3^ parte
All’ennesimo scossone le mie gambe cedettero e caddi di peso
sopra la piccola montagna di borse, le quali attutirono il colpo anche
se non tanto quanto mi aspettavo. Provai a tirarmi su, ma i continui
sussulti mi facevano perdere l’equilibrio, perciò
mi arresi e decisi di aspettare, frustrata. Finalmente, la piccola
gabbia di metallo cigolò lamentosamente un’ultima
volta e si fermò. Mi rialzai sbuffante, tremando e
barcollando, piegata in due dal dolore al mio povero sedere,
più volte vittima di un’ennesima dimostrazione
della giustezza della forza di gravità. Mi massaggiai il
punto dolente lamentandomi e gemendo in maniera indecente per parecchio
tempo prima di ricordare di non essere sola. Il mio compagno di
viaggio, ovviamente, mi stava fissando. Che scena patetica, patetica!,
pensai, rossa d’imbarazzo, tentando invano di ricompormi. Il
misterioso passeggero non sembrava contrariato, o scandalizzato, anzi,
mi osservava con curiosità, tranquillo, ostentando sul viso
un sorrisetto malizioso.
“Anzi,
irritante”, mi corressi. A uno così avrei
volentieri dato una bella lezione in un parcheggio solitario, se solo
non fossi stata bloccata in quell’ascensore che... Oh,
giusto! L’ascensore!
Un brivido di
panico mi scese giù per la schiena; come aveva potuto il
semplice sorriso di uno sconosciuto farmi dimenticare tutto il resto?!
Mantenendo a freno l’agitazione che mi scorreva nelle vene
come adrenalina mi avvicinai alla pulsantiera (che, guarda caso, si
trovava di fronte al mio passeggero) cercando il bottone di allarme.
«Proprio
a me doveva capitare» borbottavo. «Come se oggi non
fossi già abbastanza agitata di mio per il concerto e per
Kat... Ma perché cazzo non c’è il
bottone d’allarme?», urlai tirando un pugno alla
parete dopo un ennesima perlustrazione dei minuscoli pulsantini
scoloriti. Il mio misterioso compagno sobbalzò per la
sorpresa. Nemmeno lo guardai.
In preda a una
paura cieca, cominciai a schiacciare tutti i bottoni dai numeri
indecifrabili, uno per uno, senza ricevere risposta. Oddio, se non
fossi uscita subito da lì sarei impazzita! Ma
dov’era, dov’era quel bottone fottuto?
Tirai un calcio
alla parete ruggendo per il disappunto e improvvisamente due mani forti
e grandi mi presero i polsi. Dietro il vetro protettivo degli
occhialoni neri, il ragazzo mi guardò con tenerezza (era
quello che potevo solo supporre) prima di chinarsi sulla pulsantiera
con un’espressione impassibile e mettersi a studiarla con
attenzione e sistematicità. Respirai forte, tentando di
calmarmi mentre mi ripetevo ossessivamente che sarebbe andato tutto
bene e che sarei uscita subito. Dopo qualche secondo il giovane
sospirò e mormorò qualcosa che assomigliava a
“scheisse” prima di voltarsi a cercare il mio
sguardo e stringersi nelle spalle, allargando le braccia. Anche lui
aveva fallito.
Lo stomaco mi
precipitò fino alle caviglie. Le labbra cominciarono a
tremarmi.
«Non
è possibile. No... Non dirmi che rimarremo chiusi qui
dentro! No! No! Non oggi! No! Non io!». Il respiro mi era
diventato affannoso, le pareti mi comprimevano, sempre più
vicine, sempre più vicine, il soffitto mi sembrava
lontanissimo e la luce girava, girava, girava...
Caddi a terra,
prendendomi la testa fra le mani. Un ronzio soffocante mi rimbombava
nelle orecchie, quasi sovrastato dai miei stessi ansiti, pesanti e
faticosi di nausea. Non immaginavo di essere claustrofobica, non lo
sapevo. Cioè, gli ascensori mi avevano sempre messa a
disagio, come le piccole stanze, i tunnel e gli sgabuzzini, ma non
avevo mai creduto di poter arrivare a questo punto! Aria, avevo bisogno
d’aria!
Il ragazzo si
inginocchiò accanto a me, sinceramente preoccupato,
facendomi vento con le mani. In pochi secondi riuscii ad aprire la
morsa delle mia mani e a tornare a respirare quasi tranquillamente. Lo
sconosciuto, più pallido di un cencio, mi sorrise,
sollevato. Mi sembrava impossibile che un ragazzo con cui ero in
ascensore da neanche cinque minuti e che non aveva ancora aperto bocca
si preoccupasse tanto per me.
«Sto
bene, sto bene» biascicai appoggiandomi al pannello metallico
dietro di me per alzarmi. Vi abbandonai contro la testa e chiusi gli
occhi, ansimando, il petto schiacciato da un peso troppo opprimente
perché potessi sopportarlo a lungo.
