Kizuna – a nanshoko
soap opera-
A.Corner
(A)
Che posso dirvi? Potrei cominciare col
chiedere scusa al mondo per aver messo per iscritto quest’idea che mi frullava
in testa da un bel po’. E poi…
Umm…
Umm…
Potrei parlarvi delle quattro boiate messe in fila che compongono
la storia..
ma anche no *O*
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[1]
Saint Mary
L’Ospedale Santa Maria di Atene era un meraviglioso polo
unico dove medici, infermieri e visitatori si muovevano con una cartina gentilmente
concessa dall’ente del turismo.
In un solo edificio erano stati raggruppati cinque piccoli ospedali
e ben tre cliniche private.
Nell’enorme costruzione, tutta vetro
metallo e cemento si trovava solo un misero 3% di mattoni che, poveri piccoli,
erano stati relegati nei sotterranei, luoghi stupendi dove la puzza di polvere,
muffa e marcio erano in grado di stecchire anche un elefante.
In quest’ospedale erano raccolti i medici migliori che
Atene avesse mai visto.
Costoro erano…
- Camussss!
Un giovane biondo, fin troppo giubilate, allacciò le braccia al collo del sopraccitato Camus, un sospirante rossino.
- Milo. Te lo chiederò solo una volta: cosa diavolo ci
fai qua?
Milo gli sorrise, poggiandosi sulla
sua spalla e giocando con una ciocca di capelli vermigli.
- Che domande, Camus, sono venuto a trovarti.
- Davvero? E spiegami, le tue fan ti hanno lasciato allontanare
da ginecologia così facilmente?
Alla faccia del suo essere uomo, Milo Marakis,
trentacinque anni, capelli biondi e due occhi da infarto, era il ginecologo più
richiesto del momento e tutte le donne volevano che i loro bambini nascessero sotto
la sua benedizione.
Se non ti faceva nascere Milo Marakis
eri uno sfigato, ecco tutto.
Chiaramente, tra la moltitudine di donne che arrivavano al suo
reparto, molte erano intenzionate a provarci con lui. Tempo, fiato e forse sprecati,
Milo Marakis, infatti, aveva occhi solo per un certo rossino, tal Camus Gide.
Camus invece vantava un volto stupendo. L’ovale del viso
era perfetto, ben disegnato, di una bellezza algida e distaccata. Tale volto era
anche benedetto dalla presenza di due superbi occhi color verde acqua.
Camus Gide era invece il primario della rianimazione. Stare in
quel luogo, purtroppo, voleva dire anche essere in grado di dire, con la maggior
dolcezza possibile, alle famiglie della morte dei propri cari, cosa in cui Camus
era –perdonatemi la franchezza- una totale schifezza. Non solo non era dotato
d’alcuna sensibilità, ma era anche fornito di una stupenda voce monocorde,
che raramente variava di tono. In questo caso, erano mandati alla carica i due deliziosi
schiavett…servett…galoppin… bhe, gli... stagisti? Ecco, gli stagisti di
Camus.
I due fanciulli, che di nome facevano rispettivamente Hyoga Mitsuvich Sultanof e il suo caro amico
d’infanzia, Issac Kierkegaard, entrambi definibili
simpaticamente mezzi e mezzi, in altre parole, nel loro sangue scorreva quello di
più razze.
Hyoga, un simpatico biondino che tendeva a tirarsela da morire
davanti al proprio “Maestro” e all’amico, per poi struggersi in
solitudine al pensiero della madre morta, era quanto di più idoneo per comunicare
brutte notizie. Con quegli occhioni azzurro ghiaccio e
quell’aria comprensiva, si adattava a comunicar le peggiori sfighe. Isaac,
un maniaco delle tinte per capelli (colore più in auge del momento: l’insensibile
verde pappagallo, ammesso solo se avesse portato una bandana al lavoro) con i ridenti
occhi marroni striati d’oro (c’era un motivo in fondo, se quell’ospedale
era detto degli “occhibelli”) e quell’aria
simpatica invece era poco adatto. Soprattutto perché tendeva ad essere troppo
confidenziale con i pazienti.
Tornando a noi. Milo aveva malauguratamente fatto scendere le
braccia dalle spalle di Camus, cingendolo attorno al bacino. Ciò causò
una leggera irritazione del collega, che gli tirò – seppur con molta
eleganza- la propria cartelletta in testa.
- Ahioo..
Camus, mi hai fatto male…
Piagnucolò il biondo, rivolgendosi un faccino triste.
Camus inarcò un sopracciglio.
- Milo…
Milo scoppiò a ridere, poggiandogli un braccio attorno
alle spalle.
