Blackout [Traduzione di WibblyWobbly]

di ivyblossom
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Nota della Traduttrice: Dopo millemila anni di assenza (complice anche il fatto che non posso tradurre la ff che vorrei XD) eccomi di ritorno su EFP! Qualche giorno fa Ivy ha pubblicato questa storia bellissima e mi ha dato il permesso di tradurla… spero vi piaccia come è piaciuta a me.

Ecco il link alla storia originale: Blackout by IvyBlossom

Ps. La relazione del nostro Jawn con l’alcohol (quando beve? Perché beve? Quanto beve?) è molto interessante. Ci avete mai fatto caso? Secondo Moffat nella serie c’è un sottotesto a riguardo.

Pps. Avete visto la foto postata dalla Vertue?? #NotKidding!

Buona lettura!
Peace Out
xx

 





Il problema o, da una diversa prospettiva, la soluzione, è l’alcolismo di John.

Evidentemente ha un problema con l’alcohol. Chi non l’avrebbe, dopo tutto quello che ha passato? Dovrebbe essere più giudizioso, ovviamente, considerati i problemi della sorella e le loro litigate; tutte le cose che le ha visto perdere, tutte le cose che lo fanno arrabbiare così tanto con lei. Ma John nemmeno si accorge che sta accadendo. Non ci pensa. Si versa da bere, affronta la giornata. Successo! Èsolo sopravvivenza. Funziona, così si versa un altro bicchiere. E un altro ancora. La maggior parte delle volte riesce a gestirlo. Alcune persone riescono a farlo. John è una di quelle.

La situazione peggiora dopo il fiasco con Mary. Non c’è bisogno di spiegare. Dopo quello che è successo non riesce a dormire senza aver bevuto. Èl’unica cosa che gli impedisce di pensare a cose che gli fanno venir voglia di piantarsi una pallottola nel cranio. Beh, in altre parole, è l’unica cosa di cui è pienamente in controllo.

L’altra cosa che aiuta dipende interamente da una combinazione di Sherlock Holmes, crimine, violenza o un omicidio e tutte queste sono notoriamente inaffidabili. Ma una bottiglia di whisky riesce sicuramente a trovarla.

John è soprattutto efficiente, anche nei suoi periodi peggiori. Quindi nessuno ha notato lo stato in cui si sta riducendo. Uno stato costante di troppe bottiglie nascoste nel contenitore per il riciclaggio, di notti passate a bere fissando il vuoto e, dalla prospettiva di John, di conforto sottoforma di oblio non appena tramonta il sole.

Nessuno l’ha notato. Tranne Sherlock, naturalmente.

Non sempre John beve da solo. Esce, va in un pub, fissa fuori dalle vetrine, guarda le altre persone essere felici. Ci sono alcune mattine in cui non ricorda come ha fatto a tornare a casa ma non se ne preoccupa. Perché alla fine è arrivato a casa. Non importa quanto ricorda; in questo momento non è ottimale per lui ricordare, no? Ricordare è un inferno, a dire il vero e dimenticare è tranquillo; quindi non gli importa più di tanto dei blackout e non se ne preoccupa. Un dottore dovrebbe pensarla diversamente? Certo. Ma in questo momento sta cercando di affrontare le proprie giornate. Ecco tutto. Ha solo bisogno di arrivare alla fine della giornata. E della notte.

Se non vuoi ricordare nulla di ciò che ti capita, è facile non contare le sere che svaniscono. Si confondono tra loro in ogni caso. Non c’è nulla degno di nota. Rivestimenti in legno, uno sgabello di un bar, pioggia, il barcollare fino a casa senza riuscire ad avvertire la sensibilità delle tue estremità, il cercare di non pensare. E comunque cosa c’è da ricordare? Ti lavi i denti, vai a letto, dimentichi. Èsolo sofferenza. Lascia che si affievolisca.

John è stoicamente ubriaco, cupo e tranquillo, quando Sherlock lo raggiunge. Guarda fisso fuori dalla vetrina, ignorando tutto ciò che lo circonda, assente.

“Devi smetterla,” gli dice Sherlock. “La situazione ti sta sfuggendo di mano.”

John si volta a guardarlo, per niente sorpreso o spaventato di vederlo lì. La sua mente spesso fa apparire le persone che non vuole vedere.

“Non adesso,” gli risponde. I suoi occhi sono pesanti e la sua voce debole. “Vaffanculo.” Come se Sherlock fosse solo un ricordo, un’altra cosa che John può far scomparire con il trascorrere della notte. Butta giù quel che resta del suo drink. Guarda fuori dalla vetrina.

