“La
tua mente sarà come i tuoi stessi pensieri, perché l'anima si colora con il
colore dei suoi pensieri.”
Marco Aurelio
XI.
Pitch black
Whitechapel non era sempre stato il luogo malfamato
e chiacchierato che era in quei particolari anni del regno della beneamata
Regina Vittoria. John ricordava chiaramente, come se non fosse trascorso più di
qualche giorno, i tempi in cui era vissuto in Fleet Street con i suoi genitori
e sua sorella: suo padre era un artigiano, possedeva una piccola bottega di
chincaglierie in quella strada (che non aveva mai reso più di quanto fosse
necessario per riempire quattro bocche costantemente affamate), mentre sua
madre era sempre stata afflitta da una salute tanto cagionevole da non
permetterle di dedicarsi ad alcun mestiere. In sostanza, avevano sempre vissuto
alla giornata, e se John e Harry non erano stati costretti a lavorare per
qualche industriale senza scrupoli -o, peggio, a diventare spazzacamini- era
stato solamente perché Aengus Jonathan Watson si era sempre fatto in quattro
per impedirlo. Erano stati tempi duri, in cui avevano avuto bisogno di tutto,
ma John ricordava ancora con dolce nostalgia le domeniche pomeriggio di
primavera, durante le quali si era recato con tutta la sua famiglia a
Whitechapel per il mercato settimanale.
Lui e Harry avrebbero ricevuto in regalo un
cartoccio di lupini a testa, che avrebbero mangiucchiato mentre la loro madre
esaminava con occhio critico le merci esposte nei vari banchi rumorosi, o
guardando mano nella mano uno dei tanti spettacolini offerti dagli artisti di
strada. Chiudendo gli occhi, gli sembrava di poter ancora sentire l’odore della
frutta matura che faceva capolino dalle casse di legno, o le sguaiate risate di
sua sorella. Se si concentrava, anche la sensazione della mano grande di suo
padre sulla sua non gli sfuggiva.
Detestava la decadenza che regnava
correntemente in quel quartiere che conservava tanti dei suoi ricordi più cari…
ed era sicuro che se si fosse avvicinato ad uno degli ammassi di legno e chiodi
che veniva spacciato per un banchetto che vendeva lupini, il sapore d’infanzia
che quelle piccole gocce di sole avevano nella sua mente sarebbe stato annegato
dal gusto amaro della corruzione.
***
Il primo
passo che John aveva compiuto in Whitechapel Street si era concluso su di un
viscido mucchietto di sostanza indefinibile, dal vago odore di carne
marciscente. Il Dottore - che di chiedersi di cosa si trattasse non aveva avuto
la minima intenzione- aveva avuto la sensazione che quello fosse stato il
benvenuto personale del quartiere nel suo fetido grembo.
“Che genere
di persona stiamo cercando, di preciso?” aveva domandato, osservando il
pasticcio che quella poltiglia aveva lasciato sulla sua scarpa con occhio
disgustato e rassegnato insieme.
Non era
stata la prima domanda che aveva posto al Demone, dalla piccola parentesi in
Commercial Street. Neppure una di esse era stata risposta fino a quel punto.
Era come se il Demone avesse voluto rifarsi di tutte le parole che aveva
pronunciato a Scotland Yard -senza intenzione alcuna, come aveva tenuto a
sottolineare- chiudendosi in un silenzio tombale. Questo aveva lasciato
ovviamente a John tutto il tempo e lo spazio mentale possibile per rosolare ben
bene nell’angoscia riguardante la sua attuale situazione di detenuto in un
Castello infestato (Dio… sembrava tutto così irreale…), sentimento che era
stato relegato a impercettibile ronzio solo grazie al suo coinvolgimento in
quella promessa di avventura che era l’indagine che Sherlock stava portando
avanti.
Forse era
stato quello il motivo per cui aveva sentito il bisogno di riempire quel
silenzio con una serie infinita di domande prive di qualsiasi senso. A
posteriori, era quasi certo che proprio l’insensatezza dei suoi quesiti fosse
stata la ragione del mutismo del Demone -in fondo, alla sua ultima domanda
aveva pur risposto.
“Un uomo di
mezza età, sulla cinquantina direi. Capelli chiari. Baffi. Un mercante di
cotone con una moglie giovane e infedele e rapporti continuativi con una o più
persone di origine americana. In sostanza, un insospettabile.”
Tutti quei
dettagli da dove erano venuti fuori? John aveva seguito con molta attenzione -e
meraviglia- i voli mentali in cui Sherlock si era esibito nell’archivio di Scotland
Yard, ed effettivamente alcune delle cose che aveva affermato in quel momento
potevano essere ricondotte a conseguenze delle sue deduzioni. Però… capelli
chiari e baffi? Mercante di cotone? Moglie infedele? Come poteva Sherlock
esserne così sicuro? John lo aveva ingenuamente domandato, guadagnandosi uno
sbuffo e un’occhiataccia da parte del Demone.
“Nelle loro
dichiarazioni, i testimoni affermano di aver visto un distinto gentiluomo
abbigliato elegantemente muoversi nelle vicinanza dei luoghi in cui sono stati
rinvenuti i corpi. L’hanno descritto come un uomo dai capelli chiari. I baffi
sono un mio vezzo: sembra che in quest’epoca non sia accettabile per un uomo
che si rispetti non avere quei cosi anti-igienici e ispidi sulla faccia. Mi
ritenni fortunato quando passarono di moda le calzemaglie… invece…” aveva
iniziato, borbottando e imboccando una stradina incastrata tra i grigi edifici
che si stagliavano sulla destra del loro percorso con il Dottore alle calcagna,
“Che sia un mercante di cotone, me l’ha detto lui stesso. No, non
letteralmente, John! Tra gli indizi lasciati dallo Squartatore che ti ho
mostrato prima, c’era uno scampolo di cotone: o stava dando agli investigatori
un consiglio per la tappezzeria delle loro case, oppure - ed è la spiegazione
più plausibile- ha voluto lasciare una piccola indicazione riguardo al modo in
cui si procura il pane. Anche il fatto che il nostro uomo sia intrappolato in
un matrimonio infelice è un dettaglio che mi ha comunicato lui stesso. Non ha
forse strappato gli anelli di ottone che la Chapman portava all’anulare
sinistro? Un simbolo matrimoniale, che probabilmente ha urtato l’orgoglio del
nostro uomo. Quindi, sposato, e infelicemente, o non si sarebbe dato pensiero
di privare la sua vittima di due cerchietti di metallo privi di valore.
