L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
PROLOGO
Nevicava.
Nevicava
sempre.
Ci
era cresciuta in quella città ammantata di
ghiaccio che non conosceva altro che coltri bianche e gelo perenne.
Aveva mosso
i suoi primi passi nelle neve, aveva colto la prima rosa, orlata di
cristallo e
tanto bella che quasi aveva pianto, negli immensi giardini del palazzo.
Aveva
tenuto la mano alla sua bellissima sorellina dalla chioma argentata
mentre a
sua volta imparava a camminare, con loro padre che le studiava da
lontano, le
braccia conserte e un sorriso lieve. L’aveva sostenuta,
l’aveva abbracciata
nelle notti gelide, perché al contrario di lei la piccola il
freddo lo sentiva
e tremava come una foglia.
Le
era sempre stata accanto, aveva impedito che
conoscesse la solitudine che il gelo del loro mondo aveva gettato su di
lei.
Ricordava
come qualcosa le si era sciolto dentro
quando aveva stretto la mano della piccola, quando sua sorella le aveva
sorriso
per la prima volta. Era stato il giorno in cui aveva capito che non
sarebbe
stata più sola. Il giorno in cui aveva smesso di sentirsi
sola.
Paragonato
alla durata della loro vita tutto
questo era accaduto solo ieri, ma per lei quei pochi attimi si erano
verificati
un’eternità prima.
Ora
la neve si stava trasformando in una tormenta
mentre ripercorreva gli stessi scalini che aveva salito correndo nella
sua
infanzia.
Il
tempio sorgeva sulla cima di un’altura tagliata
da un’infinita ripida scalinata scolpita nel ghiaccio e
consumata dai secoli. A
volte gettava uno sguardo sulla città sottostante,
schiacciata dall’imponente
presenza di quel luogo sacro e da ciò che esso rappresentava.
Una
follia a cui avrebbe messo fine.
O
forse era lei, a star commettendo una follia?
La
folla, le urla, il fumo.
Sentiva
gli assordanti rumori della morte
provenire da lontano, ma le fiamme crepitanti che già si
levavano, fomentante
dal vento gelido che spargeva scintille, e il fumo acre che rendeva
l’aria
pestilenziale nascondevano ai suoi occhi la danza macabra che si stava
compiendo grazie a lei.
I
suoi Alfar si erano introdotti attraverso le
ciclopiche mura di Neanna durante la notte, col favore delle tenebre, e
avevano
iniziato a razziare e uccidere senza pietà gli abitanti
molto prima che
l’allarme venisse dato. Le campane della Cattedrale dei
Peccatori suonavano
incessanti come monito alla strenua difesa, ma era troppo tardi, il
nemico era
dentro le mura, lei stessa ve lo aveva condotto. Era la prima volta
nella
Storia che il suolo sacro di Neanna veniva profanato, la prima volta
che le
infallibili mura di ghiaccio venivano varcate da entità
prive del sangue
dell’Eletta Stirpe.
Tornò
a guardare davanti a sé, allontanando i
rimpianti.
Un
portico circolare privo di archi si apriva
davanti a lei, sostenuto da colonne larghe dieci piedi, scolpite nel
più
limpido cristallo con capitelli decorati di amaranto e agrifoglio.
Amaranto
e agrifoglio ovunque.
Eternità,
immortalità, spirito combattivo, fedeltà
alla propria causa, speranza.
Quanti
significati per dei piccoli, insignificanti
fiori.
«Nostra
signora?»
La
voce secca del Dokkalfar la risvegliò. Aveva
portato con sé quaranta Alfar e ora rimpiangeva di non aver
preso delle
maggiori contromisure. Non aveva idea di quanti membri della setta la
aspettassero al di là del portone e non era certa che i suoi
soldati sarebbero bastati.
Stava
esitando, loro lo sentivano.
«Andiamo,
ormai sapranno di noi»
Attraversare
il piazzale era come camminare su un
lago ghiacciato, molto più sicuro certo, ma sotto lo strato
solido della
superficie sembrava davvero che vi fosse dell’acqua.
