contest
Hinata
no
haru
[La primavera di Hinata]
#01. Rinascere dalle proprie
ceneri
HYUUGA NEJI.
Offertosi in sacrificio per proteggere i
suoi cari
dopo aver combattuto valorosamente in
nome della Volontà del Fuoco.
Un soffio leggero accarezzò il volto di Hinata, portando via
lacrime invisibili.
I capelli si sollevarono appena nella direzione del vento e i girasoli
posti sulla lapide si piegarono, sporgendosi dal vaso, per poi
raddrizzarsi e continuare a dondolarsi mollemente sui sottili steli.
Il funerale si era concluso da pochi minuti, ma Hinata non aveva ancora
versato una singola lacrima. Forse perché Naruto le era
rimasto a fianco per tutto il tempo, forse perché
semplicemente non sentiva il bisogno di piangere. Aveva la sensazione
di essere in un sogno, come se da un momento
all’altro potesse svegliarsi e specchiarsi di nuovo negli
occhi del cugino, così simili ai suoi.
«Hinata».
Per un momento sperò che quella voce appartenesse a Neji, ma
non ci fu bisogno di voltarsi per capire chi fosse realmente.
«Kiba-kun», rispose, senza spostare lo sguardo
dalla lapide.
Il ragazzo le si accostò. Rimasero in religioso silenzio fin
quando Hinata non emise un sospiro.
«Pensi che a Neji-niisan piacciano questi
girasoli?».
Kiba li guardò. Effettivamente il girasole, con i suoi
colori caldi e luminosi, non aveva nulla a che fare con il freddo e
distaccato Neji Hyuuga. Rifletté sulle parole giuste da
usare. «Be’, forse questi fiori non gli si addicono
molto, ma ricordano il sole; il sole è luce e la luce
è vita, speranza, rinascita. Quello che conta è
che questi fiori siano stati portati dalle persone che gli volevano
bene».
«Che gli vogliono
bene», lo corresse Hinata.
Kiba la guardò perplesso. «Hai usato il
presente», si lasciò sfuggire, pentendosi subito
dopo.
«Nessuno ha smesso di volere bene a Neji-niisan»,
spiegò lei quasi con ovvietà.
Kiba si rese conto che qualcosa non andava. Lo capì dal tono
di voce di Hinata, insolitamente sicuro per la situazione; lo
capì dal fatto che non l’aveva ancora degnato di
uno sguardo, preferendo continuare a fissare con insistenza la tomba
del cugino, in attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato.
«Perché parli di lui come se fosse ancora
vivo?».
Quella domanda gli era uscita dalle labbra ancora prima di averla
pensata.
Alla Hyuuga parve che l’amico avesse appena parlato in
un’altra lingua. «Cosa vuoi dire,
Kiba-kun?».
Fu allora che Kiba comprese la situazione: Hinata stava indossando una
maschera. Non voleva ancora convincersi della morte di Neji e si era
inconsciamente costruita un mondo immaginario in cui lui era ancora
vivo e sarebbe tornato.
«Hinata», disse, allungando la mano verso quella
della compagna.
Intrecciò le proprie dita nelle sue, ma ciò non
servì a farle staccare gli occhi dalla lapide.
«Hai bisogno di piangere, di sfogarti. Sono sicuro che non
l’hai fatto nemmeno una volta dalla fine della
guerra».
«Perché dici così?».
Kiba strinse più forte la mano della ragazza, nel vano
tentativo di farla tornare alla realtà.
«Non devi nascondere il dolore, così è
peggio. Lasciati andare».
«Kiba-kun, non capisco di cosa tu stia parlando».
Kiba avrebbe voluto spiegarglielo nel modo più delicato
possibile, ma non era nella sua natura e poi prolungare il discorso
utilizzando metafore o giri di parole non sarebbe servito a nulla.
«Neji
è morto», disse atono. «Ma
tu sei qui, noi siamo
qui, e dobbiamo andare avanti».
Hinata staccò finalmente lo sguardo dalla tomba e lo
puntò su Kiba, per la prima volta da quando lui era
arrivato. L’espressione della Hyuuga era indecifrabile. Il
ragazzo ebbe paura di averla ferita, ma non si pentì delle
sue parole: Hinata era già la dolcezza fatta persona e in
situazioni come quella aveva solo bisogno di grande forza.
«Kiba-kun, stai bene?», gli chiese lei in un
sussurro.