L’ipotesi di un tradimento deriva dalla brutalità con cui si è accanito sulle
vittime: vedeva in loro un fantoccio della sua coniuge, su cui sfogare la
rabbia, il dolore e la frustrazione che il suo comportamento gli causava. La sua
ferocia è stata sfogata in tutta la sua furia distruttiva sull’ultima delle sue
vittime, la Kelly, che è stata letteralmente macellata. Guarda caso, Mary Kelly
è la prostituta più giovane ad essere stata uccisa dallo Squartatore: Jack è
sposato con una donna molto più giovane di lui, che lo tradisce regolarmente.
Davvero, sono deduzioni così ovvie che avrebbe potuto farle pure un lattante.”
Sherlock da
lattante, forse. John non era stato in grado di produrle in quel frangente, e
aveva faticato a star dietro al Demone nonostante la sua spiegazione fosse
stata cristallina come acqua di sorgente. La probabilità che il sé bambino
avesse potuto anche soltanto iniziare a grattare la superficie del mistero che
era il funzionamento della mente di Sherlock era inesistente. A quel pensiero,
la sua mente aveva evocato molto utilmente l’immagine di se stesso da piccolo,
con il naso colante e una palla di pezza stretta fra le mani, che ascoltava
Sherlock non comprendendo una sola parola di quello che gli veniva detto. La
risata nervosa che quell’immagine fece gorgogliare nel suo petto era sembrata
dannatamente fuori luogo anche alle sue orecchie.
Un angolo
della bocca di Sherlock, quando quel suono si era alzato al cielo, si era
piegato appena verso l’alto. Aveva scosso la testa, bonariamente, infilando le
sue affusolate mani nelle profonde tasche del cappotto per proteggerle da una
folata di vento particolarmente viziosa, che aveva fatto correre un brivido
lungo la spina dorsale di John. L’uomo aveva aperto la bocca per lamentarsi, ma
d’improvviso la claustrofobica protettività di quel vicolo dalle mura alte era
stata sostituita dal più aperto e caotico affollamento di un vialone immenso e
trasandato, e le parole gli erano scivolate via dalle labbra. Il Dottore aveva
dovuto chiudere gli occhi un istante, per proteggerli dalla variazione di
luminosità.
“Buck’s
Row. Il luogo dove è stata rivenuta Polly Nichols.” aveva annunciato il Demone,
guardandolo dall’alto in basso,
“Sì.
Nell’agosto di due anni fa. Cosa potremo mai trovare ancora qui?”
Sherlock
aveva sbuffato, senza però risultare realmente scocciato alle orecchie di John.
Era più come se fosse stato divertito dalla sua protesta. “Quello che voi
esseri umani non comprendete, è che le vostre azioni lasciano dei segni sui
luoghi che le ospitano. Non parlo di segni fisici -come mobili rotti, o buchi
di proiettile sui muri- ma segni non di meno. E mentre le evidenze fisiche sono
spazzate via dallo scorrere del tempo, le tracce di cui parlo io rimangono
indelebili per tutta l’eternità. A patto, certo, che siano ricercati da
qualcuno con gli occhi giusti.”
Il Demone
aveva ammiccato -e John aveva sobbalzato- per poi sollevare aggraziatamente il
braccio sinistro. Il mondo era stato improvvisamente drenato dei suoi colori.
Se avesse
dovuto descrivere quello che era accaduto a Hamish, o a chiunque non avesse
avuto la fortuna di assistervi in prima persona, John gli avrebbe detto che
mentre la mano di Sherlock fendeva l’aria, il tempo aveva iniziato a
decelerare. I movimenti delle persone che camminavano frettolosamente per
strada avevano rallentato man mano, come se fosse piombato su ogni singolo
passante un maleficio che lo aveva tramutato pian piano in una statua di
ghiaccio. Anche i suoni avevano perso velocità per poi fermarsi del tutto, e un
silenzio surreale aveva avvolto l’intera strada come un invisibile, soffocante
velo. I colori erano spariti subito dopo… o meglio, non erano propriamente
svaniti, quanto si erano disposti sullo scenario in maniera tanto aliena da
generare un senso di vertigine. Sulla strada grigia, sugli edifici ridotti alle
tonalità del bianco e del nero, sulle persone che sembravano appena uscite da
una monocromatica foto di giornale, John aveva potuto notare il formarsi di
disordinate e dolorosamente accese macchie dei colori più disparati, di diversa
dimensione e forma. I suoi occhi erano saettati dagli schizzi di rosa intenso
che stavano infiammando le mani giunte di una giovane coppia al giallo intenso
e accecante che sembrava colorare per intero una bambina con le treccine,
rimasta bloccata nell’atto di raccogliere un torsolo di mela da terra. Aveva
abbassato lo sguardo, chiedendosi se i suoi occhi non avessero avuto qualcosa
di estremamente sbagliato, non riuscendo a guardare le pozze di colore disseminate
sull’interezza della strada -impronte sbaffate di uomini e cavalli, segni di
ruote e oggetti caduti, come impressioni di pittura sulla tavolozza di un
pittore maldestro- senza rabbrividire.
Forse era
finalmente impazzito.
“Sherlock?”
aveva chiamato, cercando il Demone con gli occhi e soffocando nelle sue stesse
parole quando si era reso conto che lui, a differenza di tutto il resto, aveva
mantenuto il suo aspetto comune.
Si era
affrettato a guardarsi le mani, allora, sorprendendosi di nuovo per il fatto
che la sua pelle avesse mantenuto il tono vagamente bronzeo che aveva quel
mattino, e che così avessero fatto anche i suoi abiti. La confusione, a quel
punto, era stata tanto forte che John non aveva potuto fare a meno di guaire.
Il Demone
aveva probabilmente osservato l’intera gamma di emozioni che avevano
attraversato il viso del Dottore trovandole particolarmente esilaranti, perché,
quando John lo aveva guardato (dopo essere riuscito a sollevare gli occhi
dall’incredibile visione delle sue stesse unghie), sulla sua faccia stava
campeggiando un sorriso felino così ampio da fargli comparire delle fossette
nelle guance incavate. “Meraviglioso, non è vero?”
‘Meraviglioso’
non era proprio la parola che John avrebbe selezionato fra tutte quelle che
conosceva per descrivere ciò che aveva visto. ‘Interessante’, magari.
‘Terrificante’, probabilmente. No, di certo non ‘meraviglioso’.
In ogni
caso, per buona educazione, John aveva annuito. “Che cosa sono queste…
macchie?”