Percorse
la strettoia costeggiata da colonne fino
alla facciata del tempio: dietro al peristilio l’immenso
portone era spalancato
verso l’interno e lasciava uscire l’aroma
dell’incenso.
«Mostyn»,
chiamò piano, in un sussurro appena
accennato.
L’Alfar
le fu subito accanto, dritto come un fuso
e pallido come la morte. Aveva occhi verdi, di un verde tanto tiepido
da
risultare quasi trasparente, e la bocca bluastra era contratta quanto
le sue
sopracciglia bianche. Un fantasma, ecco cos’era il suo
generale, uno spirito
sottratto al sottosuolo.
«Dieci
di voi entrino per primi e controllino la
situazione»
«Come
desiderate, Signora»
Attese
in silenzio, la mano contratta intorno al
bastone a doppia lama legato alla schiena, pronta a sganciarlo al
minimo
segnale di pericolo e si rilassò solamente quando un
Dokkalfar le fece cenno di
entrare.
L’immensa
sala era vuota e silenziosa, le tre
navate prive di qualunque ornamento erano opache senza il sole che
baluginava
sulle pareti creando giochi di luce. Sembrava quasi abbandonato, non
fosse
stato per l’incenso, un odore che lei odiava e di cui il
tempio era sempre
stato impregnato.
Prendeva
alla gola, così dolciastro da dare la
nausea.
Lasciò
vagare i suoi occhi cerulei sulle superfici
delle arcate e dei colonnati intarsiati d’oro e
d’avorio, si soffermò sulle
fredde spoglie pareti fino all’altare: vuoto.
Non
si aspettava veramente di trovare l’Artefatto
al suo posto, eppure non le riuscì di non provare delusione.
Sarebbe stato
tutto più facile, se non avesse dovuto incontrare lei.
Non
era cambiato nulla, ogni cosa era esattamente
come i suoi ricordi le avevano raccontato, quel luogo era sospeso
eternamente
fra le pieghe di un tempo immortale che le causava disgusto. Non
c’era spazio
per il cambiamento, ma lei lo avrebbe portato con il ferro e con il
fuoco,
fosse stato necessario.
I
Dokkalfar stavano perlustrando ogni anfratto
senza successo.
Dove
era il Capus Caelum? Perché non la stava
aspettando proprio lì, davanti a quell’altare che
aveva giurato di difendere,
con una spada sguainata?
Era
probabilmente l’ultima occasione che avevano
di rivedersi… il Capus Caelum non poteva tradirla anche
nell’ultimo momento.
Cercò
di rimanere presente a se stessa, di non
farsi prendere dai ricordi e soprattutto non dalla tenerezza, quella
che aveva
sempre provato per lei. Non c’era spazio per gli errori ora
che il tempo era
giunto e non aveva intenzione di rinunciare.
Sospirò
e, in mezzo alla navata centrale, aspettò
studiando cauta l’ambiente, in attesa di un suono che non
avrebbe tardato ad
arrivare, perché almeno questa volta era certa che il Capus
Caelum non
l’avrebbe delusa.
Non
si scompose quando il rumore di numerosi passi
sul ghiaccio riecheggiò nelle arcate, ma non
riuscì a impedire ai suoi muscoli
d’irrigidirsi e alla sua mano di correre agile al bastone
sulla sua schiena,
con un movimento preciso e spontaneo.
Serrò
la mascella e trattenne il fiato. Dentro di
sé combattevano il desiderio dello scontro e una
reminescenza di quella che
poteva chiamare coscienza. Era stato l’odio a portarla a quel
preciso istante,
ed il rancore che non era riuscita a soffocare. Ed ora, ad essi, si
affiancava
la paura dell’inevitabile. Tutto franava sotto i suoi piedi e
non c’era alcun
modo di tornare indietro, perciò s’impose
d’ignorare con fermezza la voce che
da dentro le ricordava tutto l’affetto e l’amore
che un tempo l’avevano legata
alla bimba argentata.
Stimò
una ventina di Fulakas, i Custodi del
tempio, che andavano loro incontro. Molti più di quanto si
aspettasse.