«Are you
ok?».
In un primo
momento, credetti di aver solo immaginato quella voce calma e profonda
al mio orecchio. Solo poi mi resi conto di aver udito parlare per la
prima volta il ragazzo misterioso.
«Oh, you
aren’t...! Sorry, I thought... Yes, I’m...
fine» balbettai, troppo imbarazzata dall’aver
conversato animatamente con uno straniero che non capiva
un’acca dei miei vaneggiamenti per ricordare le nozioni
fondamentali della lingua inglese.
«Are you
English?» domandai timidamente per distrarmi dal dolore acuto
che mi attorcigliava le budella. Lo sconosciuto sorrise, scoprendo due
file di denti bianchissimi. Uno sfavillio metallico
occhieggiò dal suo labbro inferiore.
«No,
I’m German».
Con uno scatto di
ingranaggi che finalmente cominciavano a girare per il giusto verso, il
mio cervello si accese e in un nanosecondo fece due più due.
Ricapitolando. Il
ragazzo era tedesco, non dimostrava più di diciotto anni,
alto un metro e un lampione, vestiva abiti esageratamente larghi e
aveva un piercing al lato sinistro della bocca.
I miei occhi si
sgranarono all’inverosimile quando, tanto per completare il
puzzle, da sotto il cappuccio mimetizzante della felpa-tendone, scorsi
un rasta biondiccio.
Ok.
Ok.
Non. Era.
Possibile.
Ok. Calma.
Lanciai un urlo
che per poco non perforò le porte blindate
dell’ascensore e che fece fare al ragazzo un salto
all’indietro dallo spavento. Le ginocchia, già
molli di natura, mi cedettero di nuovo e scivolai sul pavimento gelato.
«T-t-tu...
tu...». Con il dito tremante indicai il poveretto.
«Tu... tu sei...». La bocca mi rimase spalancata e
cascante.
L’ormai
non più sconosciuto sospirò, rassegnato
all’inevitabile, e lentamente si tolse occhialoni e cappuccio.
Una pioggia di
dread color miele cadde sulle sue spalle magre. Uno sguardo nocciola
caramellato mi trafisse da parte a parte. E il piercing
scintillò ancora, ancora e ancora, riflesso cento, mille
volte dalle pareti, tutt’attorno a me.
Cazzo.
Ero bloccata in
ascensore con Tom Kaulitz. Tom Kaulitz!
Ora sì
che avevo bisogno d’aria.
_
{Per
comodità, tutti i dialoghi descritti qui di seguito, anche
se in lingua tedesca, li scriverò in italiano, essendo io
l’esatto contrario di una poliglotta xD}
«E
così...».
Non completai la
frase. Troppa fatica.
«Già»
rispose Tom.
Ce ne stavamo
entrambi stesi a terra con la testa appoggiata al pannello metallico di
fronte alla porta, indolenti. Era passata quasi un’ora da
quando eravamo rimasti chiusi lì dentro e ancora nessuno si
era fatto vedere. Dopo un’ennesima ispezione alla pulsantiera
avevamo scoperto il pulsante d’allarme, un minuscolo
bottoncino praticamente a livello soffitto che, ovviamente, era stato
sfasciato da qualche irresponsabile teppista.
A un certo punto
Tom aveva avuto l’illuminazione di tirare fuori il cellulare,
che però, non appena aveva avviato una chiamata, si era
spento. Batteria scarica. E il mio, per paura dei ladri al concerto,
l’avevo lasciato a casa. Che sfiga bestiale.
E così,
eccoci lì, in maniche corte, accaldati, sudati per la
forzata permanenza sotto il calore della luce sopra la nostra testa,
costretti ad appoggiarci alle pareti gelate per trovare un
po’ di refrigerio. Almeno la nausea era passata.
Dopo i primi
minuti di imbarazzanti gridolini, occhi sgranati e luccicanti, bavetta
alla bocca e domande biascicate, reverenziali fino
all’assurdo, a cui, fra l’altro, Tom aveva reagito
piuttosto bene, io e il chitarrista di fama mondiale ci eravamo
lasciati cadere a terra, vicini ma troppo sfiniti anche solo per alzare
una mano.
Ogni tanto mi
veniva in mente una domanda che non gli avevo ancora rivolto, gliela
proponevo e lui decideva se rispondere (sempre esaustivo anche se senza
entusiasmo), o tacere, facendomi capire di essermi permessa troppo.
Il tempo passava e
io avevo sempre più sete e fame. Il luccichio delle
paillettes che adornavano la mia maglia m’ipnotizzava,
rendendo difficile tenere ancora gli occhi aperti.
«Come
conosci il tedesco?».
Ancora una volta,
quella voce setosa, baritonale, così piacevole
all’udito, mi fece rabbrividire e battere fortissimo il cuore.
Deglutii e la
lingua secca mi raschiò la gola.