“Semplice, sono
le proiezioni delle emozioni che questi esseri umani provano, o hanno provato,
sulle loro stesse anime. L’anima di voi esseri umani è legata in maniera
imbarazzante ai sentimenti…” e il
disgusto era spillato dalla voce di Sherlock come vino da un calice agitato
malamente, “…quindi, quando essi sono particolarmente forti, rilasciano una
traccia colorata che può rimanere impressionata sugli oggetti che la
circondano. Prendi quell’ombra viola sulla porta di quella casa laggiù: ci dice
che in passato qualcuno si è recato in quel luogo ammantato in un forte
sentimento di tristezza. Potrei giurare che non molto tempo fa qualcuno,
proprio in quel luogo, abbia commesso suicidio.”
John aveva
seguito la direzione puntata dal dito guantato del Demone, deglutendo alla
vista della manata violacea stampata sul legno di un portone apparentemente non
diverso da tanti altri. Una giovane donna dai capelli scarmigliati (blu intenso
che si sprigionava dai suoi occhi) era congelata proprio lì vicino, e aveva fra
le braccia un bambino che non poteva avere più di tre anni, vestito certamente
in maniera troppo leggera per la stagione; il piccolo era circondato da un
alone bianco e puro come un manto di neve. Il disarmante contrasto tra quella
immagine e la visione della porta aveva portato il Dottore a digrignare i
denti.
Si era
domandato quale colore stesse mostrando in quel frangente il suo animo, e
subito si era reso conto di non volerlo sapere. Se fosse stato diverso dal nero
più cupo, addolorato e pieno di rimpianto, infatti, non se lo sarebbe mai
perdonato.
“Perché
riesco a vederle?” aveva domandato invece, attraverso denti serrati,
“Perché te
lo sto permettendo io.” gli aveva risposto Sherlock, compiaciuto di quella sua
concessione.
John aveva
abbassato lo sguardo, incapace per qualche strano motivo di sopportare per un
solo, ulteriore istante la vista di quelle iridi impassibili. “Quindi è questo
che cercheremo? Le macchie lasciate dallo Squartatore quando ha ucciso quelle
povere sventurate?”
“In un
certo senso. Anche se le tracce lasciate dalla disperazione e dalla paura delle
sue vittime saranno probabilmente molto più evidenti.”
Sherlock
aveva fatto spallucce, incamminandosi nella direzione che, John aveva
ipotizzato, li avrebbe condotti esattamente nel punto di quella strada in cui
Mrs. Nichols era stata rinvenuta. Punto che, viste le pennellate di nero,
viola, rosso e indaco che lo inondavano disordinatamente, John aveva potuto
scorgere già a metri di distanza. Sherlock si era inginocchiato nel mezzo di
quei colori crudeli come un bambino in un prato di fiori, perso apparentemente
in un mondo che soltanto lui era in grado di vedere; John, dal canto suo, aveva
dovuto lottare contro il fiotto acido che gli aveva invaso la bocca al pensiero
di ciò da cui quelle tonalità così cupe fossero scaturite. Quando il Demone
aveva iniziato a sussurrare, aveva dovuto chiudere gli occhi.
“La vittima
non si è accorta di quelle che erano le intenzioni dell’assassino fino
all’ultimo istante. Riteneva che fosse un cliente come tanti altri, e anche
quando le ha stretto il collo ha pensato -ha sperato- che fosse soltanto
un suo vezzo particolare. Poi la stretta si è fatta troppo forte, e Polly ha
finalmente compreso che non sarebbe sopravvissuta a quella notte. C’è tutto: lo
sconvolgimento della realizzazione, il desiderio di lottare per la sua stessa
vita, la paura, la rassegnazione. Posso quasi sentire il grido che la sua anima
ha emesso quando ha abbandonato il suo corpo…”
Era
rabbrividito, Sherlock, a quel punto, e John si era quasi sentito male. Perché
non era stata un’espressione di paura, o disgusto, quella che aveva letto sul
viso del Demone, ma una di puro ed animalesco desiderio. Per l’anima della
povera sventurata? L’uomo si era rifiutato di domandarselo. Comunque, forse per
la prima volta da quando aveva visto quegli occhi di ghiaccio, la certezza di
trovarsi effettivamente alla presenza di quello che nella Bibbia era descritto
come un parto dell’Inferno più profondo si era fatta strada in lui. Era stato
terribile, e doloroso più di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.
Inconsapevole
di ciò che era appena avvenuto alle sue spalle, Sherlock era scattato in piedi.
“Dalla massa di colore centrale si espandono delle propaggini più luminose e
brune. Ecco, queste sono le tracce del nostro assalitore.”
Aveva
esteso la mano sopra quegli sbaffi color legno bruciato, dai quali di erano
sollevate delle piccole luci del medesimo colore, che avevano formato un globo
nel palmo del Demone. Sherlock si era portato la mano al viso, lasciando che la
strana luminescenza del globo gettasse riflessi vaghi sulla sua pelle di
alabastro. “Zamram ol Amayo zomdv.”
Di nuovo
quella lingua dal suono antico. Di nuovo, John non era riuscito a capire che
cosa Sherlock avesse detto. Aveva potuto farsene un’idea, però, quando la sfera
di luce era letteralmente esplosa, e schegge luminose si erano infrante contro
la parete dell’edificio di fronte a cui lui e Sherlock stavano sostando. Ognuna
di esse aveva formato un alone luminescente, che si era poi animato di vita
propria: come se fosse stato mosso dal pennello sapiente di un artista, aveva
cominciato a danzare su quei mattoni unti, lasciandosi alle spalle scie di
colore disordinate.
In pochi
istanti, sulla parete erano comparse le immagini di un cappello di feltro, di
quelli con le falde usati dai cacciatori, schiacciato su una nuca coronata da
ordinati capelli biondicci; una mano sollevata nell’atto di colpire con un
affilato coltello a lama sottile, poi, e un taglio di occhi chiari e crudeli.
“Queste…
sono…” aveva balbettato John, senza potersi impedire di allungare una mano
verso quei dipinti che, vibranti, sembravano desiderare di balzare via dalla
parete.
Sherlock
aveva sospirato. “Le ultime immagini che gli occhi della vittima hanno
registrato prima di morire. O, meglio, le impressioni che l’anima dello
Squartatore ha lasciato sulla sua un istante prima che il suo cuore si fermasse
per sempre.”
John aveva
ritratto subito la mano, come se le sue carni fossero state lambite da fuoco
vivo. Aveva fissato quelle immagini, incapace di abbassare gli occhi, sentendo
la gola seccarsi al pensiero di ciò che doveva aver provato la povera Mrs.