Gli
Alfar si radunarono trepidanti alle sue
spalle, in attesa di un suo segnale per agire, le armi già
sguainate.
«State
pronti, stanno arrivando», mormorò sempre a
fil di voce.
Alcuni
fra i Dokkalfar annuirono
impercettibilmente, ma la loro inquietudine appestava l’aria
più dell’incenso,
e per un essere dotato di una forte empatia come lei tutto quel
nervosismo
rendeva più difficile la concentrazione. Avevano paura di
scontrarsi con i
Custodi della Pietra ed erano consci del fatto che ben pochi di loro
sarebbero
arrivati alla fine della giornata.
Solo
da Mostyn, il viso affilato imperlato di
sudore, i capelli bianchi spettinati celati malamente da un elmo che
poco
concedeva alla protezione, non trasudava alcun turbamento. Restava
fiero e
immobile accanto a lei, con la pacata calma di un essere millenario che
di vite
ne aveva viste e vissute migliaia e che con il suo vuoto sguardo
reclamava la
stessa vendetta che l’aveva spinta lì a sua volta.
Da
un’entrata secondaria ad arco, non distante
dall’altare, comparvero i primi Fulakas, le spade alla mano,
i mantelli
ondeggianti alle loro spalle. Dalle grandi finestre trifore lungo le
pareti
entrò una debole luce morente che lasciò strani
riverberi luminosi sulle
armature smaltate d’argento.
Al
centro, sul petto, ogni guardiano recava incisa
la Pietra, raffigurata su una croce dai bracci uguali, conici, rivolti
all’esterno con i bordi svasati: il simbolo di Neanna, della
Casata Reale, di
tutto ciò che il suo popolo rappresentava.
Il
simbolo dei Guardiani della Pietra Elementare.
Il
corpetto proteggeva i custodi fino alla vita,
da cui scendeva una gonna di anelli metallici che sfiorava la
metà coscia. Da
sotto di essa spuntavano alti stivali in cuoio e ginocchiere
d’acciaio che
fasciavano poi la gamba.
Era
facile riconosce i novizi della setta dagli
anziani: indossavano tutti la stessa tenuta, ma una gonna di seta
azzurra
aperta sul davanti faceva capolino da sotto gli anelli metallici e
dalla
lunghezza di questa dipendeva il grado all’interno
dell’Ordine.
La
prima fila, che si fermò a una decina di passi
da lei e dai suoi Alfar, era composta da novizie con i capelli raccolti
in due
alte code. Bambine che si erano convinte di essere guerriere, che le
facevano
montare solo la nausea ed un profondo disprezzo.
Erano
attesi, non si era sbagliata. Era convinta
che questa volta sua sorella non l’avrebbe delusa.
Il
cuore accelerò il suo battito quando gli angeli
davanti a lei si aprirono metodicamente, come fossero ad una parata, a
ventaglio, per permettere al Capus Caelum di passare fra loro, protetta.
La
voce chiara, vagamente malinconica nelle
sfumature, del Fulakas si levò contro di lei:
«Speravo,
sorella, che questo giorno non si
presentasse mai, ma alla fine ha vinto la tua ambizione»
La
dama che si era fatta avanti era ben diversa
dalle altre che la difendevano. La sua bellezza ricordava il delicato
candore
argentato della luna, così come la sua apparente
fragilità, che la faceva
sembrare più debole e più adulta degli angeli che
la circondavano sebbene in
realtà fosse infinitamente più
giovane.
Quella
dama era sua sorella e si presentava a lei
senza protezione alcuna. Nessuna armatura, nessuna arma, solo la sua
disarmante
bellezza, il suo volto delicato nascosto dalla maschera nera
sacerdotale, che
lasciava intravvedere unicamente gli occhi dal taglio sicuro, del suo
stesso
limpido azzurro cielo. Indossava gli abiti della Somma Vestale,
impalpabili
veli candidi che la rendevano diafana e leggera, un mantello bianco
l’avvolgeva
e nell’insieme pareva veramente un simulacro che avrebbe
potuto facilmente
dissolversi con un soffio di vento. I suoi capelli, puro argento
liquido, erano
sostenuti in due alte code da un diadema di pietre dure, e arrivavano
fin quasi
a sfiorare il suolo, scivolando sulle morbide ali bianche che le
bucavano la
schiena.