«Mio
padre è di Berlino. Quando si è sposato
è venuto a vivere qui, in Italia, anche se a malincuore.
È stato lui che fin da piccola insisteva per farmi
apprendere il tedesco. Amava troppo la sua città,
però, e troppo poco mia madre. Dopo qualche anno, quando
mamma era incinta di mio fratello, svanì nel
nulla».
Raccontai di mio
padre senza tristezza né rimpianti, mantenendo senza fatica
la voce ben ferma. Per me, quell’uomo era solo un bastardo
che non meritava nemmeno di essere chiamato genitore: lo odiavo.
«Mi
dispiace» mormorò Tom voltandosi a guardarmi.
«A me
no». Il sussurro che mi scivolò fuori dai denti
suonò come un ringhio. Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo!
Fissai le mie
scarpe da ginnastica fino a renderle sfocate e indistinte, cercando di
concentrare l’odio che mi bloccava la mascella nei miei
occhi, fino a friggere i lacci delle sneakers; ovviamente non ci
riuscii, allora mi calmai.
«Anche
mio padre non era il massimo, sai?», disse Tom. «Ha
lasciato mamma quando io e Bill eravamo piccoli».
«Lo
so» sorrisi debolmente.
«Ah,
già. Tutti sanno tutto, ormai». Fece una smorfia.
«Dici che cronometrino anche quanto tempo passo in
bagno?» e mi abbagliò di un altro sorriso
mozzafiato. Dopo qualche secondo, indispensabile per riprendere a
respirare, sorrisi:
«Magari
ci stanno provando!». Entrambi ridemmo sommessamente.
«Mi
parli ancora un po’ di tuo fratello e dei tuoi
amici?» supplicai, bruciante di curiosità. Tom
sbuffò, ma bonariamente, e anche se probabilmente aveva la
gola più secca della mia, si lanciò nel resoconto
completo della loro ultima tappa a Roma.
Ad un certo punto,
com’è normale, cambiò posizione, e la
sua spalla sfiorò la mia. Il cuore mi andò a
mille, facendomi rimbombare il sangue nelle orecchie. Mio Dio, potevo
sentire il suo profumo... sapeva un po’ di sudore, dopo tutto
quel tempo sotto il neon, ma era indescrivibilmente buono.
Ignorando il caldo
soffocante, anch’io mi spostai impercettibilmente
più in là, trovando la sua mano proprio sotto la
mia. Trattenei il fiato, combattuta se spostarla o no: osavo troppo?
D’altronde, un’occasione così non
sarebbe mai più capitata. A liberarmi dal peso dei dubbi ci
pensò Tom, il quale si zittì, osservò
con curiosità le mie dita posate sulle sue e sorrise
dolcemente; poi riprese a raccontare come se nulla fosse accaduto.
Non
spostò la mano di un centimetro.
In quel preciso
momento, ebbi la chiara e travolgente sensazione di essere la persona
più felice del mondo.
«Ma
ancora non mi hai detto che ci fai qui, in questo centro commerciale
sperduto e desolato. Non hai un concerto fra poche ore?» gli
domandai per non cominciare a costruire troppi castelli in aria. Tom si
batté una mano sulla fronte.
«Merda,
il concerto! Me ne stavo dimenticando!».
«Come
puoi dimenticarti di dover fare un concerto?». Ero piuttosto
scettica all’idea che ciò fosse possibile.
Il ragazzo mi
guardò come se fossi una contadinotta che non sapevo nulla
di show business (ed effettivamente era vero) prima di fare una smorfia
buffissima.
«Quando
devi salire sul palco un giorno sì e uno no non è
poi così difficile confondersi con le date o sperare di
avere una serata in più di riposo. Anche se, a dire la
verità, sei stata tu a farmi dimenticare tutto: sto troppo
bene qui con te per pensare ad altro».
Il viso mi si
colorò all’istante di una sfumatura violacea.
Aria, aria, aria!
«Guarda
che non mi incanti con le tue belle frasi fatte» balbettai
con decisione, nonostante la mia espressione gridasse a lettere
lampeggianti il contrario.
«Dico
sul serio» rincarò Tom sorridendo sornione.
«Sei la persona più piacevole che mi è
capitato di incontrare nelle ultime ventiquattr’ore, e anche
di aspetto non sei affatto male». I suoi occhi scivolarono
lungo il mio corpo rannicchiato, scintillanti di una fame che non sarei
mai riuscita a saziare. Gli schiaffeggiai lievemente il braccio.
«Perdi
tempo a flirtare con me, bello: non riuscirai a portarmi a
letto». Di nuovo, la mia espressione di venerazione non
troppo nascosta smentì tutto lampeggiando ancora
più luminosa.
«Scommettiamo
che prima che vengano a recuperarci ti avrò
convinta?» mormorò con voce di velluto il ragazzo
facendosi più vicino. Come reazione io mi allontanai,
stringendo le mascelle per resistere all’istinto bruciante di
avvicinarmi che, nascosto in un parte imprecisata del mio stomaco, mi
tirava dall’altra parte. Se qualcuno non fosse arrivato
subito, mi sarei spezzata in due, era sicuro!