Nichols negli istanti prima della morte: che fossero state emozioni tanto
diverse da quelle che aveva provato lui stesso, quando il proiettile Jezail era
penetrato nella sua spalla, frantumando l’osso, scalfendo l’arteria succlavia e
incendiando le sue terminazioni nervose?
Quei
pensieri amari non lo avevano abbandonato fino a quando Sherlock non aveva
poggiato una mano sulla sua spalla, schioccando le dita e facendo lentamente
calare un sipario su quello spettacolo di morte e rimpianto.
Nei tre
successivi luoghi che lui e Sherlock avevano visitato, le cose erano andate più
o meno allo stesso modo. Sherlock aveva privato il mondo dei suoi pigmenti
usuali per sostituirli con colori nuovi, aveva fatto comparire le piccole sfere
di luce che avrebbero proiettato frammenti dell’identità dello Squartatore
nello spazio circostante, poi aveva riportato tutto alla sua rumorosa, confusa
normalità. Nessuno dei passanti si era accorto di nulla: solo, ogni volta che
quelle macchie nere e arrabbiate erano comparse di fronte ai suoi occhi, John
aveva sentito il suo petto stringersi un po’ di più.
L’unico
scenario che aveva visto un cambiamento nella procedura di indagine del Demone
era stato il numero 13 di Miller’s Court, vicino a Dorset Street. John sapeva,
dalle lettere del Dottor Bond così come da ciò che aveva letto sui giornali,
che quello era l’indirizzo della stanza in cui era stato ritrovato ciò che
restava del corpo martoriato della povera Miss Mary Jane Kelly… non sapeva però
che, da quando era avvenuto quel terribile omicidio, quel luogo non era stato
più dato in affitto ad anima viva. Anche se, a ben pensare, non molti avrebbero
desiderato abitare in una stanza sulla carta da parati della quale era ancora
possibile vedere l’impressione del sangue che vi era stato riversato.
Quella
volta, quando Sherlock aveva sollevato il braccio e rivelato agli occhi di John
quelle che ormai nella sua mente avevano assunto il nome di ‘macchie di colore’
(per quanto Sherlock avesse insistito che affibbiare a quelli che erano a tutti
gli effetti i veri colori dell’anima umana un nome del genere sarebbe stato
equivalente a chiamare ‘schizzo’ il ‘Viandante sul mare di nebbia’ di
Friedrich), il Dottore aveva dovuto costatare che, più che presentare una
chiazza di colore scuro come i luoghi degli altri ritrovamenti, quella stanza
era letteralmente annegata nel nero più totale. Un nero minaccioso più scuro
della pece, che si estendeva su ogni centimetro di quel luogo, e colava dal
soffitto in grassi, unti goccioloni che producevano un tonfo umido impattando
con il pavimento di tavole marce. Aveva fatto venire in mente a John una
malattia, una di quelle che mangiavano le persone dall’interno fino a che non
era rimasto di loro che un involucro accartocciato e spento.
“Mio Dio…”
aveva sussurrato, senza potersi frenare. Quale inaccettabile, crudele e
insensata barbarie doveva essersi consumata in quel luogo per aver lasciato una
traccia del genere nella rete dell’esistenza?
“Non
temere. Il dolore e la paura sono durati solo un istante. Era morta ancora
prima di rendersi conto di quello che stava accadendo.”
La mano di
Sherlock era risultata calda, sul suo avambraccio; aveva scacciato il
raggelante senso di morte che gli aveva fatto dolere le ossa. Le parole del
Demone, che a un orecchio diverso dal suo sarebbero potute risultare tutto meno
che rassicuranti, avevano allentato il nodo in gola che stava minacciando di
togliergli il fiato.
John aveva
cercato gli occhi del Demone, tentando di sintetizzare in un unico sguardo lo
schiacciante senso di gratitudine che provava. Il Demone, dal canto suo, aveva
atteso che il corpo di John avesse smesso di tremare, prima di allontanarsi da
lui. Si era poi avvicinato al lurido materasso su cui la povera Miss Kelly era
stata seviziata, ed aveva portato a termine il suo luminoso rituale, stagliando
nel nero untuoso immagini di mani guantate, abiti eleganti e lame affilate.
Infine,
quando quei fotogrammi erano spariti, aveva sorpreso il Dottore di nuovo… con
un tuffo di schiena su quel traballante e arrugginito letto sul quale poco
prima aveva proiettato l’immagine di un assassino. Letto che -il Dottore non
aveva potuto fare a meno di notare- era ancora macchiato del sangue della Kelly
e che, in quel momento, pareva essere ricoperto di putredine nera. Non il luogo
ideale per distendersi, proprio no. A John si erano drizzati i capelli sulla
nuca.
“Non posso
dire che visitare le scene del crimine sia stato particolarmente utile…” aveva
affermato Sherlock, le mani giunte di fronte alle labbra e le palpebre
mollemente chiuse, ignaro del fatto che John stesse avendo un piccolo attacco
di cuore per il disgusto, “…ma, mi ha fatto capire delle cose estremamente
interessanti.”
John
-disperando all’idea di doversi muovere in quel luogo tanto macabro- si era
avvicinato a sua volta al materasso, senza la minima intenzione di toccare la
superficie ma pronto ad udire la rivelazione del Demone.
Sherlock si
era schiarito la voce, solennemente. “Il nostro assassino… è un perfetto
idiota.”
E… no.
Quella non era stata decisamente l’illuminante rivelazione che John si era
aspettato.
“P-perché?”
aveva balbettato il Dottore, sperando che i suoi occhi non saltassero fuori
dalle orbite per lo stupore,
“Oh, è così
ovvio. Lasciando da parte il fatto che abbia seminato indizi ovunque, o che si
sia esibito in un poverissimo lavoro di
chirurgia, non ha preso neppure le precauzioni necessarie affinché i vistosi
abiti che indossava -portava un mantello,
ti rendi conto?- non si inzuppassero completamente di sangue. Non dico quando
ha tagliato la gola alle sue vittime, ma quando ha infierito sui loro corpi,
capisci? Ti immagini cosa avrebbero pensato i passanti, se dopo ogni omicidio
avesse preso immediatamente il treno e se ne fosse tornato a Liverpool? Bah!”
John si era
concesso un momento di riflessione, giusto per far digerire al suo cervello
tutte quelle nuove informazioni. Se non avesse sperato meglio, a quel punto
avrebbe ceduto all’idea di essere, se comparato a Sherlock, un bambino non
particolarmente sveglio con un’idea alquanto sommaria e sfocata di quello che
stava accadendo intorno a lui.