Sherlock non se ne va. Ma non dice nient’altro. Siede semplicemente lì, guardando John guardare il nulla fuori dalla vetrina. Fissa il nulla, facendo del suo meglio per essere nulla.

La mattina dopo John si sveglia nel suo letto, come sempre. La testa gli martella, ma non ricorda di essere andato al pub. Non ricorda di aver vomitato nel bagno alle 3 del mattino o di aver pianto sulle piastrelle. Non che John cerchi di ricordare. Quale sarebbe il punto? Ha del lavoro da sbrigare. Pensa all’immediato futuro, non al passato recente.

Due giorni dopo, Sherlock e John risolvono un caso insieme. Comporta l’arrampicarsi fino a un terrazzo al secondo piano e il penzolare da un tetto a nord di Londra. John potrebbe perdere l’equilibrio in qualsiasi momento, ma non succede. Ci ha pensato una volta, quando correndo sul marciapiede ha svoltato un angolo stretto, avvertendo la sporgenza irregolare dei ciottoli sotto le suole delle scarpe. Sarebbe stato così facile sbilanciarsi, torcere la caviglia, cadere di faccia. Perdere. Ma non lo fa.

Corrono, placcano un assassino e lo bloccano sulla morbida terra arancione di Hampstead Heath. Per John è esaltante, calmante, meraviglioso. Sherlock non menziona il problema del bere e John non beve. Quella notte dorme bene. Ricorda ogni splendido dettaglio. Ne sogna e si sveglia euforico. Fino a quando ricorda chi è, dove si trova e perchè, e la sensazione fluisce via.

Tre giorni dopo, John inizia la serata sul suo divano ma si sveglia al buio, raggomitolato sulle scale del retro di una casa sconosciuta a Islington. Non ricorda come c’è arrivato. Non ci prova nemmeno.

Quando il sole sorge, John è di nuovo nel suo letto; non ricorda gli scalini in pietra piantati nella schiena o perché la sua giacca sia bagnata fradicia. C’è un livido sulla spalla sinistra che non ricorda essersi procurato. Meglio non pensarci.

Il lavoro è noioso. Èla stessa cosa tutti i giorni e per certi versi non è molto diverso dall’essere ubriachi. Distese interminabili di nulla, in cui nulla importa e nulla degno di nota accade.

“John,” gli dice Sherlock. “Basta.”

John galleggia in uno stato di non-esistenza. Completamente intorpidito, non ha alcuna idea di dove sia.

“Hai mai pensato,” John dice a Sherlock, fissando il suo volto non-esistente, “che potresti essere innamorato di me? Perché io sono abbastanza sicuro che tu lo sia.”

Beve un sorso e riflette su quanto ha appena detto, come se l’avesse affermato qualcun’altro. Come se l’avesse letto in un libro da qualche parte, un pensiero a caso, la tesi di qualcuno.

“Non che sia importante,” aggiunge. “Non che voglia dire qualcosa. Perchè non vuol dire niente. È solo…” si ferma, guarda Sherlock senza vederlo realmente. “Una cosa. Èvera. Lo sai.”

E Sherlock lo sa. “Ti darebbe fastidio?” chiede, anche se adesso non ha più alcuna importanza.

“No,” risponde John. Alza le spalle, poi le scrolla di nuovo. “Va bene. Tutto apposto.”

John non ricorderà questa conversazione.

Passano due giorni interi a cercare frammenti di tessuto lungo la M1. Ènoioso e improduttivo e mentre John passa metà del tempo a lamentarsi, in verità non gli importa davvero. Non dorme per quarantotto ore e la considera una benedizione, perché non ha sogni da cercare di dimenticare. Lamentarsi con Sherlock è meglio che dormire.

“Sarei dovuto finire con te,” dice.

“Anche se,” continua, tenendo in alto il bicchiere e sbirciandoci attraverso, “probabilmente mi avresti fatto peggio di quanto ha fatto lei. Molto peggio. Probabilmente adesso sarei morto se fossi finito con te.”

Beve un sorso. Sherlock si appoggia alla sedia e lo guarda.

“Ma almeno ti avrei scopato.” Ride. “Presumibilmente.”

Sherlock resta in silenzio.

La settimana seguente, un caso irrisolto assorbe tre giorni interi. Sherlock è troppo frustrato per dormire. John si appisola tranquillamente al 221b, seduto nella sua poltrona mentre ascolta Sherlock suonare il violino. Quando si sveglia al mattino Sherlock sta ancora suonando.