«Provaci»
mugugnai a denti stretti. Tom ridacchiò, tranquillissimo, e
scivolò lungo la parete fino a trovarsi all’angolo
opposto contro il quale mi ero raggomitolata io.
«Non mi
sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me».
E rise, cristallino.
Il tempo passava e
i suoi occhi erano sempre lì. Non mi lasciavano un istante,
mi tenevano loro prigioniera, gentili di una cieca
brutalità, pesanti come pietre, ammalianti come cristalli
dalle più lucenti sfaccettature.
Ed erano sempre
lì.
Come poteva
restarsene immobile per così tanto tempo? Non sembrava
nemmeno battere le palpebre, come fosse stato una statua dai lineamenti
angelici, immutabile quanto bella. Era irritante!
«Hai
intenzione di fissarmi e non dire niente ancora a lungo?»
sbottai dopo fin troppo tempo passato a cacciarmi di nuovo
giù in gola quella domanda. Tom sorrise e non rispose.
«Sarebbe
carino ribattere se qualcuno ti interpella». Tom non rispose
e sorrise.
«Sto
parlando con te, sai. In un’altra circostanza magari potresti
fare finta di nulla, ma qui e ora
no» sibilai, altezzosa.
Tom sorrise. E
basta. I miei occhi si tinsero di rosso sangue.
«Che
cazzo c’è da ridere, coglione che non sei
altro?» strillai facendo per alzarmi in piedi ed andare a
suonargliele. Minaccia gettata al vento. La statua-Tom non
batté ciglio.
Perché
non si muoveva, non parlava, non dava segno di vita? Perché?!
Mentre gli
ingranaggi del mio cervello lavoravano per trovare una risposta, una
freddezza non mia s’impadronì a poco a poco del
mio corpo irrigidito, spingendomi gentilmente a sedermi. Ed ecco, il
suo piano mi si delineò nella mente.
Altro che
coglione, quel tipo era una vera e propria macchina!
“Non
mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da
me”.
Quella frase non
era stata buttata lì a caso: lui sapeva.
Se mi fossi
avvicinata, gliel’avrei data vinta, e io non volevo, oh no,
mai.
Non avrei ceduto,
a costo di impazzire. Mai.
{Poco tempo dopo}
«Parla,
porca puttana!» strillai tirando un pugno alla parete; mi
feci male, ma ciò che più mi irritò fu
la vibrazione ridondante del metallo, un suono tanto potente da farmi
tremare la cassa toracica. Ringhiai, e prima di aver solo finito di
pensarlo, ero in piedi. Cercai di sfogare la mia rabbia camminando
avanti e indietro, ma ad ogni giro dello stretto cubicolo, questa
aumentava. Ero in trappola. Ero in trappola!
«Voglio
uscire, cazzo! Non ce la faccio più, fatemi
uscire!». E ancora pugni e calci dati alla cieca alle pareti,
al pavimento, alle porte dell’ascensore serrate come
tenaglie. La testa riprese a girare, il respiro a farsi sempre
più secco e doloroso. Aria, aria, ARIA!
Stavo perdendo le
forze, non mi rimaneva più niente oltre alla sete che mi
lacerava la gola, un improvviso senso di freddo e il ronzio ovattato
del mio ansare.
E ad un certo
punto, anche l’aria finì.
Non quella
presente nell’ascensore, ce n’era ancora in
abbondanza, finì invece quella nei miei polmoni, incapaci di
incamerarne di nuova.
Boccheggiai a
caddi a terra. Il dolore alle ginocchia non era niente, niente a
confronto del bruciore raschiante della mancanza d’ossigeno
nel mio petto e nella mia gola. Tutto era appannato e distorto.
Allora presi la
mia decisione.
La mia inutile
dignità, il mio stupido orgoglio, il mio corpo, la mia
mente... avrei gettato tutto in pasto a una belva feroce se solo questa
avesse potuto liberarmi. E lo feci.
Con gli occhi
pieni di lacrime strisciai fino all’angolo dov’era
inginocchiato Tom, teso e pronto a venirmi in soccorso.
Ero troppo stanca,
troppo sfiancata, troppo debole per lottare ancora.
Non ebbi
esitazioni nel gettarmi fra le braccia della fiera affamata,
m’importava solo di veder sciolte le mie catene, solo questo.
Ero troppo stanca, troppo...
Mi lasciai cadere
fra le sue braccia, nuda ed inerme, pregavo. E la belva mi sorrise.
Il suo petto era
caldo, le sue braccia forti ; gli occhi scintillavano, il profumo mi
stordiva.