- Dai Camus, non fare troppo il ghiacciolo!
- Milo, ogni giorno che passo assieme a te mi giustifica la mia
prima impressione su di te.
- E quale era?
-“Idiota”.
Dire che Milo ci restò sconvolto era un eufemismo. Rimase
per qualche secondo immobile, pietrificato e poi, depresso, si separò dal
collega, allontanandosi.
- Ah… va bene… allora... me ne vado…
Camus lo trattenne per il camice.
- Scherzavo, scemo.
Sbottò, tirandolo verso di sé. Milo si voltò, nuovamente giubilante
e gli scoccò un bacio su una guancia, soffermandosi a sussurrare al suo orecchio
un dolce “ti amo”, per poi trotterellare via.
Camus alzò gli occhi al cielo, chiedendosi perché
si era dovuto innamorare di un uomo con la mentalità di un cucciolo.
A pranzo, era ovvio che tutti i medici del Saint Mary andassero
alla caffetteria. Nessuno e dico proprio nessuno evitava mai quest’appuntamento,
tanto meno…
- Mu!
Mu Bevin, delizioso trentacinquenne
biondo dalla pelle candida, che si occupava solertemente del reparto d’oncologia,
voltò i propri stupenti occhi verde smeraldo ad incontrarne un paio di un
turchese luminoso.
Aphrodite, anzi Mikail Ruskin, il terzo biondo, uno svedese che si occupava della chirurgia
plastica.
“Aphrodite” era il nome d’arte che aveva da
giovane, quando, per pagarsi l’università posava come modello, di tanto
in tanto. A farlo notare non erano i lunghi capelli color miele, come neppure il
neo che stava sotto l’occhio sinistro, dandogli un’aria da nobiluomo
del cinquecento, ma le mani. Mani dalle dita lunghe e delicate, mani curatissime
e perfette. Non per nulla, Aphrodite aveva più volte detto di essersene andato
da casa “sulle mani”.
- Buongiorno Aphrodite.
E poiché nessuno di loro era cresciuto sulla luna, o in
una grotta sul cucuzzolo delle Ande, tutti sapevano del soprannome di Mikail e tutti lo chiamavano a quel modo. A lui non dispiaceva.
Aphrodite rispose al sorridente saluto di Mu con uno di pari
luminosità.
- Stesso tavolo?
Domandò Mu, indicando con un cenno della testa un tavolino
rotondo in fondo a destra. Aphrodite stava per annuire, quando due grandi mani lo
afferrarono rudemente per i fianchi, allontanandolo a Mu.
- Scusa Mu, ma oggi il biondo è
mio.
Angelo Menandro, tale era il suo nome,
era un siciliano di trentasette anni (età che condivideva con Aphrodite e
un terzo dottore) che, seppur pneumologo affermato, fumava spudoratamente
come una ciminiera. I corti capelli erano tirati all’indietro, nonostante
qualche ciocca cadesse sugli occhi. Occhi di un marrone chiaro, che se colpiti dalla
luce rilucevano di rosso (come quelli di certi conigli). I capelli d’Angelo,
però, avevano subito una prematura sbiancatura
nella sua adolescenza e adesso erano tutti grigi.
- Angelo!
Esclamò irritato Aphrodite, cercando di divincolarsi.
- Avevo detto a Mu che avrei mangiato con lui e Shaka oggi!
Strepitò, cercando contemporaneamente di liberarsi dalla
stretta del siciliano e di non rovesciarsi il vassoio di cibo sul camice.
- Dai Aphrodite. Vi pure con Angelo.
Disse Mu sorridendo comprensivo e facendo un leggero gesto con
la mano. Aphrodite ci pensò un po’ su, prima di lasciarsi trascinare
via da Angelo col grido “mangio con voi domani!”.
- Immaginavo che dietro tutto quel chiasso ci fosse Aphrodite.
Disse una voce. Shaka Mou-Juong, un
uomo alto e anche lui biondo, dagli occhi meravigliosi. Quanto? Diciamo che quegli
occhi erano di una meraviglia tale che tutti maledivano le lunghe ciglia dorate
che li toglievano alla vista, e che nascondevano quelle iridi azzurre come il cielo.
Shaka era inoltre il cardiochirurgo più richiesto non
solo dell’ospedale, ma del mondo. Conosciuto anche come la mano destra di
Dio, Shaka era riuscito laddove non solo altri medici, ma semplicemente altri essi
viventi non sarebbero mai riusciti.
Mu gli rivolse un sorriso.
- Aphrodite mangerà con Angelo.
Shaka annuì, per poi dirigersi verso il solito tavolino.