Kiba capì che la situazione era peggio del previsto: Hinata non voleva capire.
«Io sto benissimo, ma il punto è che Neji non
tornerà e tu devi fartene una ragione».
Quelle parole schiette, taglienti,
furono come una pugnalata per il cuore di Hinata. La ragazza
sgranò gli occhi, sentendoli pizzicare.
A quel punto Kiba sciolse la stretta tra le loro mani, rimaste
intrecciate fino ad allora, e afferrò la compagna per le
braccia, guardandola dritta negli occhi. «Torna in te,
Hinata. Neji non vorrebbe vederti così, ne sono
certo».
La ragazza abbassò lo sguardo, raccogliendosi in se stessa.
Le mani di Kiba strette intorno ai suoi gomiti facevano un
po’ male.
«Perché mi stai dicendo queste cose?».
Kiba sollevò una mano e le accarezzò una guancia,
notando che i suoi occhi si erano fatti lucidi.
«È per il tuo bene».
«Non è vero!», ribatté lei
con forza, allontanandolo bruscamente.
La sua espressione offesa sembrava quella di una bambina a cui era
stato tolto il suo giocattolo preferito.
Kiba si portò una mano sul viso, esasperato.
«Hinata, ascoltami...».
«No!», si impuntò ancora lei, avvertendo
le lacrime inondarle gli occhi e scorrere lungo le guance.
«Non avevo pianto nemmeno una volta fino a questo momento. Ma
ora lo sto facendo ed é tutta colpa tua, delle cose che mi
hai detto. Sei cattivo, Kiba-kun».
L’Inuzuka cominciava a pentirsi di essere stato
così duro. «Hinata, ti prego, non fare
così», tentò, avvicinandosi
maggiormente con l’intenzione di stringerla a sé,
ma Hinata si ritrasse con decisione un attimo prima che lui potesse
afferrarla e incrociò le braccia al petto, cominciando a
sfregarsele con le mani come se avesse freddo. Ma non era freddo.
«Va’ via Kiba-kun, voglio stare da sola. Per favore».
«Permettimi solo di−».
«Ho detto di andartene!». Il ragazzo
indietreggiò, turbato: Hinata non alzava spesso la voce.
Poche volte l’aveva vista così, con il volto
contratto dal dolore e le lacrime che rigavano inesorabilmente le sue
guance, gocciolando lungo il collo.
«Scusa, non avrei dovuto dirti quelle cose»,
mormorò, abbassando lo sguardo.
Era partito con le migliori intenzioni, ma ora si sentiva solo un verme.
«No, non avresti dovuto», ripetè lei,
voltandosi di nuovo verso la tomba.
Kiba la guardò un’ultima volta, capendo che aveva
realmente bisogno di riflettere in solitudine per capire come stavano
le cose. «Mi dispiace tanto, Hinata. Se hai bisogno, sai dove
trovarmi». Poi infilò le mani nelle tasche e si
allontanò.
Hinata, rimasta da sola, gli occhi liquidi che fissavano
insistentemente le lettere incise sulla lapide, crollò con
le ginocchia per terra.
«Niisan», sussurrò, abbassando la testa.
Piccoline goccioline salate colarono dai suoi occhi sulla superficie in
marmo della lapide.
Neji era morto. Morto. Morto. Morto.
Quelle parole le rimbombarono nella mente per interi minuti. Si prese
la testa tra le mani, tappandosi le orecchie come per placare
quella vocina persistente, e strizzò gli occhi, mentre il
pianto si faceva sempre più necessario, più
irrompente.
Il sole era alto nel cielo, un cielo azzurro e finalmente libero dalle
guerre, dalle devastazioni, dalla
morte, ma a Hinata veniva solo da singhiozzare. Fino a non avere più
lacrime.
***
Kiba camminava per le vie di Konoha con le mani nelle tasche dei
pantaloni e gli occhi bassi.
Non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Hinata in
lacrime china sulla tomba di Neji.
Lui, che si era ripromesso di proteggerla e di non lasciarla mai da
sola, lui che più di tutti desiderava vederla felice, lui che la amava,
proprio lui era stato la causa delle sue lacrime. Non riusciva a
perdonarsi per il modo in cui l’aveva
trattata: le aveva urlato in faccia che una delle sue persone
più care era morta, le aveva dato implicitamente della bambina per essersi
costruita un modo immaginario fatto di sogni e false speranze, e infine
se ne era andato con la coda fra le gambe, senza scusarsi, senza
cercare di consolarla. Si sentiva un mostro.