«Ti
prego...» mormorai aggrappandomi alla felpa enorme del
ragazzo. Vedevo le sue labbra muoversi, ma nessun suono riusciva a
sovrastare il fischio che mi trapanava le orecchie. Nemmeno io riuscivo
a sentirmi.
«Ti
prego... Fuori. Bisogno... aria», biascicai. Mi ero arresa.
Mi ero arresa a lui.
Inspirare,
espirare, mi ripetevo. Inspirare, espirare, inspirare, espirare,
inspi...
Annaspai alla
cieca in cerca d’ossigeno. Le labbra che ormai percepivo solo
come una forma sfocata, ripresero a contorcersi in grida mute. Forse
chiamavano il mio nome, lontano lontano. E come danzavano le luci sul
soffitto...
Qualcosa dietro i
miei occhi esplose e tutto divenne buio.
_
Nella mia testa si
stavano affollando tante cose. Per lo più si trattava di
masse indistinte di luci, colori e suoni, anche se ogni tanto uno di
loro emergeva per pochi secondi, mi passava davanti e poi si dissolveva
nell’oscurità. A tratti udivo il mio nome, un
sussurrio così debole da poterlo scambiare per un soffio di
vento se solo non avessi saputo di trovarmi nella mia mente, e
lì dentro di aria non ne poteva circolare.
Non è
che si stesse male, no, affatto, ma tutto quel buio cominciava a
stancarmi, perciò con fatica provai a dirigermi verso
l’agglomerato pulsante di pensieri. Pareva di camminare nel
fango, ero invischiata nei ricordi... A poco a poco lo raggiunsi, e
quando lo toccai con una mano un’immagine ben precisa mi
esplose davanti, la stessa immagine della “visione”
che avevo avuto ore prima. La contemplai, stupefatta, e capii. In quel
momento, tossendo e inspirando forte, ripresi i sensi.
_
La prima cosa che
vidi aprendo gli occhi fu il soffitto dell’ascensore,
decisamente troppo lontano; quindi ero ancora intrappolata
là dentro. Merda. Sospirai, abbattuta.
La seconda cosa
che entrò a forza nel mio campo visivo fu il viso
meraviglioso di Tom.
«Meno
male che ti sei svegliata» mormorò affannosamente.
Chissà se era a causa delle luci che mi abbagliavano o
davvero era così pallido...
«Sono
stati i dieci secondi più lunghi della mia vita»
confessò accennando un sorriso. Ancora disorientata, battei
le palpebre un paio di volte per scacciare il torpore che mi impediva
di afferrare il senso delle sue parole. Ad un certo punto mi accorsi di
essere racchiusa tra le braccia gentili del ragazzo, perciò,
imbarazzata, mi liberai della sua stretta per alzarmi a sedere. Non
appena mi mossi le pareti argentate cominciarono a vorticarmi intorno.
«Scusa»
biascicai prendendomi la testa tra le mani: che male mi faceva! Mi
schiarii la gola troppo secca e ci riprovai.
«Scusa.
Non sopporto la tensione, e i luoghi piccoli e chiusi mi terrorizzano;
lo so che avrei dovuto cercare di controllarmi, ma è stato
più forte di me, e...».
Tom mi
posò un dito sulle labbra.
«Non
devi scusarti di nulla. Sarebbe capitato a chiunque» e
sorrise.
Lo fissai. Davvero
voleva cavarsela così?
«Ok, ok,
odio dirlo ma adesso mi sembra necessario se non voglio finire bruciato
vivo da quello sguardo» e finse di tremare di paura. Non mi
mossi di un centimetro e lo fissai più intensamente.
Finalmente, dopo qualche esasperante secondo di tentennamento, Tom
abbassò lo sguardo e soffiò:
«Scusami
tu, non dovevo comportarmi così, è stata colpa
mia. Ecco, sei contenta?» sbuffò voltandosi per
sfuggire al mio sguardo troppo vicino; un leggerissimo rossore gli
colorò le guance. Ammutolii. Wow, non mi aspettavo lo
facesse davvero... Questa sì che era una vittoria! Risi:
«Aspetta,
aspetta, aspetta! È uno scoop! “Tom Kaulitz chiede
scusa”, me lo vedo già su tutti i giornali. Ha!
Chi l’avrebbe mai detto? Puoi ripeterlo di nuovo davanti ad
una telecamera, stavolta?».
«Mai»
borbottò il ragazzo alzandosi e trascinandosi fino al lato
opposto dello stretto cunicolo, dove mi diede le spalle.
«Dai,
cercavo di sdrammatizzare» esclamai. Ancora aspettavo a
dirgli della promessa della mia resa totale a lui, perché
sapevo che l’avrebbe rispettata, in qualunque modo.
Provai ad alzarmi
a mia volta, ma con mio disappunto scoprii di non riuscirci: non appena
mi muovevo la testa mi girava come una trottola. Rimasi seduta.
«Senti»
cominciai, strascicando ogni lettera. «Credo di doverti
dire... grazie. Per... prima» balbettai. Tom non si
voltò.