Adesso John odia andare a lavoro. Ètroppo noioso per tenerlo distratto e ogni donna che entra nel suo studio gli ricorda Mary, in qualche modo. Sopprime la rabbia meglio che può ma sa che non si sta comportando da bravo medico. La rabbia è la più semplice delle sue emozioni.

Invia un sms a Sherlock: caso?

Sherlock ci mette un’ora e mezza a rispondere.

No. Esperimento. Fegati e unghie. Microonde. Molto delicato.

Non dirmelo. Non voglio saperlo.

John sogna d’esser tornato in Afghanistan, sepolto fino al collo nella sabbia.

“Io non ti capisco,” gli dice puntando un dito contro Sherlock, quasi facendo rovesciare il suo bicchiere. Stasera è nel suo appartamento. Non è proprio possibile per Sherlock essere lì. Èimpegnato. Sta ancora mettendo fegati nel microonde o una cosa del genere.

“Forse no,” risponde Sherlock.

John lo ignora. “Fondamentalmente tu sei innamorato di me e io sono innamorato di te, eppure…” indica lo spazio tra di loro. “Niente. Perché?”

“Sei in lutto,” dice Sherlock. “Sei ubriaco.”

“Splendida deduzione!” ride John. “Completamente irrilevante.”

“Non sono deduzioni,” dice Sherlock. “Sono fatti. E sono spiacevolmente rilevanti.” E poi aggiunge, quasi fosse un’ulteriore riflessione: “Non lo sapevo. Non l’hai mai detto.”

“Tu non vorresti, non è vero?” risponde John. Chiude gli occhi e si lascia cadere di nuovo sul divano. “Andresti a letto con una donna che hai appena conosciuto, a quanto pare, ma non con me. Tu non… non provi questo genere di sentimenti, non è vero?”

Sherlock non risponde.

“Non sei costretto a provare niente.”

Sherlock resta in silenzio.

“Basto io per questo, fidati.”

“Mi fido,” dice Sherlock.

Il telefono di John suona tre volte mentre sta scrivendo una ricetta per l’ultimo paziente della giornata.

[17:53] John, ho bisogno di te immediatamente.
[17:53] Un uomo è stato ucciso con una forchetta.
[17:54] Come puoi anche solo pensare di fare qualsiasi altra cosa quando un uomo è stato assassinato con una forchetta?


Ore dopo, in un taxi, l’euforia del caso riecheggia in entrambi. Sono stravaccati sul sedile, guardando la Londra notturna sfrecciare davanti a loro. John guarda il profilo bianco e nero di Sherlock apparire e scomparire nel bagliore ambrato di semafori e lampioni. Quasi per caso, Sherlock appoggia la sua mano contro la coscia di John e nessuno dei due si sposta. Proprio ora John è felice; pensa che non sarà mai così felice come in questo momento.

Per un momento tutto è come dovrebbe essere e John è in pace. Ma non dura. Non può.

Una settimana dopo, John è seduto su un patio di un locale a Southwark. Èsolo. Il vento del Tamigi è troppo freddo e umido e le persone che avevano iniziato la serata all’aperto si sono ammucchiate all’interno del locale, accanto al fuoco. Le mani di John sono ghiacciate e sta tremando ma non se ne accorge. Il whisky è freddo ma caldo una volta bevuto.

Sherlock lo trova, ovviamente. Ha con lui una coperta di lana e l’avvolge intorno a John. Le sue mani scovano quelle di John e le stringono.

“Basta, John. Questa cosa ti sta uccidendo.”

“Già.” John sospira e si appoggia automaticamente all’altro, come se l’avesse già fatto altre volte. “Lo so.” Strofina il naso contro il collo di Sherlock e lo bacia dietro l’orecchio.

Èuna cosa strana, non è vero? In quel momento non gli sembra, però. Èun tempo che non esiste, dopotutto. Non riesce a sentire le dita ma Sherlock è caldo come il whisky e John vuole baciarlo. Non ci riflette.

“Lo so, lo so. Lo so, Sherlock.” Vuole baciarlo, quindi lo fa. Gli bacia il collo con le sue labbra fredde. Fa scorrere la mano lungo lo stomaco di Sherlock. “Lo so.” Gli bacia il mento. E poi bacia Sherlock sulla bocca.

Inizia a piovere.

Si sveglia sotto quella stessa coperta di lana sul divano al 221b ma non ricorda esserci arrivato. Ricorda solo il vento del Tamigi e, stranamente, il calore.