La verità era che Hinata era una delle persone
più forti che conosceva e Kiba sapeva bene che quella
maschera che indossava dalla fine della guerra era solo un modo per
seppellire il dolore: quale altra persona avrebbe potuto continuare a
sorridere mentre si sentiva morire dentro? Nessuna, solo Hinata era
capace di tanto. Tuttavia non avrebbe potuto continuare così
in eterno, perché prima o poi il dolore sarebbe venuto fuori
ancora più forte, più bruciante di prima. Kiba le
aveva solo mostrato come stavano realmente le cose
affinché potesse finalmente sfogarsi e trovare un barlume di
luce, di speranza, in mezzo a tutto quel dolore, affinché
potesse rinascere dalle
sue ceneri. Invece, con la durezza delle sue parole, aveva
solo ottenuto l’effetto contrario: Hinata, per colpa sua, si
era vista piombare addosso da un momento all’altro tutto il
dolore che aveva faticosamente cercato di nascondere. Se lei lo avesse
odiato, per questo, e non avesse più voluto vederlo, Kiba
avrebbe capito, avrebbe rispettato il suo volere, tuttavia in cuor suo
non se lo sarebbe mai perdonato: una vita senza la presenza costante di
Hinata non era vita.
Quando risollevò gli occhi, vide Naruto venirgli incontro.
«Kiba!», lo salutò l’amico,
solare come sempre. «Dove vai di bello?».
L’Inuzuka scrollò le spalle. «Facevo
solo una passeggiata. E tu?».
Naruto sorrise raggiante, sventolando la manica vuota della felpa.
«Oggi avrò di nuovo il braccio!».
Kiba annuì con poco interesse, quando gli venne in mente che
forse Naruto poteva sapere qualcosa a proposito di Hinata e, nonostante
ciò gli provocasse non poco fastidio, avrebbe messo sempre
la felicità della ragazza al primo posto.
«Ehm, Naruto... mi chiedevo... visto tutto il tempo che passi
con Hinata, per caso sai come sta?».
L’Uzumaki lo fissò confuso. Era vero, lui e Hinata
erano diventati particolarmente amici dalla fine della guerra, sia per
il sostegno che lei gli aveva dato in combattimento sia
perché aveva promesso a Neji di proteggerla e lui non era il
tipo da venire meno alle promesse. Sapeva che Hinata era innamorata di
lui ma, anche se la stimava molto, non avrebbe mai potuto prendere il
posto di Sakura nel suo cuore.
«L’ho vista proprio ieri», ammise Naruto,
rievocando l’immagine di un’Hinata che camminava
con passo spedito per strada. «Ci siamo salutati di sfuggita,
ma mi è parso che stesse bene... sorrideva».
Quell’ultima parola colpì profondamente Kiba.
Forse Hinata si era ripresa − lei era forte, lo aveva sempre
saputo.
Forse c’era ancora una speranza di farsi perdonare.
Solo allora Naruto si chiese perché Kiba, il migliore amico
di Hinata, gli avesse fatto una domanda del genere.
Chi meglio di lui
la conosceva e passava la maggior parte del tempo con lei?
«È successo qualcosa, per caso?».
«No, ecco... abbiamo solo litigato».
Il biondo gli diede una pacca sulla spalla. «Vedrai che tutto
si risolverà».
Kiba annuì, ringraziandolo, e lo salutò
velocemente per poi rimettersi in cammino.
Ma prima che potesse percorrere pochi metri Naruto lo aveva richiamato.
«Tra me e Hinata non c’è nulla, se te lo
stavi chiedendo».
Kiba, rincuorato, si lasciò facilmente trasportare dal
sorriso dell’amico. Ora sapeva cosa fare.
***
Villa Hyuuga era imponente, maestosa. Sembrava avvolta da un
incantesimo.
Kiba aspettò che facesse buio in modo da non essere scoperto
e scavalcò agilmente il cancello, attraversando il parco e
giungendo ai piedi dell’albero che con i suoi rami
raggiungeva la finestra di Hinata. Da ragazzino lo aveva fatto
parecchie volte: quando Hinata era costretta a stare a casa per
malattia o per altri motivi, lui non ci pensava due volte a salire su
quell’albero ed entrare nella sua stanza attraverso la
finestra, godendo del sorriso con cui lei lo accoglieva ogni volta.