«Intendo,
durante la mia “crisi”» e mimai le
virgolette con le dita, oltre che con la voce. «E ancora
prima, per essere riuscito a sopportarmi». Pronunciando
ultima parola feci una smorfia. La schiena del ragazzo,
però, rimase muta. Imperterrita, io continuai.
«Sei
stato molto gentile con me, davvero, non me lo sarei mai aspettata
da...»
«Da uno
come me?» concluse Tom voltandosi a guardarmi. Non era
arrabbiato, anzi, pareva divertito,
ma in un suo particolare modo perverso.
«Non
intendevo...».
«Dovresti
sapere ormai che quello che scrivono le riviste non è tutto
vero» m’interruppe ancora, e stavolta non riuscii a
ribattere: un bagliore magnetico, acceso, vivo, che ora definirei felino mi fece
perdere il filo del discorso.
«È
questo che più odio di questa vita, tutti credono di sapere
tutto di me, credono di poter prevedere ogni mia mossa, ogni mia
parola, ogni mio comportamento basandosi solo su quello che io ho
deciso di mostrare loro, perché tanto ormai sono un
cliché, roba vecchia... e invece cosa sanno? Niente»
esclamò tutto d’un fiato.
Rimasi interdetta,
sconvolta da questa sua confessione inaspettata.
«Io non
ho mai pensato di poterti conoscere solo da...»
«Tutti
lo pensano, l’hanno pensato e continueranno a pensarlo,
perché mai tu non dovresti essere come loro?».
«Perché
io sono diversa».
Per un momento
vidi i suoi occhi sgranarsi e mi chiesi se non l’avesse
già capito da sé; poi però il suo viso
ritornò una maschera impassibile, e all’istante
persi ogni sicurezza.
Il silenzio,
pesante, ci avvolse. Fu Tom a romperlo per prima dopo un infinito gioco
di sguardi.
«E in
cosa saresti diversa, di grazia?», mi schernì.
«Beh, se
non te ne sei ancora accorto, temo di non potertelo spiegare»
ribattei, stizzita. All’istante volli tapparmi la bocca: da
dove cavolo saltava fuori quella sicurezza?
Un’aria
superba deformava i lineamenti semplici e dolci del ragazzo. Quasi
sicuramente, la sua espressione era lo specchio della mia.
Ci stavamo ancora
guardando in cagnesco quando l’ascensore ebbe uno scossone e
di nuovo, fra cigolii e lamenti, prese a salire.
*
«Allora?
Non sono semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a?».
Sorrisi.
«Sei
bellissima, Kat».
La mia amica fece
una piroetta davanti allo specchio, ammirando l’effetto
svolazzante della gonna nera che da quando aveva addosso non riusciva a
smettere di stropicciare.
«Però
la gonna ancora non mi convince... E nemmeno questa bandana rossa al
polso. Sei sicura che sto bene così?».
«Ma
certo. Sei semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a!» le risposi
facendole il verso e una linguaccia. Kat rise, poi, una volta calma, si
accigliò.
«Davvero
non vuoi venire, stasera?» mi chiese fissandomi intensamente
coi suoi occhioni azzurri cerchiati di nero. Annuii.
«Sono
molto stanca, non me la sento. E poi ho già avuto la mia
dose di Tom Kaulitz, direi che sono a posto per tutta la
vita» scherzai.
Kat
alzò gli occhi al cielo.
«Avercela
avuta una fortuna simile! Se fossi stata in te non l’avrei
più lasciato andare!» e zompò ad
afferrarmi la gamba. Ridendo, mi liberai della sua stretta e saltai
giù dal letto.
«Non
è così mitico come tutti ne parlano,
anzi» mugugnai mentre afferravo la borsa sulla scrivania, di
spalle alla mia amica.
«Che hai
detto?» mi chiese quella distogliendosi dalla contemplazione
del proprio riflesso nel grande specchio a muro della mia stanza. Mi
raddrizzai con un sorriso stampato in faccia.
«Ho
detto che devi muoverti se vuoi arrivare in tempo al concerto,
su!» e le diedi una pacca sulla gamba alla quale lei rispose
con entusiasmo, fin troppo.
Due minuti dopo
ero già alla guida della mia Peugeout e sfrecciavo verso
Parco Novi a tutta velocità per poter stare dietro ai miei
pensieri.
_
«Tom,
sei pronto?».
Alzai la testa
dalla mia chitarra, infastidito.
«È
la terza volta che me lo chiedi, Bill, e la risposta è
sempre quella: per niente».
A quella risposta,
mio fratello riprese a torcersi le mani camminando avanti e indietro
lungo quei due metri per tre di camerino; dopo cinque passaggi
tentò anche di fare qualche vocalizzo, ma ciò che
gli uscì fu una specie di lamento stridulo perciò
si limitò solo a passeggiare, o meglio, a girare in tondo.
