era.
Non aveva la minima idea di cosa fare, così lasciò che
fosse lei a guidarlo: la bocca di Kristen accarezzava delicatamente la
sua, come se avesse a che fare con qualcosa di delicato, di fragile,
qualcosa che poteva andare in mille pezzi in ogni momento.
Dopo un po’ Ben chiuse istintivamente gli occhi per godersi
quello strano quanto meraviglioso momento.
Kristen si scostò da lui, si allontanò un po’ e si
morse un labbro. Ben vide le sue guance tingersi di rosso e si rese
conto che anche le sue si erano colorate nello stesso modo. Erano anni che il sangue non dava colore al suo viso.
«Kristen…» La sua voce suonò flebile e roca dopo tutto quel tempo passato in silenzio.
Si sorprese di se stesso: dove aveva trovato il coraggio di parlare?
Aveva passato notti intere a fissare il soffitto della sua stanza
mimando con le labbra il nome della ragazza, immaginando il suono che
avrebbe avuto una volta uscito dalla sua bocca, cercando di ricordare
il meglio possibile i movimenti che aveva fatto lei quando
l’aveva detto per presentarsi. Ma Ben non credeva di essere in
grado, sia fisicamente sia psicologicamente, di dirlo ad alta voce, di
parlare, di comunicare senza usare i gesti, per una volta.
Kristen lo guardò con gli occhi spalancati per qualche secondo
prima di sorridere. Si vedeva che era stupita, sorpresa, incredula.
«Ben… Tu… tu hai parlato… Oh mio Dio…»
Lui sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo, imbarazzato.
Eppure, sotto quell’apparente disagio, c’era una strana
sensazione che Ben era abbastanza sicuro di non aver mai provato. Gioia.
Allungò una mano e le sfiorò una guancia, come aveva
visto fare a suo padre con sua madre. Kristen arrossì di nuovo e
mise una mano sulla sua.
«Andrà tutto bene… Okay Ben? Tutto
bene…» Sussurrò la ragazza.
«Okay.» Rispose lui.
Kristen si mise a ridere, cosa che confuse un po’ Ben. Quando lei
gli gettò le braccia al collo, si irrigidì un po’,
ma trovò quasi subito quel calore e quella vicinanza piacevoli
così ricambiò la stretta anche se in modo poco convinto:
temeva di sbagliare, di fare un errore, di fare male. Di farle male.
Però nello stesso tempo c’era una vocina nella sua testa,
flebile, leggera, che quasi non si sentiva in mezzo alle altre, che gli
diceva di stringerla, di tenerla con sé, di non lasciarla mai
andare. E Ben pensò che poteva farlo. Che l’avrebbe fatto.
Passarono ore a parlare di tutto. Anche Ben prese parte a quella
conversazione solitamente ad una voce e, anche se con poche parole,
commentava, raccontava, rispondeva, domandava. Si sentiva parte di
qualcosa, si sentiva accettato, si sentiva adeguato. Si sentiva giusto.
Descrisse a Kristen tutta la sua vita, non era un granché lo
sapeva, ma era liberatorio parlarne con qualcuno, mettersi a nudo,
raccontarsi, lasciare che tutto quello che aveva represso in quegli
anni uscisse finalmente fuori. E Kristen lo ascoltava come aveva fatto
lui per settimane, lo incitava con piccoli sorrisi, gli stringeva la
mano quando parlava di qualcosa di difficile, lo sosteneva
semplicemente standogli accanto. E lui le era infinitamente grato per
quello. E per i libri. E per la sua pazienza. E per il tempo che aveva
passato con lui come se fosse stato un bambino solo e senza amici. In
realtà Ben era proprio quello: un bimbo cresciuto troppo in
fretta e che si era ritrovato da solo nel mondo degli adulti senza
esservi assolutamente preparato.
Quando finì di parlare, Kristen gli prese una mano tra le sue e
la strinse, come a volerla scaldare, come a voler far sparire quel gelo
che lo attanagliava da una vita. Come a volerlo far sentire veramente
vivo.
«Non hai avuto una vita facile… Mi dispiace tanto Ben,
davvero: sei un ragazzo meraviglioso, meriteresti molto più di
questo.» Mormorò scuotendo appena la testa.
«Anche… anche tu.» Sussurrò lui.
Lei sorrise debolmente. «A me va bene così. Sono felice di quello che ho.»
«Non di tuo padre…» La voce di Ben fu poco
più di un bisbiglio.
Kristen si irrigidì e strinse le labbra. «Lui… lui
è pur sempre mio padre Ben, non posso fare altrimenti. In fondo
gli voglio bene.»
Lui annuì appena, sentendosi mortificato e dispiaciuto.
«Okay.»
La ragazza ritrovò il sorriso. «Non preoccuparti per me.
Sto bene. E tra poco starai meglio anche tu.»
Ben la guardò e ricambiò il sorriso, anche se in modo poco convinto.