Era
sempre stata bellissima, la sua sorellina, e
troppo fragile per quel loro mondo di violenza. Eppure ora non esitava
a
sfidarla, con i suoi occhi duri, a giudicarla, per quella sua scelta
così
difficile e sofferta.
«Capus
Caelum» sibilò «Dammi la Pietra, non
voglio
altro. Vi lascerò andare. Voglio solo la Pietra…
e voglio Lei»
Lo
disse con la consapevolezza di non essere
creduta. Sua sorella lo sapeva, che voleva vendetta, che avrebbe
preteso del
sangue. Il suo sangue e quello della bambina.
Ed
infatti il Capus Caelum la fissò fermamente
prima di rilasciare un sorriso scettico.
«Non
ti basterebbero. Vuoi di più… Vuoi punirmi.
Noi siamo Custodi della Pietra da tempo immemore, solo se saremo morti
potrai
privarci di essa. Solo se saremo morti potrai fare del male anche a
Lei» una
supplica balenò nel suo sguardo «Sei ancora in
tempo per fermare tutto questo,
stai per fare un grande errore. Riflettici, ti prego!»
Se
aveva nutrito dubbi le parole della Fulakas li
uccisero definitivamente. Era esattamente quello lo sguardo che aveva
odiato
con tutta se stessa, e ancora di più detestava la supplica,
tutte le sue
menzogne a cui aveva creduto con cieca fedeltà.
Sputò
ai piedi del Capus Caelum di fronte a lei e
borbottò a denti stretti:
«Da
quanto tempo sapevi che sarebbe finita così?
Hai sempre mentito. Mi fai schifo… hai avuto la tua
possibilità per uccidermi e
non l’hai fatto, ora pagherai le conseguenze»
Sua
sorella tenne gli occhi bassi, esitante, a
fissare il pavimento combattuta. Una parte di lei desiderò
davvero di
perdonarla, di rivedere nel volto nascosto dalla maschera quello della
bambina
a cui aveva stretto la mano per anni quando aveva gli incubi, ma poi il
Capus
Caelum alzò il capo con orgoglio e la osservò con
malcelato disgusto.
«Lo
sapevo da tempo, ma speravo che tu avresti
combattuto e ti saresti affidata alla parte migliore di te. Mi
sbagliavo, in te
c’è solo marcio. Rinuncia, non avrai quello che
cerchi»
Erano
due estranee ora, restava solo il sangue da
reclamare per porre fine a tutto. La sfida diretta ruppe gli argini
della sua
collera.
«Hai
commesso un errore»
Un
solo cenno e i Dokkalfar si scagliarono contro
i Fulakas che, in allerta, si richiusero subito sul Capus Caelum per
proteggerla e ingaggiarono battaglia.
Fu
un attimo, e gli uni furono addosso agli altri.
Si
ritrovò in mezzo al conflitto, persa in un
momento di confusione, circondata dal rumore delle spade che cozzavano
fra
loro. L’odore del sangue subentrò intenso,
sbloccando la sua immobilità, e
subito cercò il Capus Caelum in quel mare di figure che si
massacravano. I
suoni si allontanarono da lei, divenendo ovattati, la sua mente si
concentrò
solo sulla ricerca di un varco per raggiungere sua sorella.
Sganciò
il bastone, lo fece roteare in aria e lo
calò con forza contro un Fulakas che le stava correndo
incontro con la spada
sollevata e un urlo di rabbia a sfigurarle il volto. La lama
sbatté
violentemente contro il legno e quasi la sbilanciò, ma
continuando a far
ruotare il bastone s’inginocchiò e con il filo
della sua arma trapassò il cuoio
e recise nettamente i tendini della gamba destra del Fulakas che con un
gemito
ruzzolò a terra, incapace di reggersi. Senza guardarla in
viso con un ultimo
gesto secco le troncò la testa.