Se davvero stava un po’ meglio, se davvero aveva ritrovato la
forza di sorridere – e la voglia di perdonarlo –,
lo avrebbe fatto sicuramente entrare come quando erano piccoli. Kiba ci
sperò con tutto il cuore.
Si arrampicò lungo il tronco dell’albero e si
appollaiò sul ramo più alto, nascondendosi bene
tra le foglie, per guardare attraverso il vetro della finestra.
Hinata era in piedi davanti al suo armadio. Kiba seguì con
lo sguardo il suo profilo, come incantato. Quanto le era mancata,
quanto avrebbe voluto irrompere nella sua stanza e abbracciarla... Ma
cosa avrebbe potuto pensare di lui? E se lo avesse cacciato di nuovo,
come il giorno del funerale?
Per un attimo Kiba perse tutto il coraggio con cui era arrivato fin
lì.
Poi tutte le elucubrazioni mentali andarono a farsi benedire nel
momento in cui Hinata portò le mani al bordo della maglietta
e prese a sfilarsela.
Kiba sentì la bocca improvvisamente secca: Hinata si stava
preparando per andare a dormire.
Ora aveva solo indosso una canotta che copriva malamente le sue forme
abbondanti.
Kiba scosse la testa. Non solo era un insensibile, ma era anche un
maledetto pervertito.
Perché quello aveva solo un nome: spiare una donna mentre si
spogliava.
Sbiancò per la paura quando Hinata voltò la testa
nella sua direzione e attraversò la stanza venendogli
incontro. Pensò che lei lo avesse scoperto e che ora lo
avrebbe denunciato, ma poi la vide semplicemente chiudere le tende,
impedendo al resto del mondo la visuale della sua stanza.
Kiba emise un sospiro di sollievo e prese a fissare con insistenza le
tende bianche della finestra.
Il solo pensiero che dietro quelle tende ci fosse Hinata nuda gli
faceva affluire il sangue sulle guance e non solo lì.
Non era semplice desiderio carnale, lui la amava,
viveva con quella consapevolezza da ormai da cinque anni.
“Resisti”
si disse, ma dall’altra parte pensava che non avrebbe fatto
male a nessuno se avesse dato solo una sbirciatina. Senza quasi
accorgersene, era uscito dal suo nascondiglio di rami e foglie, e si
era allungato verso la finestra. Sollevò un angolo della
tenda, quel poco che bastava per vedere Hinata girata di schiena,
completamente nuda se non fosse stato per gli slip.
Boccheggiò. Mai avrebbe pensato di ritrovarsi in una
situazione simile.
Le gambe di Hinata erano lunghe, bianche, perfette. I fianchi sinuosi,
la vita sottile, la schiena coperta dai lunghi capelli neri.
E lui la
desiderava da morire.
La vide sporgersi sul letto, lasciando intravedere una piccola parte
dei seni prosperosi, e poi prendere il pigiama per infilarselo.
Dopodiché si sedette sul letto, tirando fuori dal comodino
un portafoto. Quando chinò la testa, stringendosi
l’oggetto al petto e cominciando a singhiozzare, per Kiba non
fu difficile capire chi fosse il soggetto di quella foto.
Come aveva solo potuto pensare che il sorriso che lei aveva rivolto a
Naruto fosse stato sincero?
Capì che Hinata aveva semplicemente indossato la sua
maschera di felicità per non destare preoccupazione
nell’uomo che
amava, ma che in fondo il dolore non era scemato di una
virgola. E lui cosa diamine stava facendo? Prima faceva soffrire la
donna di cui
era innamorato, poi la spiava da vero maniaco qual era. E nel frattempo
lei continuava a piangere per suo cugino defunto.
Chiuse la tenda e scese dall’albero. Ora si sentiva un vero
schifo.
***
Hinata aveva voltato lo sguardo in direzione della finestra,
ricordandosi improvvisamente di non aver chiuso le tende e di essere
mezza nuda, ed era stato allora che aveva visto muoversi qualcosa tra
le foglie del suo albero. Imponendosi di rimanere calma, aveva
raggiunto la finestra e aveva guardato attentamente: era tutto
immobile. Forse si era trattato solo di un gatto o di uno scoiattolo,
forse era stata solo una sua impressione...