Si domanda se si sia presentato alla porta di Sherlock la sera prima, ubriaco e fuori di testa; freddo e bagnato e terribilmente solo. È sempre, sempre, terribilmente solo. Èmortificato. La cosa è andata troppo oltre. Sa che deve fermarsi ma non sa se ha la forza. Soffre tantissimo, capite. Per la prima volta gli viene in mente che non è poi tanto diverso da sua sorella e si vergona di se stesso.

È facile toccare il fondo quando non ti accorgi di star precipitando.

Piove ancora. Il sole sta sorgendo. John non vuole pensarci. Si mette le scarpe ed esce il più silenziosamente possibile.

È difficile fermarsi, ma lo fa, almeno per un po’ di tempo. Fa male. Un sacco. Ma non ne parla e neanche lo fa Sherlock. Nessuno l’ha mai notato. Le giornate non sono mai state così lunghe e le notti non hanno mai fatto così male. Diverse volte perde la calma, con i pazienti, i colleghi, gli amici e puntualmente deve scusarsi. Fatica a dormire. Ha gli incubi. Piange.

È talmente arrabbiato con Mary che con un pugno fa un buco nel muro. La sua psicologa, quella che ha ricominciato a vedere ma alla quale non ha ancora confessato il suo problema con l’alchool, dice che sfogare la sua rabbia è salutare.
“La rabbia è onesta,” gli dice. “Hai bisogno di essere onesto con te stesso.”

Non è una sorpresa che riprenda a bere due giorni dopo questa conversazione. Sono cose difficili.

“John,” dice Sherlock. E John non ha proprio idea da dove sia sbucato Sherlock ma è qui e si è seduto molto vicino. Così vicino che John riesce ad avvertire il suo calore, lo distrae ed è meraviglioso. Il suo volto è pieno di angoscia. “Non farlo.” Sposta la mano di John via dal bicchiere. “Non un’altra volta.”

C’è così tanto nel tocco deliberato di Sherlock. Prende la mano di John, premendosi le dita sulla bocca. John non può ignorare una cosa del genere. Sherlock lo sta baciando. Preme le sue labbra sulle dita di John, sulle sue nocche, gli carezza il palmo della mano. John è incantato, paralizzato. Niente è reale come questa cosa.

All’improvviso John sa. Capisce. Non ricorda come è arrivato lì, ma sa chi è la persona davanti a lui. E perché. Anni passati innamorati l’uno dell’altro e questo è il punto di svolta. Fa scorrere il pollice lungo le labbra di Sherlock. Ècosì ovvio adesso. Tutto questo tempo; tutti lo sapevano ed entrambi facevano finta che non fosse vero. Quasi ride. Può farlo solo perché è ubriaco. Odia l’ironia della cosa.

“Domani dimmi che tu sai,” gli dice John. Non riesce a sentire la propria pelle. Sa che non ricorderà questa cosa la mattina dopo. “Dimmi che hai dedotto che sono innamorato di te dai bottoni delle mie camicie o dal modo in cui mi allaccio le scarpe o mi pettino i capelli, non lo so, va bene qualsiasi cosa. Dimmi che è ovvio. Ti crederò. Lo faccio sempre.”

Sherlock annuisce.

John poggia la fronte contro quella di Sherlock. “Sarò terrorizzato.”

Sherlock gli sorride debolmente.

“Dimmelo,” lo implora John. “Dimmi che anche tu mi ami.”

Sherlock annuisce.

“Non ti crederò,” aggiunge John. Carezza la guancia di Sherlock. “Dovrai baciarmi,” sussurra contro le labbra di Sherlock.

“Lo farò.”

John si sveglia nel suo letto con i postumi di una sbronza. Non è sicuro di dove fosse la notte prima; non è neanche sicuro di essere uscito di casa. Dove ha trovato l’alcohol? L’ha rubato da i vicini? Non è sicuro, ma non lo escluderebbe. Maledice la sua debolezza e giura di andare dagli Alcolisti Anonimi o di fare qualsiasi altra cosa deve per mettere un punto a questa storia. Èsfinito. Si vergogna di se stesso. Pensa che forse è arrivato il momento di essere onesto con la sua psicologa. Ha bisogno di aiuto, non può più negarlo.

Il suo telefono emette un tintinnio.

Ho bisogno di te. Vieni immediatamente.

John sorride. Un caso?

Qualcosa del genere.

John si mette a sedere, rabbrividisce e poggia i piedi a terra. Spera che sarà un giornata interessante. Ne ha bisogno.




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