Ben pochi si avvicinavano a quel tavolino. Forse perché avvicinarsi a tanta
bellezza tutta assieme sarebbe stato devastante per chiunque, forse perché
solo Mu e Shaka bastavano a formare un’aura mistica che tenesse lontano le
persone.
Ma anche Aphrodite non scherzava. Forse le sue occhiate omicide
non erano all’altezza di quelle di Camus, ma erano comunque tremende.
Shaka si sedette, poggiando il vassoio con il suo pranzo.
- Tu mangi troppo poco, Shaka.
Lo rimproverò Mu, osservando il piatto pieno d’insalata,
la bottiglia d’acqua e la mela che stazionavano sul vassoio.
- Ti farai del male.
- A casa mangio di più.
Disse Shaka, prendendo
un bicchiere di plastica e riempiendolo d’acqua.
- È che qui posso mangiare solo questo.
Mu chinò lo sguardo verso il suo piatto, guardando con
aria colpevole la braciola che se ne stava lì placida tra il purè
e i pomodori. Shaka era buddista e, in quanto tale, non mangiava carne d’alcun
tipo. Fortunatamente non era un integralista convinto e si concedeva cibi e altre
cose d’origine animale.
- Guarda che non me la prenderò per la tua braciola.
Disse, poggiando il volto su una mano e guardandolo un po’
di sbieco, con un leggero sorriso sulle labbra.
- Non era questo che stavo…
-…Mu…
- Va bene, stavo pensando proprio a questo.
Shaka scosse la testa.
- Non sono un bravo buddista, di dieci principi ne seguo appena
tre; quindi non sono il tipo più adatto a disquisire sulla religione.
Shaka si buttò allora sull’insalata, seguito a ruota
da Mu che attaccò la braciola. Mangiarono in silenzio, ma sappiate che il
loro silenzio valeva molto di più delle parole vuote che venivano dagli altri
tavoli.
- Tutto bene Miquel?
Domandò l’uomo, osservando il bambino. Questi sorrise.
- Sì, mi sento molto meglio.
L’uomo annuì. Era lato, altissimo, quasi due metri.
Aveva le spalle grandi come un armadio e i lineamenti dritti. Diciamo che aveva
un perfetto profilo greco, lievemente rovinato da una piccola distorsione del naso,
unica testimone della sua passata passione per il wresling.
I capelli castano scuro cadevano lisci sulle spalle, allontanati
dal volto e portati dietro le orecchie per non infastidire gli occhi color terra.
- Bene.
La donna dietro di lui lo guardò speranzosa.
- Allora, dottor Alderaban? Come sta mio figlio?
A dispetto della sua mole, Alderaban era amatissimo dai bambini
che non facevano altro che chiedergli di potarli sulle spalle, grazie ad una forza
fisica non indifferente Al poteva portarne benissimo anche quattro tutti assieme,
oppure sei, se gli ultimi due erano magrolini.
- Sta benone signora.
La rassicurò, rivolgendole un sorriso radioso. La donna
lo abbracciò con slancio. Al pensò che le
mamme erano davvero troppo apprensive e che in fondo il figlio aveva solo le avvisaglie
di un sonoro raffreddore.
- Comunque, signora, le segnerò delle pillole contro il
raffreddore, non si sa mai.
Disse, estraendo il libretto delle ricette e la penna.
Quando Miquel e la madre se ne furono
andati, Al si accasciò su una sedia.
- Lavori troppo.
Disse una voce. Alderaban trasalì, voltandosi di scatto.
Dietro di lui, Mu sorrideva, porgendogli un grosso panino alla porchetta, accettato
senza troppe resistenze dall’affamato pediatra.
- Non mi pesa, lo sai. Adoro i bambini.
Mu si sedette di fianco a lui, guardandolo mangiare.
- Lo so, ma mi sembra che tu faccia abbastanza senza dover sacrificare
quei miseri venti minuti di pausa che ci vengono concessi.
- Lo so, lo so.
Annuì Al, rivolgendogli un sorriso pieno di briciole.
- È che amo troppo il mio lavoro.
Disse, ridendo a bocca piena. Mu sorrise. Alderaban si spostò
di lato, osservando la porta.
- Oh, Shura! Entra!
Shura Bernanos, il trentasettenne fisioterapista
d’origini spagnole, spuntò dalla porta, rivolgendo un ghignetto ai due.
- Avete visto passare Aphrodite e Angelo?
Chiese, scandagliando la stanza con i suoi occhi neri come la
pece. Neri erano anche i suoi capelli, corti e portati all’indietro, come
Angelo. E questi erano due che venivano spesso fermati all’aeroporto, perché
nessuno credeva che facessero un mestiere onesto. Avevano troppo la faccia da delinquenti.