“Un treno?”
aveva domandato alla fine, cedendo alla curiosità che sembrava volerlo divorare
dall’interno,
“Già.”
aveva brevemente risposto il Demone.
“Un treno…
per Liverpool.”
“Esatto.”
“Posso
domandare perché?”
Sherlock
aveva sospirato, il travaglio nella voce del Dottore tanto evidente da
provocargli quasi fastidio. “Non è forse quello che hai fatto per tutto il
giorno, chiedermi il perché di ciò che dicevo? Quello, e dirmi quanto le mie
deduzioni fossero straordinarie.”
E se quelle
parole avevano bruciato sulla pelle di John come braci vive, beh, lui di certo
non ne avrebbe mai fatto menzione.
Si era
umettato le labbra, stringendo i pugni. “Non mi sei sembrato dispiaciuto di
sentirmelo dire.”
“Oh, no.
Anzi, puoi continuare quanto vuoi.” aveva ammesso il Demone, dimettendo quella
discussione con un gesto della mano e
balzando in piedi con un rapido, rapace movimento, per poi bloccare i
suoi occhi di ghiaccio in quelli di John, “Dimmi: qual è la prima regola che,
se seguita, fa di un criminale un buon criminale?”
Il Dottore
era rimasto spiazzato per un istante, ma deciso a non farsi prendere di nuovo
in contropiede aveva esclamato: “Non colpire mai due volte nello stesso posto.”
Sherlock
aveva roteato gli occhi, esasperato. “Sbagliato. La prima regola è: mai colpire
sulla soglia della propria casa.”
Dalle
labbra di John era sfuggito un suono indefinibile, a metà tra uno sbuffo e un
grugnito. Per quanto, infatti, Sherlock gli avesse fatto dono per tutto il
giorno di rare perle di genialità, ciò che aveva appena detto era risultato
talmente ovvio da parere quasi grottesco. Insomma, quale criminale sarebbe
stato tanto stupido da compiere un crimine nella sua stessa casa? Non sarebbe
stato forse più probabile ricadere nella lista dei sospettati, a quel modo?
Oh.
John aveva
dovuto mordersi la lingua per non darsi dello stupido da solo, quando la
comprensione aveva alla fine fatto breccia dentro di lui. L’espressione
compiaciuta che era nata sul volto di Sherlock quando aveva scovato nei suoi
occhi le tracce di quella sua improvvisa illuminazione, poi, non aveva aiutato
di certo la sua già lesa autostima.
“Il nostro
Squartatore non vive a Londra, John. Conosce Whitechapel come le sue tasche,
probabilmente perché ha vissuto non lontano dal quartiere per qualche tempo, e
giustifica le sue sortite a Londra in virtù del suo lavoro di mercante. Ma non
abita qui.”
John aveva
scosso la testa, sconfitto ma deciso a lottare ancora per un po’.“Perché
proprio Liverpool? Non potrebbe essere Manchester, o qualche altra città?”
Sherlock
gli aveva poggiato una mano sulla spalla, schioccando la lingua soddisfatto.
“No, sono certo che sia Liverpool. Il perché è davvero semplice. Come ti ho
detto, viste le condizioni in cui doveva ritrovarsi dopo aver commesso i suoi
omicidi, è altamente improbabile che il nostro assassino se ne sia tornato a
casa nell’immediato. Ha avuto bisogno di un posto dove ripulirsi, dove passare
la notte e organizzarsi per il colpo successivo. Ora, la decisione più logica
per una persona nella sua condizione sarebbe stata quella di rivolgersi a un
dormitorio. Quei posti sono così colmi di disperati che nessuno avrebbe notato
le macchie di sangue sui suoi vestiti, e anche se qualcuno avesse storto il
naso, elargendo qualche moneta si sarebbe assicurato un totale silenzio.
Secondo te, il nostro uomo è una persona logica?”
Quella
domanda inaspettata aveva fatto sobbalzare John, che aveva guardato Sherlock
con la bocca spalancata. “Lo chiedi a me?”
aveva risposto, puntandosi l’indice al petto, come se avesse voluto rendere più
chiaro al Demone il fatto che stesse chiedendo un’opinione proprio all’uomo
privo di qualsiasi capacità deduttiva che aveva di fronte,
“Esatto.
Jack lo Squartatore è una persona logica, secondo te?”
John aveva
riflettuto a lungo, ponderando la possibilità che quella domanda celasse un
qualche tipo di trabocchetto. Come si poteva essere certi, avendo a che fare
con un Demone?
“N-no?”
aveva azzardato, infine, strizzando gli occhi nella sicurezza di aver scelto
l’opzione sbagliata. In fondo, non era lui quello che lanciando una moneta non
era mai riuscito a indovinare se sarebbe uscita testa
oppure croce?
“Esattamente!
Non lo sa neppure cosa sia, quell’uomo, la logica!” aveva invece esclamato
Sherlock, battendo le mani come un bambino entusiasta, “Il suo senso di
superiorità non gli avrebbe mai permesso di rivolgersi a tali, infimi lidi! Ha
affittato una stanza, una stanza privata. Tenendo conto della sua
abitudinarietà, oserei affermare che ha scelto sempre la stessa per tutti e
cinque gli omicidi.”
John aveva
fissato. A lungo, e con intensità. Poi, aveva annuito. “Capisco… ma cosa
c’entra questo con Liverpool?”
Il Demone
aveva piroettato su se stesso, sollevando i mesi di polvere che si erano posati
sul pavimento di quella minuscola stanza in una nuvola lanuginosa.
“C’entra
tutto! Sostengo che lo Squartatore non sia una persona logica, non che sia uno
stupido! Voleva una stanza privata, questo è certo, ma non una stanza
qualunque: gli serviva una stanza situata in una strada abbastanza vicina ai
luoghi dove avrebbe colpito, quindi una strada di questo quartiere; inoltre, la
strada prescelta doveva avere proprietà che avvantaggiassero il nostro
assassino nel compimento del suo progetto. Inizialmente, avevo isolato tre
strade che, in Whitechapel, sarebbero state adatte alle sue esigenze. Adesso,
sono sicuro di poter restringere il campo a una sola: Middlesex Street.”
Al Dottore
aveva cominciato a fumare la testa. Troppe informazioni, troppi eventi da
concatenare. Soprattutto, ancora nessun dettaglio che avesse fatto scattare
nella sua mente alcuna scintilla riguardo alla necessaria ubicazione della
dimora dello Squartatore nella città di Liverpool. John aveva lanciato a
Sherlock uno sguardo supplice, guadagnandosi in risposta uno sbuffo scocciato.