Io pizzicai
distrattamente le corde della mia Gibson ripensando a quel pomeriggio:
sarebbe venuta davvero? L’avrei rivista? Speravo tanto di
sì.
Giusto per farmi
ancora del male, ricordai la sua espressione vuota quando aveva perso i
sensi in ascensore, alla paura appiccicosa che avevo provato durante
quei maledetti dieci secondi... Era per il terrore istintivo di vedere
qualcuno star male o il panico cieco causato dal veder star male lei? Probabilmente
la seconda opzione. Cazzo, in che casino mi ero cacciato...
Per distrarmi
ripensai a quando, finalmente, qualcuno si era accorto di noi, poveri
ragazzi, bloccati in ascensore da ore. Forse, se non avessimo
cominciato a litigare così forte, la donna delle pulizie che
passava in quel momento non avrebbe nemmeno notato la lucina rossa che
disperatamente lampeggiava dalla pulsantiera esterna
dell’ascensore, e a quest’ora saremmo stati ancora
lì dentro. In poco tempo erano stati radunati tecnici
specialisti che avevano fatto ripartire l’ascensore e noi
eravamo stati tirati fuori.
Mi risparmiai la
scena a dir poco stucchevole del ricongiungimento con Bill, prontamente
avvisato dalla polizia, e volai subito a riassaporare il dolce viso di
Lisa. Lisa, Lisa...
«Tutto
bene?» le avevo chiesto sedendomi accanto a lei, appoggiata
alla vetrina del negozio di alimentari; osservava
l’andirivieni dei tecnici con un’aria spiritata,
assente.
«Sì.
Adesso sì» e mi aveva sorriso. Riconoscevo i segni
della fatica sul suo viso e nei suoi occhi, ma non feci commenti.
«Ascolta»
avevo cominciato, titubante. Gli smeraldi che aveva al posto degli
occhi si erano posati immediatamente sul mio viso: difficile
concentrarsi con quei fari addosso. Deglutii.
«Ascolta,
mi chiedevo se per caso tu non volessi venire al nostro concerto,
stasera... Ci terrei a rivederti, in una situazione un po’
meno drammatica, magari» risi, sfregandomi le mani sudate
sulle cosce foderate di jeans. La sua risposta poteva significare vita
o morte.
«Avevo
intenzione di venirci, in effetti». M’illuminai.
«Però
sono davvero molto stanca, non credo...». Il mio viso si
adombrò. Lei lo notò e sospirò.
«E va
bene. Verrò lo stesso, visto che ci tieni tanto»
acconsentì facendo la sostenuta. Che balzo fece il mio
cuore, in quel momento! Ricordavo benissimo la sensazione, era stato un
momento meraviglioso.
«Come mi
riconoscerai in mezzo a quel marasma?» continuò
abbracciandosi le ginocchia. Già, come avrei fatto? Ci
pensai su.
«Che ne
dici di legarti al polso una bandana rossa? Basta che alzi il braccio
durante l’esibizione, i miei bodyguard ti riconosceranno e ti
accompagneranno nel mio camerino. A fine concerto,
naturalmente». Sorrisi della genialità della mia
idea.
«D’accordo».
In quel momento,
una specie di tornado dai lunghi capelli biondi ci interruppe piombando
addosso alla ragazza senza smettere di singhiozzare e strillare
brandelli di frasi senza senso. La scena tragica non durò
che qualche interminabile minuto, e prima ancora che me ne rendessi
conto Lisa era scomparsa, trascinata via da quella sua amica. Di lei,
era rimasta solo la debole scia del suo profumo.
«Tom,
è ora!».
Sospirai, nervoso.
L’avrei rivista. Non potevo crederci.
Imbracciai la mia
chitarra e seguii Bill fuori dal camerino col cuore che pompava molto
più sangue del normale. Già da lì si
sentivano gli strilli isterici delle centinaia e centinaia di fan; non
appena aprirono la porta, tutto l’entusiasmo di un palazzotto
stracolmo di adolescenti ci stordì. Per noi era
un’unica massa viva e vibrante, non erano tante ragazze,
bensì un’unica ragazza che possedeva mille volti,
sorrideva con mille sorrisi diversi e ci guardava con mille occhi
lucidi e cangianti. Fra i tanti volti che si mescolavano in quella sola
entità io ne scelsi uno, l’unico al quale quella
sera mi sarei rivolto e l’unico al quale avrei dato tutto me
stesso.
Sistemai gli
in-ear monitor, controllai la tracolla della chitarra, sistemai i
jeans, raddrizzai il cappello e senza sapere come o perché
mi ritrovai a correre, no anzi, a fluttuare lungo il palco sconfinato
fino alla mia postazione, sempre con il sorriso sulle labbra e le mani
che già si muovevano da sole, domando il plettro.
Magicamente, le prime note di “Break away”
scivolarono lungo le corde della mia Gibson e si amplificarono in tutto
lo stadio fino alle ultime file, e mano a mano che la melodia
raggiungeva le ragazze, queste urlavano, saltavano, piangevano.
