Vita

di S_ Lily _S
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 Non c’era una vera ragione per la quale Marlene McKinnon aveva iniziato ad amarlo; semplicemente, un mattino, si era svegliata col vuoto nello stomaco tipico di chi è innamorato da secoli ma non vuole, non può ammetterlo a se stesso. Perché Sirius Black era troppo alto, troppo magro, troppo sorridente, troppo bambino e davvero troppo, troppo poco responsabile – eppure, nonostante avesse cercato di lavarlo via dal cuore assieme alla chiazza di vino che le macchiava l’orlo della gonna, l’immagine delle sue labbra appiccicate alle proprie si ripresentava alla mente ogni volta, come un cane randagio al quale hai offerto gli avanzi del pranzo di Natale: quasi ossessivamente.
Ed era una continua lotta fra amore e odio, un continuo tira e molla; e
– per la troppa paura di perderlo  avrebbe continuato a chiedersi se, dopo un’uscita finita male, sarebbero tornati ad amarsi – se l’avrebbe ancora baciata in quel modo, quello che le faceva venire i brividi e la pelle d’oca; se avrebbe ancora cucinato per lui, se avrebbero fatto l’amore nei bagni luridi de “I Tre Manici di Scopa”, se sarebbero saliti sul tetto dei Potter a guardare le stelle; se gli avrebbe stretto la mano ancora, ancora e ancora; se le avrebbe sorriso ancora, ancora e ancora.
Eppure, nonostante Marlene ignorasse quale fosse il suo numero di scarpe, quale colore gli donasse di più e perché si ostinasse a imbrattarsi i capelli di gelatina, c’era una di cosa di cui certa: Sirius Black era vita.
Era vita quando, al mattino, apriva un occhio e le rivolgeva uno di quei sorrisi storti di cui solo lui era capace; era vita quando, puntualmente in ritardo per il corso di Auror, cercava di allacciarsi la cravatta bevendo il caffè e scendendo le scale a rotta di collo; era vita quando l’abbracciava e premeva la punta del naso contro l’incavo del suo collo; era vita quando si accucciava sotto le coperte e, nonostante fosse ancora sveglio, fingeva di russare per il gusto di toglierle il sonno. 

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