Il
corpo del Fulakas cadde definitivamente
coprendo il sangue che a fiotti sgorgava dalla ferita spargendosi sul
pavimento
e sporcava le ali candide della Guardiana di denso argento. La testa
rotolò
poco lontano impedendogli di vedere l’ultima, attonita
espressione della sua
prima vittima.
Mai
aveva ucciso un angelo. Non era stata lei ad
aprirsi la strada fino al tempio con il suo bastone, ma gli Alfar ad
aver
combattuto per lei.
La
prese una strana sensazione, la comprensione
dell’inevitabilità. Non poteva non accadere, ed
ora che era successo per una
volta riuscì ad avere anche da sola un’idea,
seppur vaga, di cosa l’attendesse
in un futuro prossimo.
Si
gettò una rapida occhiata attorno e si rese
conto che, come aveva immaginato, nonostante i suoi Dokkalfar
possedessero un
evidente vantaggio numerico rischiavano di essere sopraffatti.
C’era
anche la remota possibilità che le sue
truppe fossero sconfitte da un simile nemico.
Doveva
trovare sua sorella prima che ciò accadesse.
Spintonando
si fece largo nella guerriglia senza
fermarsi direttamente in un corpo a corpo, attenta solo a difendersi e
a
schivare i colpi, volontari o meno, mentre i Dokkalfar le coprivano le
spalle
perché passasse indenne. La riuscita di tutto dipendeva solo
dal Capus Caelum.
Una
lama la ferì di striscio all’ala e una fitta
di dolore la colpi prepotentemente. Dovette stringere i denti per non
lasciarsi
sfuggire nemmeno un lamento. Si volse invece a fronteggiare il Fulakas
che
aveva osato colpirla. La gonna di seta azzurra era lunga fino al suolo,
era un
guardiano di livello superiore.
Provocò
la custode con un sorrise di scherno:
«Se
desideri la morte non hai che da chiedere, ti
sarà data» sibilò derisoria.
«Non
sei tu la Morte!» urlò il Fulakas tentando
una stoccata. Fu più rapida della guardiana,
schivò il colpo e con un fluido
movimento del bastone la colpì con tanta forza
all’articolazione del gomito che
all’avversario la spada sfuggì di mano. Con
slancio colpì il Fulakas in volto
con una gomitata che la fece cadere a terra per il contraccolpo.
Solo
in quel momento, torreggiante sul nemico, si
rese conto che anche la sua stessa ala stava sanguinando.
La
sua ala, il simbolo dello splendore della sua
divinità che la rendeva superiore ad ogni altro angelo.
Il
suo sangue reale, più puro di quello di
qualunque angelo, anche con la traccia di rosso che ne sporcava il
luminoso
argento.
Il
suo sangue versato da un’inetta, da un angelo
inferiore.
La
collera le scivolò nelle vene come fuoco
liquido. Senza pietà affondò la lama del bastone
all’altezza della spalla
dell’ala del Fulakas, nel punto più sensibile, per
quelli della sua stirpe,
dove i nervi si concentravano. Le atroci urla di dolore furono la
conferma che
aveva colpito bene.
Un
sorriso di scherno le solcò il bel volto mentre
guardava la Guardiana contorcersi in modo grottesco gridando la sua
sofferenza.
Si chinò appena su di lei, per incrociare gli occhi
spiritati del Fulakas:
«Come
hai detto, io non sono la Morte. Non sarò io
a liberarti dalla sofferenza»
Si
volse abbandonandola ai suoi tormenti per
cercare nuovamente il Capus Caelum. I Dokkalfar l’avevano
circondata per
proteggerla e si frapponevano fra lei e gli altri Guardiani,
permettendole di
scrutare ogni singolo volto.
Alla
fine la vide.
Vicino
all’ingresso dalla quale aveva fatto la sua
comparsa, sua sorella a sua volta frugava ogni volto nella mischia di
spade e
sudore alla ricerca di lei. Quando finalmente riuscì a
trovarla, il Capus
Caelum le sorrise, poi imboccò l’arco sparendo
alla sua vista.