Un’unica entità.
Durante il
concerto cercai forsennatamente quel piccolo spruzzo di rosso che mi
avrebbe dimostrato che ciò che quel pomeriggio era successo
non era stato solo frutto della mia immaginazione, invano.
Le canzoni si
susseguivano una dietro l’altra e neanche a farlo apposta,
nemmeno una delle ragazze nelle prime file indossava qualcosa di rosso;
strizzavo gli occhi fino a dove la luce arrivava, ma nemmeno una delle
migliaia di mani alzate portava la bandana rossa.
E poi, quando meno
me lo sarei aspettato, la vidi.
Dovevo cominciare
a suonare gli accordi di “Forgotten Children” e mi
stavo spostando verso la pedana, quando quel bagliore scarlatto che
tanto avevo cercato quella sera aveva scintillato verso di me, piccola
macchia di colore in mezzo a quell’oceano di nero e grigio a
contrasto col biancore etereo della pelle del braccio, di quel braccio. Non
avevo dubbi, era lei.
La mia
felicità in quel momento fu indescrivibile, travolgente,
irresistibile, e così forte come mai l’avevo
provata in una volta sola! Con un cenno della testa attirai
l’attenzione di Tobi, appostato discretamente dietro le
quinte, e gli mimai con le labbra di andare a prendere la ragazza in
quarta fila col fazzoletto rosso legato al braccio. Lui capì
immediatamente, abituato com’era ai mie capricci,
annuì e scivolò via come un’ombra.
Un fascio di luce
accecante mi venne puntato addosso perciò capii di dover
contenere momentaneamente la mia euforia e trasferire quella sensazione
di adrenalina pura nelle dita. Questa canzone la dedicavo a lei, solo a
lei...
Con la luce
puntata in viso non riuscivo a vedere nulla più in
là del mio naso, perciò provai ad immaginare il suo sorriso mentre
Tobi le chiedeva di seguirlo, il suo
cuore che batteva forte; e quelle braccia pallide, quei capelli
morbidi, quel piercing praticamente invisibile al lato sinistro della
bocca, quegli occhi disarmanti... E presto sarebbe stata mia per
sempre. Non poteva che finire così, con un lieto fine.
Sorrisi, e risi, e
mi sembrò di impazzire di felicità: ce
l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta!
Avevo catturato la
mia sirena dagli occhi smeraldo.
*
Così
ora conoscete com’è andata.
Immagino ormai
abbiate capito di che trattava la mia visione. Lo so che può
sembrare impossibile, però io avevo previsto ogni cosa, dal
pulsante d’allarme rotto, alle luci al neon troppo calde,
alle pareti scintillanti, fino all’abbraccio di Tom.
Ovviamente, essendosi trattato di un secondo, non avevo fatto in tempo
a decifrare i segnali, almeno finché non ero entrata dentro la mia testa
e avevo potuto rivedere il tutto. Non so come sia successo, non so
perché a me, non so chi sia stato, so solo che è
successo. Punto.
Vi starete
chiedendo se mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio
posto. No, non mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio
posto, se proprio volete saperlo, nemmeno per un secondo. Lei si
meritava di incontrare i Tokio Hotel, era da sempre il suo sogno; e poi
l’espressione di Tom quando aveva scoperto che la ragazza
dalla bandana rossa non ero io... posso facilmente immaginarla, e vi
assicuro che ogni volta scoppio a ridere.
Stesa a letto, lo
sguardo inquieto che vaga lungo il soffitto incapace di prendere sonno,
ripenso alla telefonata isterica di Katia di solo poche ore prima: mi
aveva raccontato di essere stata chiamata nel backstage e che non
appena Tom l’aveva vista aveva cominciato a inveire contro le
sue guardie del corpo e a blaterare che lei era la ragazza sbagliata.
«Lisa,
dimmi la verità, aspettava te?» mi aveva chiesto
Kat.
«Non
credo proprio» avevo risposto io sorridendo sotto i baffi.
Dopo poco, la mia
amica era stata lasciata andare, frastornata e sconvolta, con in mano
un cd autografato da tutti e quattro: immagino volesse dire che doveva
tenere la bocca chiusa su quello che era successo.
I fari di una
macchina sfiorano la mia finestra e poi scivolano via come se nulla
fosse. Le stelle occhieggiano qui e lì sotto la coltre
sfilacciata di nuvole. Mi giro su un fianco per incontrare gli occhi
patinati dei Tokio Hotel appesi accanto al letto, e sorrido nel buio.
Povero Tom. Quasi
mi dispiace per lui. Pensava di avermi finalmente acciuffato, e
invece.. Chissà se verrà alla mia ricerca, poi.
Oh, lo so che mi
sono fatta una promessa, e ho giurato che la rispetterò. Ma
perché proprio stanotte?
Fine.
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