Chiuse le tende e si infilò il pigiama, per poi sedersi sul
letto con le mani strette intorno alla piccola cornice di legno
intarsiato che conservava accuratamente nel suo comodino. La foto
ritraeva una ragazza e un ragazzo con gli stessi occhi perlacei e la
stessa pelle diafana.
Hinata sfiorò con le dita la figura di Neji. Il suo sorriso
era più una smorfia, eppure non gli era mai sembrato
così vivo.
Per l’ennesima volta sentì gli occhi gonfiarsi di
lacrime e non fece nulla per trattenersi. Solo una volta, in
quell’ultimo periodo, era riuscita a sorridere: il giorno
prima aveva incontrato Naruto e si era lasciata facilmente trasportare
dal suo sorriso a trentadue denti, ma non appena aveva voltato lo
sguardo dall’altra parte si era sentita sprofondare, di nuovo.
Perché se di giorno fingeva che tutto andasse bene per non
causare ulteriori problemi alla sua famiglia, la notte finiva
inevitabilmente per scoppiare.
Pianse, Hinata, come ogni volta prima di andare a dormire. Quando si
sentì completamente svuotata, si infilò
tra le coperte con la foto stretta al petto e chiuse gli occhi,
pregando che la notte passasse velocemente.
***
La figura di Neji era incredibilmente luminosa, così
accecante che Hinata riusciva solo a distinguere i suoi capelli castani
e i suoi occhi perlacei, così simili ai propri. Intorno a
lui c’era solo bianco e nessun’altra macchia di
colore, un bianco purissimo, privo di qualunque imperfezione.
«Niisan, sono morta anche io?».
Neji accennò un sorriso, lo stesso con cui si era
sacrificato per salvare lei e Naruto.
«No», rispose. «Ed è per
questo che devi vivere anche per me».
«Ma io lo sto già facendo»,
ribatté la ragazza, facendo un passo avanti.
Neji scosse piano la testa. «Tu non stai vivendo, stai sopravvivendo».
Hinata lo guardò perplessa e Neji divenne improvvisamente
serio.
«Vivere è svegliarsi la mattina con uno scopo ben
preciso, mettersi d’impegno per raggiungerlo. Vivere
è sorridere, amare.
Vivere è andare avanti. Tu ti stai semplicemente facendo del
male, Hinata. Stai solo cercando di sopravvivere».
La ragazza sentì le lacrime inondarle gli occhi.
«E come posso vivere, se non ci sei tu qui con me?».
Neji le si avvicinò, poggiando una mano sul suo petto
all’altezza del cuore.
«Lo sai meglio di me che, anche se non ci sarò
fisicamente, rimarrò per sempre... qui».
Hinata abbassò lo sguardo sulla mano di Neji premuta contro
il proprio petto e nello stesso momento la figura del cugino la
trapassò, riscaldandola e lasciandola stordita. «Vivi, Hinata».
Era stato poco più di un sussurro, pronunciato un attimo
prima che divenissero un tutt’uno.
Rialzando lo sguardo, Hinata trovò solo
un’infinita distesa di bianco davanti a sé.
Inaspettatamente le giunse all’orecchio l’abbaiare
di un grosso cane e pochi secondi dopo notò che nel bianco
erano comparse due macchioline, una piccola e rotonda,
l’altra alta e allungata. Aguzzò la vista e rimase
esterrefatta nel vedersi correre incontro Kiba e Akamaru.
Non potevano essere lì. Loro
erano vivi!
Si stropicciò gli occhi con le mani nel tentativo di vederci
meglio ma, quando li riaprì, si ritrovò a fissare
il soffitto della sua stanza con le guance bagnate di lacrime. Neji le
era apparso in sogno e con lui anche Kiba.
Hinata si rese conto che l’Inuzuka, quel giorno al cimitero,
aveva avuto dannatamente ragione: non aveva versato nemmeno una lacrima
per Neji semplicemente perché nella sua mente non era mai
davvero morto. Kiba le aveva solo aperto gli occhi e, nonostante
ciò facesse malissimo, era pur sempre meglio che non sentire
nulla. Perché Hinata se ne rendeva conto solo ora: per
giorni, di fronte alla lapide del cugino, non aveva voluto sentire.
Hyuuga Neji era rimasta solo una scritta, i girasoli dei bei fiori, la
lapide una semplice lastra di marmo.
Solo ora Hinata capiva che lì c’era sepolto
Neji-niisan.