Stava
fuggendo.
Dopo
il primo smarrimento iniziale per quel
comportamento anomalo partì all’inseguimento,
aprendosi un varco con una
spallata. Nessuno tentò di fermarla e riuscì a
scivolare indenne fuori dalla
massa di corpi.
Affrancò
il bastone al gancio sulla sua schiena,
fra l’attaccatura delle ali, e abbandonò i
Dokkalfar al loro destino: c’era
Mostyn con loro, dovevano farselo bastare.
Oltrepassò
a sua volta la porta ad arco che conduceva
all’ala del tempio riservata ai Custodi e si
ritrovò in un vasto corridoio. I
suoni striduli del metallo contro il metallo lì giungevano
distanti, attenuati
dalle immense pareti di ghiaccio. Da un lato si apriva una scalinata
ripida,
dall’altro due file di stalagmiti e stalattiti, che partendo
dal soffitto e
dall’umido terreno s’incontravano formando colonne
di ghiaccio, creavano una
strada che conduceva ad una porta discreta.
Si
guardò attorno e individuò il Capus Caelum
sulla sommità della scala da dove la studiava con
serietà.
Appena
l’ebbe ritrovata quella riprese a correre
scomparendo nuovamente dalla sua visuale. Provava la sensazione di
essere
beffata dalla sorellina e questo incrementava solo la sua rabbia. Senza
il
minimo sforzo percorse correndo i gradini scivolosi di ghiaccio per
ritrovarsi
su un pianerottolo che dava su tre corridoi. Un labirinto nel quale si
sarebbe
senz’altro smarrita non fosse stato che il Capus Caelum
sembrava voler essere
trovata e aspettava solo di essere vista prima di riprendere la sua
fuga.
Forse
stava andando incontro ad una trappola e
visto con chi aveva a che fare era un’ipotesi da non
escludere. Sua sorella non
era una sciocca e aveva avuto molto tempo, più di chiunque
altro, per
prepararsi alla sua rivolta. Quando il Capus Caelum
s’infilò in una stanza,
chiudendosi alle spalle l’immensa porta di ferro battuto con
un tonfo sordo,
sentì finalmente di averla in pugno e un sorriso soddisfatto
scivolò sulle sue
labbra corallo.
Era
in trappola.
Appoggiò
la mano aperta sulla superficie in
apparenza liscia, saggiandone la consistenza. Non poteva sentire il
freddo o il
caldo, non provava sensazioni di alcuna sorta nell’avere,
sotto i suoi
polpastrelli, una superficie ruvida o levigata. I suoi sensi non erano
sviluppati alla maniera umana, solo sua sorella riusciva ad avere
sensazioni
tattili di quel genere. Eppure si soffermò lo stesso
concentrandosi sul
materiale irregolare, antico e mangiato dal gelo, scavato da tante
piccole
rientranze invisibili da lontano.
Chiuse
gli occhi e prese un profondo respiro: non
era certa di cosa avrebbe trovato dall’altro lato, era
evidente che il Capus
Caelum l’aveva condotta lì con un preciso scopo;
ma ormai era giunta fin su
quella soglia, non poteva più tirarsi indietro.
L’aria
immota intorno a lei, pesante come ogni
cosa in quell’ambiente solenne e antico, iniziò a
vibrare, increspandosi come
la superficie di un lago. Spalancò gli occhi azzurri e diede
maggior pressione
sul ferro con la mano aperta. In risposta, come un’onda che
si abbatte sugli
scogli, l’aria si trasformò in un rapido,
impetuoso vento che si accumulò e
s’infranse sulla pesante porta con tale impeto da sfondarla.
Le ante si
aprirono all’interno con tale violenza da andare a cozzare
contro le pareti di
ghiaccio causando un fortissimo frastuono e una scossa che
riverberò sul
pavimento.
Finalmente
la vide.
Il
Capus Caelum era immobile in mezzo alla stanza,
le braccia inerti lungo il corpo e l’espressione dura e
vuota. Aveva il gelo
dell’inverno in quel suo sguardo, occhi difficili da
sostenere.