“Middlesex
Street rappresenta il confine naturale tra le giurisdizioni della Polizia
Metropolitana e della Polizia della City, John. Questo ha permesso a Jack di
effettuare i suoi omicidi ora da una parte, ora dall’altra della linea di
demarcazione rallentando le indagini a causa delle burocrazia. Quella strada è
finita anche sui giornali per essere stata teatro di agitazioni antisemite
-capisci da solo che il nostro amichetto voleva scaricare la colpa sugli ebrei,
o devo ricordarti il graffito che ha lasciato in Goulston Street?
Non ho finito: Middlesex Street non è molto distante da Cullum Street, centro
importantissimo per il commercio di cotone e stoffe e, udite udite -beh… odi,
odi visto che ci sei solo tu- luogo dove anni fa venne costruita una stazione
da cui partono a tutte le ore treni diretti in una città in particolare. Che
è…?”
Lo stava
forse trattando come un bambino? Perché John aveva avuto la netta sensazione
che Sherlock lo stesse trattando come un bambino. In reazione a
quell’atteggiamento da parte del Demone, aveva incrociato le braccia al petto,
alzandosi gli occhi al cielo in una muta richiesta di pazienza a qualunque
entità fosse stata in ascolto in quel momento. Non era del tutto certo del
motivo, ma aveva a certezza che in quell’anno che avrebbe trascorso al fianco
di Sherlock ne avrebbe avuto un immenso bisogno.
“Liverpool?”
aveva brontolato alla fine, nervoso, senza guardare il Demone negli occhi.
Di fronte
al suo evidente fastidio, Sherlock lo aveva incenerito con lo sguardo. “Sì.
Liverpool. La prossima volta però evita di borbottare. Potrei sempre cambiare
il contratto e strapparti la lingua, sai?”
La minaccia
sarebbe stata evidente in quelle parole anche se, nel pronunciarle, Sherlock
non avesse scoperto i denti in un ghigno. John aveva sentito la sua pelle
accapponarsi, e con gli occhi tristi della giovane Molly Hooper nella mente
aveva serrato le labbra simpateticamente, come se quel gesto avesse potuto
proteggere il delicato pezzo di carne che racchiudevano dalla follia del Demone
che aveva di fronte.
Sherlock
aveva ringhiato. “Fantastico. Adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, direi
che una sortita a Middlesex Street sarebbe d’obbligo. Mi auguro che tu non
abbia fame, perché non ho la minima intenzione di perdere tempo per qualcosa di
inutile come il cibo, non quando ho un Caso come questo sotto mano.”
Aveva
lanciato un ultimo, glaciale sguardo a John, per poi tranciare l’aria della
stanza con la sua mano affilata. I colori e i suoni di quella camera e della
strada circostante avevano ripreso il loro posto prepotentemente, troppo in
fretta perché i sensi di John potessero riadattarvisi senza che l’uomo
sperimentasse un istante di spiazzante disorientamento. Non era stato così, le
quattro volte precedenti: Sherlock aveva restituito alla realtà la sua
consistenza naturale con delicata lentezza, gradualmente, come un grammofono il
cui volume fosse stato aumentato pian piano per non ferire le orecchie di chi
lo stesse ascoltando. Probabilmente, John aveva pensato, il Demone doveva aver
esaurito la sua scorta di pazienza.
Come a
voler confermare questa sua supposizione, Sherlock era uscito da quella misera
stanzetta a passo di carica, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo
assordante. Sospirando soffertamente, John aveva forzato i suoi piedi a
muoversi per seguirlo.
***
C’era un
unico locale, in tutta l’interezza di Middlesex Street, che offrisse un
servizio di affitto di stanze a lungo o breve termine. John l’aveva definita
una botta di fortuna -Sherlock, indignato, aveva sostenuto che la fortuna non
avesse alcun ruolo in quello che loro due stavano facendo.
Il pub in
questione, che come molti pub di Londra era situato nell’angolo dell’edificio
che lo ospitava, possedeva a segnalare la sua presenza un’eccessivamente grande
insegna in ferro battuto, arrugginita agli angoli e plasmata per assumere la
forma di un grosso, minaccioso roditore. Il nome del posto, come quell’insegna
comunicava, era ‘The Stinky Rat’… ma avrebbe potuto perfettamente chiamarsi
“Mosquito”, visto il quantitativo di zanzare e altri insetti che affollavano
l’aria muffosa di quel buco. Sherlock e John vi si erano introdotti con passo
sicuro, certi di mescolarsi in quella babilonia di volti e corpi scoloriti che
rappresentavano i clienti di quel locale senza alcuna difficoltà. Per quanto
però questa certezza si fosse rivelata esatta nel caso di John -che grazie alle
appariscenti macchie di fango e sporcizia, che ornavano i calzoni di fine
sartoria che indossava non era apparso poi troppo diverso dai chiassosi rifiuti
di strada che si erano stipati sugli sgangherati sgabelli che circondavano il
bancone- per Sherlock, beh… era stata tutta un’altra storia.
Non c’era
stata una singola testa, infatti, che non si fosse voltata verso di lui quando
il moro aveva fatto il suo trionfale ingresso nella minuscola locanda. John
aveva potuto chiaramente vedere la procace locandiera adocchiare avidamente il
Demone da dietro al bancone che puliva distrattamente con un panno già sporco
(uno sforzo inutile, viste le condizioni in cui lo stato della superficie
versava); anche una delle sguattere non era riuscita a non perdere il suo
sguardo su di lui, e per poco non aveva rovesciato il contenuto dello
stracarico vassoio che portava su una coppia di clienti dall’aria losca. E non
era tutto… il Dottore avrebbe potuto giurare addirittura di aver sorpreso
diversi uomini nascondere dietro ai loro boccali e ai loro ispidi mustacchi dei
sorrisi ambigui e insinuanti -una sensazione amara che ancora stentava ad
abbandonarlo, quella che aveva provato nell’accorgersene.
Ignaro (o
più probabilmente totalmente incurante) del focolaio di attenzione che aveva
attirato su di sé, il Demone aveva compiuto un primo passo verso il bancone:
come se avessero percepito tutta la sua potenza, i clienti di quella bettola gli
avevano sgomberato il passo, creando un corridoio di volti basiti e bocche
spalancate di cui anche John aveva potuto beneficiare per stare dietro alle
lunghe falcate del suo compare. Raggiunto il suo obiettivo, Sherlock vi si era
abbandonato contro lascivamente, attirando con uno sguardo l’attenzione della
rubiconda locandiera; nascondendo il sudicio straccetto che aveva tra le mani
nell’ampia tasca dell’altrettanto sporco grembiule che le stringeva la vita, la
donna si era passata una mano tra i capelli, per poi rivolgersi al Demone con
tono allegro.