«Senti… Che ne dici se facciamo due passi? Ho visto i
giardini dalla finestra e mi piacerebbe andarci. Magari puoi guidarmi
tu…» Propose Kristen.
Il ragazzo annuì. «Sì, v-volentieri.» La sua
voce era ancora incerta, ancora flebile ma ogni volta che parlava
acquisiva un po’ di sicurezza in più.
Si alzarono dal davanzale, Ben con fare dubbioso, Kristen decisamente
più a suo agio. Rimise i libri nella borsa e fece per mettersela
a tracolla, ma il ragazzo la fermò mettendole una mano sul
braccio.
«Lasciala pure qui... C-così sarai più…
co-comoda.» Balbettò.
Kristen fece cenno di sì con la testa. «D’accordo.
Grazie.»
Lui fece un piccolo sorriso timido che lei ricambiò. La ragazza
allungò una mano verso di lui che s’irrigidì per un
attimo prima di prenderla e stringerla.
Avevano appena raggiunto il centro della stanza quando Ben si
sentì attraversare da un’onda di gelido dolore né
fisico né mentale. Pensò subito ad una crisi: qualcuno
stava per morire. E lui stava per urlare.
Percepì l’aria che gli veniva risucchiata via dai polmoni
lasciandolo completamente senza fiato. La sua schiena
s’inarcò come se l’avessero colpito con violenza da
dietro. Spalancò gli occhi cercando disperatamente di riprendere
aria. Le voci nella sua testa divennero sempre più forti e
insistenti, coprivano i suoi pensieri, le sue stesse sensazioni.
«Ben!» La voce di Kristen era terribilmente allarmata. Disperata.
Lui provò a parlare, a voltarsi verso di lei, a farle anche un
minuscolo cenno, però il suo corpo non gli rispondeva
più. Si ritrovò a terra, sdraiato in modo scomposto sulla
pietra fredda. Fissava l’alto soffitto della stanza senza
vederlo. Aveva la gola chiusa, non riusciva a respirare, si sentiva i
polmoni in fiamme, la mente offuscata ed incredibilmente rumorosa. Ed
era terrorizzato. Non aveva mai provato nulla del genere, le crisi che
aveva avuto fino a quel momento erano meno intense, meno forti, meno
devastanti. Si sentiva come attraversato di nuovo dalla corrente
dell’elettroshock. No… Non di nuovo, no…
Non avrebbe retto ancora a lungo, lo sapeva. Voleva fuggire, lasciarsi
dietro quella sofferenza e liberarsi una volta per tutte dei suoi
problemi, della sua solitudine, di quella condanna a cui la sua mente
lo costringeva ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Ma
c’era qualcosa che lo tratteneva, qualcosa… Qualcuno.
Ed era proprio quel qualcuno che gli stringeva la mano, che cercava di
farlo rinvenire e nello stesso tempo provava a capire cosa stesse
succedendo come fermare quella forza che lo stava consumando
dall’interno.
Poi all’improvviso finì tutto. Esattamente come era
iniziato, inaspettatamente finì. Lasciandosi dietro solo una
sensazione di vuoto, di sollievo. Di silenzio.
La mente di Ben non era mai stata così silenziosa, così
calma, così quieta. Non c’era più neanche una voce,
nemmeno il più flebile sussurro, nemmeno il più leggero
mormorio, nemmeno il più fragile bisbiglio. Era tutto sparito.
Completamente. E lui si sentì completamente in pace, con se
stesso e con l’intero universo. Ben si sentiva calmo, rilassato,
sereno. Si sentiva… silenzio.
E poi non sentì più niente.
E Kristen sentì l’aria che le veniva tirata fuori a forza
dai polmoni, sentì il suo corpo irrigidirsi, sentì
milioni voci, mormorii, bisbigli, sussurri nella sua mente. E
urlò. Urlò e i vetri esplosero in mille schegge affilate,
gridò e tutto il mondo sembrò scomparire. E quando
riuscì finalmente a smettere, a riprendere fiato, in bocca aveva
un sapore, un retrogusto amaro e metallico che, si rese conto, sapeva
di morte.
SPAZIO AUTRICE: Questa storia si discosta un po' dal mio stile, sia
perché di solito scrivo usando la prima persona, sia
perché è la prima cosa drammatica che scrivo quindi forse
non avrò reso bene il sentimento.
È il primo contest a cui partecipo, mi ha attirata soprattutto
per il tema, "spiriti maligni", e appena ho letto la traccia ho avuto
questa... illuminazione, diciamo.
Mi è piaciuto moltissimo scrivere questa storia, sperimentare
qualcosa di nuovo e diverso. Alla fine è risultata più
lunga di quanto doveva essere inizialmente, ma solo così sono
riuscita ad inserire tutto quello che volevo e a farla come avevo
pensato. Ne sono soddisfatta e mi ci sono affezionata più di
quanto credessi.
Spero che questo racconto vi sia piaciuto e che vi abbia fatto emozionare almeno un po'.
Gruppo che ha indetto il contest: La crème de la crème di EFP.
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