Si
era rifugiata nelle sue stanze spoglie: alle
sue spalle, accanto alle ampie finestre da cui entrava il
gelo della
tormenta e fiocchi di neve che avevano già rivestito il
davanzale e parte del
pavimento, c’era un letto basso con il baldacchino di organza
leggera che
danzava al minimo soffio di vento. Era una camera semplice, con una
parete
rivestita da un lungo armadio le cui ante erano composte da una lastra
di
cristallo sovrapposta allo stagno, in modo tale da poter riflettere
l’ambiente
circostante; dall’altro lato un ironico quanto inutile camino
scolpito nel
ghiaccio, dove una fiamma dalle sfumature azzurre danzava flemmatica, e
un
catino ricolmo d’acqua calda da cui esalava vapore.
Un
ambiente troppo freddo per sua sorella di cui
l’unico tocco si coglieva dai gigli bianchi e dalle rose
rosse intrecciate alle
colonnine del letto.
L’immagine
stoica del Capus Caelum in attesa del
suo destino le strappò un altro sorriso, non privo di
amarezza. Nessuno
conosceva il proprio destino come sua sorella ma comunque le restava
inspiegata
la di lei sicurezza. Nonostante tutto, anche in quel frangente
continuava ad
ammirarla, quella bimba dai capelli d’argento.
Si
avvicinò cautamente ma l’altra non
batté ciglio
e non mutò espressione.
«Sono
stanca di giocare a nascondino, non siamo
più bambine. Voglio Sjalens, non voglio farti del
male», disse piano, quasi con
dolcezza.
«Non
puoi odiarla davvero così tanto… è
solo una
bambina»
La
rabbia la pervase di nuovo, dettata stavolta
dall’impotenza.
«E
tu non puoi amarla tanto da voler morire per
lei! Non vedi come ti ha ridotto?»
Fragile,
ecco come la vedeva.
Malata.
Eppure
loro non avrebbero dovuto potersi ammalare.
Magra,
pallida, delicata.
Era
sempre stata un uccellino, fin da piccola,
troppo diversa. Così diversa che a volte dubitava potessero
avere davvero lo
stesso sangue argentato.
Il
Capus Caelum sorrise: «Non fingere, ti prego.
Non cercare d’ingannarmi, non ora che siamo solo noi. Tu vuoi
la Pietra, non
dare a Sjalens le responsabilità dei miei sbagli. Odia
me»
Rapida
sganciò di nuovo il bastone e puntò la lama
alla gola della sorella.
«Non
ho mai detto di non odiarti» sibilò a denti
stretti, a meno di una spanna dal suo volto. «Sei una
bugiarda ammaliatrice che
sa vendere solo inganni. Hai ragione, voglio la Pietra, e voglio
sventrare
quella bambina con le mie mani. Dove sono?»
Il
Capus Caelum non aveva battuto ciglio e
sosteneva il suo sguardo senza alcuna esitazione nonostante la lama le
stesse
già incidendo la candida pelle del collo.
Fu
solo un attimo.
Un
brivido le percorse la schiena e si allontanò
dalla Custode, turbata. Era stata una sensazione, come se qualcuno le
avesse
strappato qualcosa all’improvviso, qualcosa
d’impercettibile eppure di
dannatamente importante. Uno strato di lieve sudore le
imperlò la fronte.
«Cosa
è stato?» mormorò.
Il
battito del cuore di sua sorella era aumentato
come il suo, anche il Capus Caelum sembrava in quello stesso stato di
strana
sofferenza che provava lei stessa. Eppure la Custode le sorrise
soddisfatta da
dietro la maschera nera.
«Lo
sai, cos’è stato. È troppo tardi ora,
ti avevo
avvertita: non troverai nulla di ciò che cerchi. Hai
fallito»
L’atteggiamento
trionfante e colmo di disprezzo di
lei la ferì nell’orgoglio.
La
Pietra… ecco cos’era stato quel brivido.
Era
come se la Pietra non fosse esistita più, come
se fosse stata strappata dal loro mondo, portandosi via un frammento
della loro
anima.
Non
poteva essere vero.