- Sono scomparsi e la gente li cerca.
Mu e Al si scambiarono un’occhiata. Non che la relazione
tra i due non fosse evidente, ma almeno non sparissero durante le ore di lavoro!
- No, ci dispiace…
- Oh, non fa nulla.
Disse, scrollando le spalle.
- Torneranno.
E inforcò nuovamente la porta. Mu e Al si guardarono.
- Dokho!
Un ruggito infuriato risuonò nel pronto soccorso dell’ospedale,
mentre Sion Surion, un finto cinquantenne (ne dimostrava
molti meno) e anche un finto magro, camminava a grandi passi verso il colpevole
della sua furia. I lunghi capelli chiari incorniciavano il volto squadrato e gli
occhi non erano poi così degni di nota. Di degno di nota c’era decisamente
un sedere da non ignorare, però.
Dokho alzò lo sguardo dai propri fogli, osservandolo quasi
come se lo trovasse divertente o altro. Dokho Li-Yan era
un altro cinquantenne che, al contrario del collega, vantava origini asiatiche,
dai corti capelli castani e gli occhi color del legno di ciliegio. Generalmente
era un tipo posato e tranquillo, che non disdegnava il sano lavoro dietro alla scrivania
che la proprietaria dell’ospedale (tale Saori Kido, una Giapponese Greca d’adozione) l’aveva posto
a fare. Ma ogni tanto aveva dei guizzi di follia e doveva assolutamente fare qualcosa:
tipo dare una mano ad Aiolos e Aiolia Yiogor, i due fratelli
greci che gestivano il pronto soccorso.
Trentacinque anni Aiolia, quaranta il fratello, entrambi mori,
entrambi abbronzati, entrambi alti e muscolosi (più adatti ad un mestiere
di buttafuori che a quello dei medici) ed entrambi grecissimi,
avevano una differenza secca negli occhi: verdi per Aiolia e azzurri per Aiolos.
- Sion.
Rispose l’altro, pacato.
- Che cosa credi di fare?!
- Bhe, pensavo di far entrare la signora Margherita per prima,
visto che il suo codice giallo la mette in pole position…
- Non intendevo questo!
Sion si mise le mani tra i capelli, irritato. Tra le ciocche,
i primi capelli grigi facevano capolino, così come sui capelli di Dokho,
dove ormai tutta la striscia delle tempie era grigia.
- Cosa credi di fare QUI!
Si corresse Sion.
- Dare una mano ai fratellini.
Rispose Dokho. Sion sospirò.
- È inutile che io ti dica che la signorina Saori ci ha dato una marea di cartacce da firmare?
- Assolutamente sì.
Sion si massaggiò le tempie, sempre sospirando.
- Vieni subito nell’ufficio.
- Ma non credo proprio!
- Vieni subito, ho detto!
- Non possiamo sbolognare tutto a Saga?!
- Saga è a casa con la varicella!
- A quaranta anni?!
- Prima o poi doveva prendersela!
Dokho lo fissò.
- Sion…
- No.
- Sionn…
- Noo.
- Dai… odio quella stanza che puzza di chiuso.
- Anch’io, ma ci dobbiamo stare, è così che
ci guadagniamo lo stipendio, noi.
Dokho mandò un sospiro, consegnando la cartelletta ai
due fratelli.
- Buon lavoro, ragazzi…
Aiolia e Aiolos si guardarono attentamente, per poi allontanarsi
con un pensiero comune: ma davvero l’ospedale era in mano a quelli lì?!
A.Corner (B)
Ebbene, arieccomi *-*
Ora, parliamo della storia *-* sarà principalmente una
comica, ma le scene drammatiche non mancheranno, anzi ùWù
le coppie yaoi saranno le più svariate, a seconda
di come gira a me, ma ci saranno le tanto amate coppie canon
(avete visto Milo e Camus e Aphro/Mikail e Death/Angelo
XD). Ah, mando un appello: Isaac è in una qualche coppia?ò.o sappiate subito che con Hyoga non vale, e che io
stavo pensando all’anonimo pinco pallino dell’Ippocampo *-* coppia decisa
secondo un metodo scientifico: nel book della Sacred Saga
stanno su due pagine vicine ù_ù e poi perché
l’Ippo mi piace *-* non lo so, ha la faccia da essere
maltrattabile *-* cosa che si suppone farò con tutto il cuore *-*
Il rating è Arancione ù_ù
cioè, visto che sono cattivacattivacattivacattiva
non vi dirò nulla di nulla di quello che fanno tra le coperte *-* vedrete
il prima e il dopo ma non il durante ù-ù
Ehh…
that’s life ù-ù