SOFFOCARE
Quando mio padre morì,
avevo sei anni, un fratellino più piccolo e una madre alla
quale, per sua
stessa ammissione, non piacevo neanche un po’. Diceva che ero
turbolenta,
rumorosa, dedita ad attività – saltare nelle
pozzanghere o giocare con i cani
da caccia, per esempio – che non si addicevano ad una
ragazzina di buona
famiglia, e che di sicuro non mi avrebbero aiutato a trovare marito.
Era mio fratello, il preferito di mia madre. Mio fratello, con i suoi
capelli
biondi e la sua boccuccia rosea da cui non usciva mai un lamento di
troppo. Mio
padre invece no. Lui adorava i miei ribelli ricci crespi, adorava
passarci in
mezzo le mani e togliere i fili di paglia in mezzo ai capelli, ridendo
con
indulgenza.
La bara di mio padre era stata coperta di terra da appena un giorno, e
la prima
cosa che mia madre fece fu tagliarmi quei ricci che a mio padre
piacevano
tanto. Disse che, più corti, sarebbero stati più
facili da pettinare.
Quello, per me, fu l’inizio di giorni bui, rasserenati
soltanto, sporadicamente,
dalle visite alla tomba di mio padre. Venni praticamente chiusa in
casa, per
evitare che mi dedicassi a giochi disdicevoli, e anche la mia
più piccola
manifestazione di vitalità cominciò a essere
imbrigliata, bacchettata e
repressa con risolutezza. Inutile dire che per mia madre, se mio
fratello
combinava qualche disastro, la colpa era sempre di quella screanzata di
Mary.
Passarono due anni. Due lunghi anni in cui la sensazione che provavo
con più
frequenza era soffocare. Fu allora che cominciai ad essere davvero la
bambina
cattiva che mia madre sosteneva da sempre che fossi. Ogni occasione era
buona
per rompere soprammobili, versarmi il latte mattutino sul vestito
nuovo,
infastidire il gatto fino a farlo miagolare di dolore, fare
più rumore
possibile durante l’ora della pennichella pomeridiana e
rovesciare la
cappelliera. Reclamavo attenzione sociale. Inutile dire che mio
fratello era la
vittima prediletta dei miei feroci dispetti. Ho perso il conto delle
volte in
cui gli ho tirato i capelli, gli ho fatto sgambetto o gli ho torto la
pelle in
un pizzicotto, facendolo piangere a squarciagola. Mia madre accorreva
sempre
trafelata, prendendolo subito in braccio per calmarlo e urlandomi
contro che
razza di figlia degenere fossi.
«Sei un mostro! Una bestia! Se continui così ti
manderò dritta in collegio!»
E, alla fine, quel giorno parve arrivare.
La lettera che comunicava che mi avevano ammessa ad un collegio di
Londra giunse
a casa in un giorno nebbioso di novembre, con la posta del mattino. Io
non la
vidi, ma dovetti sentire qualcosa nell’aria,
perché per quanto mia madre e la governante
mi cercassero, non riuscirono a vedermi per tutta la mattina.
Alla fine mi trovarono. Ero vicina alla riva del lago della nostra
tenuta, e
fissavo con volto calmo e inespressivo la superficie
dell’acqua appena
increspata. Leggermente affiorante dalle onde, a faccia in
giù, immobile,
spuntava la testina bionda e fradicia di mio fratello. Si era agitato,
mentre
gli tenevo la testa sott’acqua, ma poi aveva smesso. Io non
avevo sentito
niente.
Solo vuoto. Un grande vuoto.
ANGOLO
AUTRICE
Salve a tutti! Come
avrete letto nell'introduzione, questa cosa un pochino raccapricciante
è il frutto di un esercizio che mi è stato
assegnato qualche mese fa ad un laboratorio di scrittura creativa: lo
scopo era costruire un breve racconto partendo dalla frase "reclamavo
attenzione sociale", e a me è venuto fuori questo. E' la
prima volta che pubblico nella sezione Originali di EFP, e ho voluto
iniziare con qualcosa di breve, rapido e indolore...almeno spero. Spero di non avervi sconvolto
troppo ;) Attendo con ansia le vostre impressioni, anche per dirmi che
vi ha fatto schifo!
Saluti,
MrsBlack90
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