“Cosa
desiderate, signore?” aveva domandato, sporgendosi sopra il bancone con lo
spudorato intento di sbattere sotto gli occhi di Sherlock la sua mercanzia -
gesto che aveva fatto risalire un ringhio involontario dalla gola di John, che
si era trovato costretto a simulare un colpo di tosse nel tentativo di
nasconderlo.
Il Demone
gli aveva lanciato uno sguardo malizioso, prima di voltarsi di nuovo verso il
donnone e dire, con voce di burro: “Un brandy per me, e un boccale di birra
ghiacciata per il mio amico.”
Con quali
soldi sarebbero state pagate le loro ordinazioni, John non se l’era neppure
domandato: la sete era stata troppa, per curarsi di quel genere di trivialità.
Si era leccato le labbra, invece, mentre la locandiera riempiva fino all’orlo
un boccale sbeccato di liquido dorato, cercando di non far caso alle occhiate
sdegnose che la donna gli aveva lanciato durante tutto il processo e fallendo
miseramente nell’intento. In ogni caso, l’irritazione che l’irriverenza della
padrona di quell’osteria buia e maleodorante avrebbe potuto suscitare in lui
era stata spazzata via ben presto dal refrigerio che la prima sorsata di birra
gli aveva donato scendendo lungo la sua gola riarsa.
Non era
forse la birra migliore che il Dottore avesse mai bevuto, ma in quel momento
non aveva potuto pensare a bevanda che avrebbe avuto tra le mani più
volentieri.
Mentre lui
si godeva con evidente soddisfazione quello che Sherlock aveva ordinato per
lui, il Demone -facendo roteare il suo brandy dentro il bicchiere con piccoli
scatti del polso- aveva conversato fittamente con l’ostessa, tenendo al
contempo d’occhio il locale intorno a lui.
“Bel posto,
questo. Non deve essere facile gestirlo da sola.” aveva iniziato, mentendo così
spudoratamente che per poco John non si era soffocato con un sorso di birra,
“No, non lo
è per niente, signore. Sebbene io lo faccia più per il piacere di incontrare
gentiluomini come voi, che per ricavarne denaro.” aveva sparato la donna in
risposta, e in quel caso John non aveva potuto proprio farci niente: aveva
riso, spillando il liquido che aveva in bocca sul bancone e mancando di poco la
giacca di Sherlock.
Allo
sguardo caustico del Demone, John aveva subito alzato una mano in segno di
scuse, cercando di soffocare le risa e ricomporsi un minimo. Dopo avergli
lanciato un’ultima occhiata di ammonimento -non priva però di una scintilla di
complicità- Sherlock era tornato a rivolgersi al donnone dallo sguardo languido.
“Dicevamo…ah,
sì! È stato un mio carissimo amico a parlarmi di questo posto, sapete? Ha
alloggiato qui un paio di anni fa, alcune notti a qualche mese di distanza
l’una dall’altra…”
“Ah, sì?
Che cosa stupenda!” aveva gridato la donna, sbattendo con forza le mani sul
bancone -e rischiando di far prendere a John un attacco di cuore.
Sherlock
aveva sospirato, il fastidio per quell’interruzione evidente nel tono livido
che aveva assunto la sua pelle. “Già… mi chiedevo, non è che per caso vi
ricordate di lui? È un uomo piuttosto alto, sempre ben vestito, con occhi
chiari, baffi e capelli biondicci… oh, ed è un commerciante in cotone. Ora, so
che non deve essere facile ricordare le facce di tutti i clienti che abbiano
pernottato qui, dato che devono essere molti…”
Stava forse
scherzando? John, nascondendosi dietro il boccale di birra, aveva spostato lo
sguardo dalla pila di piatti sporchi ammucchiati alle spalle della corpulenta
locandiera -da cui si sollevava un nugolo di mosche dall’aria arrabbiata-
all’uomo ubriaco svenuto nel suo stesso vomito del tavolo all’angolo, per poi
farlo approdare sulle macchie di fango che ricoprivano il pavimento. Aveva
lanciato a Sherlock un’occhiata carica di scetticismo, condendo il tutto con
uno sbuffo divertito. Il Demone, senza guardarlo, gli aveva rifilato una
gomitata nelle costole.
“Oh, a me
la vostra descrizione non dice niente… sapete, la mia memoria non è più quella
di una volta…” era stata la risposta della locandiera, che pareva non aver
fatto caso alla reazione del Dottore, “… ma se c’è qualcuno che può ricordare,
quella è mia… figlia. Sì, mia figlia. Non si scorda mai una faccia, quella
ragazzina.”
E se quello
fosse stato un complimento, oppure una critica, nessuno lo avrebbe potuto
stabilire con certezza. La donna si era voltata verso una stretta porticina,
nascosta da un pesante e stracciato tendaggio che, un tempo, doveva essere
stato blu.
“Peg?
Peggy! Vieni qui, un cliente ha bisogno di te!” aveva urlato, per poi
borbottare fra sé e sé una serie di insulti biascicati e incomprensibili.
A quel
richiamo, una testolina nera e arruffata aveva fatto capolino da dietro lo
stipite della porta, quasi troppo spaventata dal vocione che l’aveva richiamata
per uscirne completamente. ‘Peg’ si era rivelata essere una bimbetta magra in
maniera quasi spaventosa, con profonde mezzelune violacee a segnarle gli occhi
nerissimi e uno sguardo ben più maturo dei dodici anni che, a occhio e croce,
doveva aver trascorso sulla terra. Vedendola, a John si era stretto
dolorosamente il cuore.
“Eccoti
qui! Forza, svelta! Non ti azzardare a far aspettare questo gentile signore,
altrimenti...” aveva sbraitato la donna, afferrando la piccola per un braccio e
stringendo fino ad avere le nocche bianche. In un istante John era stato sicuro
che quella non potesse essere realmente la madre della bambina: non
c’era alcuna possibilità, infatti, che una madre afferrasse la figlia con tale,
immotivata violenza, né che vedendo avvicinare la donna che l’aveva messa al
mondo una bambina si ritraesse come di fronte a un pericolo mortale.