Le
mani le tremarono per la rabbia e lei si
affrancò al bastone con tutta la sua forza.
«Mi
hai ingannata di nuovo», constatò a mezza
voce. Faticava a parlare tant’era furiosa.
«Dimmi
che cosa hai fatto»
Il
Capus Caelum continuò imperterrito a
sorriderle: «Non sono io ad ingannarti, ti inganni da
sola»
Ferita,
ignorò quelle parole e fece per uscire
dalla camera lasciando sua sorella lì, ancora immobile come
la aveva accolta.
Poi però, colta da un impeto di furore, si volse di nuovo e
trapassò il ventre
del Capus Caelum da parte a parte. Il corpo di sua sorella si
ripiegò sull’asta
di legno e la fronte di lei si posò piano sulla sua spalla.
Il sangue colò
lento lungo il legno e le impiastricciò le mani con la sua
densa consistenza.
Si
sporse vicino all’orecchio di lei: «Non so cosa
tu abbia fatto, ma non potrà essere nascosta da me in
eterno. Io avrò quella
Pietra, e quando l’avrò trovata non ci sarai
più tu a proteggerla»
Con
lentezza tolse la lama, mentre il Capus Caelum
agonizzante, emetteva deboli gemiti sofferenti.
Incrociò
i suoi occhi ancora una volta, l’ultima
volta, e ne restò ancora turbata. Un velo di dispiacere
offuscava gli occhi
azzurri di quella che una volta era stata sua sorella, dispiacere per
lei.
Lasciò
la presa e il corpo della guardiana si
accasciò con un ultimo gemito. Raggomitolata sul pavimento
sopra una densa
pozza di sangue sembrava una patetica bambola, con l’abito
sporco di rosso e
d’argento e le ali macchiate.
Se
la lasciò alle spalle e tornò dai suoi
Dokkalfar. Nella navata la battaglia si era conclusa ed il pavimento
era
ricoperto di cadaveri, l’azzurro delicato delle pareti
imbrattato di sangue. I
Fulakas erano stati sconfitti, ai pochi che ancora soffrivano veniva
dato il
colpo di grazia, e dopo tanto rumore ogni cosa venne permeata da un
silenzio
innaturale.
Solo
dodici dei suoi erano sopravvissuti e non si
stupì di riconoscere Mostyn fra questi. Silenziosa e felina
lo raggiunse, persa
nelle sue considerazioni. Anche se la Pietra era stata portata via non
poteva
averla condotta troppo lontano.
Fuori
dalle finestre ad arco che fendevano le
pareti laterali s’intravidero alcuni fiocchi di neve che
mulinavano nell’aria,
danzando pigramente. La tempesta di neve si era ormai consumata.
«Setacciate
il tempio» disse infine, rivolgendosi
a Mostyn «Se c’è ancora qualcuno di vivo
uccidetelo. Cercate la Pietra»
Il
Dokkalfar rimase immobile. «Dov’è la
bambina?»
chiese con voce insolitamente innocua, distante.
La
frustrazione la fece fremere. «Deve essere qui…
da qualche parte»
Le
sue stesse parole le suonarono incerte.
L’aveva
sentito. Poteva negarlo agli Alfar, anche
a se stessa, ma aveva sentito lo strappo. Non c’erano
più, né Sjalens né il
Cuore del Mondo. Aveva vinto lei, eppure, ancora una volta, aveva vinto
il
Capus Caelum.
La
neve della città si tinse d’argento, quella
notte, ma inutilmente, poiché la Pietra non venne
più ritrovata.
ANGOLO AUTRICE
Aaye
Atan, caro lettore/lettrice! (Scusate, morivo dalla voglia di fare
delle prove in elfico, giusto per vedere se tutto questo studio
Tolkeniano online
sta portando i suoi frutti!)
Non
c'è granchè da dire, a parte che mi
piacerebbe davvero davvero tanto avere una vostra opinione, mi
arrischio a
pubblicare questa storia solo per questo quindi ,non dovesse avere
recensioni,
la ritirerò! Spero
che vi piaccia! =)
A
presto!
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