Pensò a tutte le lacrime che aveva versato dopo il suo
funerale e il litigio con Kiba, l’unico che aveva capito come
stavano realmente le cose, ma poi ricordò il calore che
aveva sentito nel sogno mentre la figura del cugino la attraversava e
si ripromise che quelle stesse lacrime che ora rigavano le sue guance
sarebbero state le ultime.
Avrebbe smesso di sopravvivere.
Avrebbe vissuto,
per se stessa e per Neji.
***
Hinata si rese conto che lei e Kiba non si parlavano dal giorno del
funerale.
Si sentì male al solo pensiero di avergli urlato contro e di
averlo cacciato, di averlo ferito e di non essersi scusata. Era solo
grazie a lui se aveva guardato in faccia la realtà e si era
resa conto di essere viva, che la vita continuava nonostante la perdita
dei propri cari, che c’erano tante altre cose belle per cui
essere felici. Doveva riparare immediatamente al suo errore.
Quella mattina si svegliò all’alba e, senza
nemmeno far colazione, uscì di casa per andare da Kiba.
Quando l’amico le aprì la porta, le venne da
sorridere. Aveva i capelli arruffati e gli occhi sbarrati, segno che si
era appena svegliato, ma nel vederla lì sotto la soglia
della propria porta si animò improvvisamente.
«Hinata!».
«Kiba-kun, sono venuta a−».
L’Inuzuka la strinse, la strinse forte respirando il suo
profumo a pieni polmoni.
La Hyuuga si ritrovò con il viso premuto contro il petto del
ragazzo, le sue braccia che la tenevano stretta, e si sentì
arrossire. «Hinata, non sai quanto sono stato male per averti
detto quelle cose al cimitero... mi sono comportato da vero
insensibile. In questi giorni sono passato più volte a casa
tua per scusarmi, ma non era sicuro che mi avresti aperto la porta.
Però ora sei qui... sei
qui».
La strinse ancora più forte. «K-Kiba-kun,
così soffoco».
A quel punto il ragazzo la scostò dal proprio petto e la
guardò dritta negli occhi, serio.
«Perdonami».
Hinata scosse la testa con decisione. «Perdonami tu. Senza di
te non avrei mai aperto gli occhi. Ed io volevo ringraziarti per
questo».
Kiba notò che il suo sguardo era un po’ triste.
C’era consapevolezza, rassegnazione, ma si poteva intravedere
anche un barlume di luce. Si era tolta la maschera, era uscita dal suo
mondo immaginario.
«Non ringraziarmi. Ti sei risollevata con le tue sole
forze».
«Non è vero, Kiba-kun. Tu sei stato
fondamentale in questo».
Kiba si grattò la testa, imbarazzato, e Hinata sorrise
dolcemente.
«Ti va di fare colazione insieme?».
«Certo, aspettami qui!». Il ragazzo
rientrò in casa per prendere il portafogli, poi
riuscì chiudendosi la porta alle spalle. «Ora
possiamo andare».
Hinata lo scrutava in modo strano. La vide avvicinarsi maggiormente,
sollevarsi sulle punte dei piedi e sistemargli i capelli arruffati.
Kiba seguì estasiato tutti i suoi movimenti, godendo del
contatto delle sue dita calde e affusolate sulla propria fronte.
«Ora sei pronto», concluse la ragazza, arrossendo
un po’, e Kiba la trovò adorabile.
Uscirono in strada e Hinata gli raccontò come in quei giorni
non avesse fatto altro che piangere, gli raccontò di aver
sognato Neji e di essersi resa conto che disperarsi non serviva a
nulla, che bisognava andare avanti. Omise che nel sogno aveva
intravisto anche lui. La cosa la imbarazzava un po’, ma in
cuor suo sapeva di averlo sognato semplicemente perché Kiba c’era sempre
stato per lei.
Note dell'autrice:
Si tratta di una storia di soli 4 capitoli, già
scritti visto che non sono brava a portare avanti le longfiction
(preferisco di gran lunga le raccolte). Spero che questo primo capitolo
vi sia piaciuto e che mi farete sapere la vostra opinione. Ci tengo a
precisare che, se la scena del funerale vi sembra familiare,
è perchè l'avevo già postata nel
prologo di una fanfiction che poi ho dovuto cancellare. Ma ci tenevo
troppo e quindi ho voluto riproporvela qui. GRAZIE a
tutti coloro che mi seguono e che vorranno leggere anche questa mia
ennesima storia.
Soly Dea
|