Mascella
serrata fino a far male, i pensieri di John erano corsi ad Hamish -sempre ad
Hamish, solo ad Hamish- e la sua mano si era chiusa in un pugno. Svelte e
silenziose, le dita di Sherlock avevano raggiunto le sue, in un gesto che aveva
voluto essere al contempo mitigante e confortante. Un ‘ti capisco, ma non puoi
permetterti di fare una scenata’ che aveva fatto rallentare i battiti del cuore
di John e aveva scacciato -anche se solo in parte- l’amarezza dal suo umore.
John non aveva allontanato la mano di Sherlock, anzi, era stato ancor più grato
di quel contatto quando la terribile locandiera aveva cominciato a rivolgersi
alla bambina con acido nella voce.
“Il signore
chiede di un uomo coi baffi e i capelli chiari che ha alloggiato qui un paio di
anni fa. Un gentiluomo, ben vestito. Ricordi niente?”
Il viso di
Peg si era contorto per la concentrazione, mostrando i tratti affilati dalla
fame di un viso che ancora avrebbe dovuto essere rotondo e infantile. Aveva
spinto fuori le labbra, forse per il dolore che la ferra presa di colei che si
era presentata come sua madre stava infliggendo al suo braccio; poi, come se
avesse avuto un’illuminazione, aveva esclamato: “Lo ricordo! Ha pernottato
nella stanza cinque per alcune notti.” per aggiungere, con voce flebile come
una brezza estiva “È stato gentile, con me. Mi ha lasciato provare il suo
cappello…”
“Bene. Vai,
ora.” l’aveva quasi subito interrotta sua ‘madre’ con un sibilo,
reindirizzandola verso la porticina da cui era uscita con uno spintone.
John
l’aveva osservata sparire, silenziosa come un gatto, come se avesse avuto paura
di disturbare -il forte furore che aveva provato come un coltello piantato
nelle sue tempie. Si era morso le labbra, supplicando mentalmente che Sherlock
terminasse la sua conversazione con quella donna prima che l’ira che stava
crescendo in lui avesse raggiunto un impeto troppo irruento perché riuscisse a
controllarla. Solo vagamente aveva udito Sherlock domandare se la stanza di cui
Peg aveva parlato fosse stata libera in quel momento. Al sì della locandiera,
il Demone aveva tratto dal nulla un sacchetto di velluto pieno di tintinnanti
sterline, lucide e scintillanti come se fossero state appena portate via dal
conio.
“Allora se
non vi spiace vorremmo darle un’occhiata. Dovremmo trascorrere una notte a
Londra, e quale posto migliore per farlo se non una delle vostre bellissime
stanze?”
La donna
aveva ridacchiato, lusingata, e in un istante il sacchettino di Sherlock era
sparito nei meandri del suo grembiule. “Prego, seguitemi! Prendo la chiave, e
vi porto su immediatamente!” aveva esclamato, voltando le spalle al bancone e
incamminandosi verso la traballante scalinata di legno che si intravedeva
appena nell’angolo più remoto del locale.
Sherlock
aveva abbandonato il suo -ancora pieno- bicchiere di brandy sull’ammaccata
superficie, strappando il boccale dalle mani di John e poggiandovelo vicino.
Vibrante di energia si era incamminato per inseguire la locandiera, ma svelto
John lo aveva afferrato per il braccio:
“La
bambina, Peg!” aveva esclamato sotto voce, avvicinandosi all’orecchio del
Demone perché lui soltanto potesse sentire, “Non è figlia di questa donna.”
Sherlock si
era irrigidito, esalando un flebile sospiro. “Lo so.”
“Avete… hai
visto come la tratta? Non possiamo far niente per aiutarla?”
In un primo
istante, alla richiesta del Dottore aveva risposto solamente il chiassoso
brusio del locale, tanto che John si era domandato se Sherlock lo avesse
sentito. Ogni dubbio era stato fugato quando, con volto privo di qualsiasi
emozione, il Demone lo aveva guardato negli occhi.
“Cosa
vorresti fare? Portarla via? Affidarla ad un istituto? Non sono certo che
questa sia la scelta migliore per lei. Questa donna l’ha raccolta dalla strada
quando era poco più che una neonata, e l’ha cresciuta da allora. È brusca con
lei, ma le offre una casa in cui vivere e cibo di cui sostentarsi: credi che ci
sarebbe grata se la allontanassimo da qui? Credi che sarebbe più felice in un
orfanotrofio?” gli aveva domandato, serio, aspettando che John scuotesse la
testa prima di distogliere lo sguardo da lui.
Deglutendo
a fatica, John aveva allentato la presa sul Demone, che veloce come un alito di
vento era scivolato verso la scala che li avrebbe condotti alla fatidica stanza
che aveva ospitato l’uomo cui stavano dando la caccia. Certo, quello che
Sherlock aveva detto era vero, e John sapeva perfettamente quale fosse
generalmente il destino di un bambino orfano in quella loro epoca -soprattutto
se il bambino in questione fosse stato tanto sventurato da essere nato femmina.
Gli orfanotrofi erano luoghi inospitali e freddi, gestiti da persone senza
scrupoli, che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di lucrare sui poveri
sventurati che erano affidati alle loro cure. Quante volte, durante la sua
carriera di medico, gli era capitato di riportare alla salute orfani ammalatisi
per aver dovuto lavorare fino allo sfinimento? Quanti piccoli corpi, viola per
i lividi e neri per la sporcizia, aveva dovuto rimettere insieme dopo che l’ira
della persona che avrebbe dovuto tutelarli si era abbattuta su di loro?
Eppure,
nonostante quella lapidaria consapevolezza, mentre saliva pian piano le scale
di legno facendo eco con i suoi passi a quelli più rapidi di Sherlock, non era
riuscito a liberarsi dal forte senso di pesantezza che sembrava deciso a
opprimergli il cuore.
Note dell’autrice:
Siamo in dirittura
d’arrivo. Lo prometto, dopo il prossimo capitolo potremo gettarci la storia di
Jack Lo Squartatore alle spalle, e non farne parola mai più. Dovevo terminarla
con questo, ma ho dovuto spezzarlo a metà: avrei rischiato di pubblicare un
capitolo lungo trenta pagine, ma concluso in fretta e furia. Questa mi è
sembrata un’alternativa migliore xD
Grazie per la pazienza
che avete ;) e soprattutto per tutto il vostro sostegno :D mi spingete a
mettercela tutta, sempre, e non potrò mai ringraziarvi abbastanza per questo ;)
Se tutto andrà come deve
andare, a domenica per il prossimo aggiornamento ;)
Un bisou :*