NOTE DELLA PIGNA
Buon
(?) lunedì!
Torno dopo eoni di assenza su
EFP per pubblicare questa innocente shottina piena di angst, nonostante
la mia
carissima committente mi avesse richiesto del fluff, but, well, angst
happens. Chiedo
inoltre perdono per il titolo ordinario, ma faccio davvero schifo a
trovarne
uno adatto per quello che scrivo.
Questa shot è ambientata
qualche mese dopo la fine di His Last Vow, in un’ipotetica
quarta serie in cui
Mary non muore. Non ancora.
Ad ogni modo, vi auguro una
buona lettura e spero che ci risentiremo presto!
Un piccolo
avvertimento per il linguaggio
colorito ad un certo punto della storia.
Sherlock
avvolge la lunga
vestaglia blu intorno alle proprie spalle, legandola in vita, prima di
uscire
dalla propria stanza e lanciare un'occhiata alla padrona di casa,
intenta a
ripulire il risultato di un esperimento notturno fallito da una parete
della cucina.
"Mrs.
Hudson, devo
ritirarmi nel mio Palazzo Mentale. Non mi disturbi per le prossime,
diciamo,
sette ore." Le dice con tono perentorio mentre si dirige nel soggiorno
e
si lascia cadere sul divano. Incrocia le mani sotto il mento,
isolandosi dal
resto del mondo senza nemmeno sentire le parole di protesta
dell'anziana donna
mentre esce dall'appartamento.
Dopo
gli ultimi avvenimenti,
Sherlock deve fare ordine nelle stanze del proprio Palazzo Mentale,
completamente in disordine. Le carte dei casi sono sparse ovunque, il
pavimento
è ricoperto di sporco e di foglie che le finestre aperte
hanno lasciato
entrare, le porte che dovrebbero restare chiuse sono spalancate,
lasciando
intravedere i suoi occupanti e il caos al loro interno. Si muove
lentamente,
quasi con difficoltà nella sua stessa mente a causa della
lunga assenza, mentre
cerca di riordinare ogni cosa. Si ferma davanti a una porta, che una
volta era
chiusa a chiave, ma ora la serratura è distrutta, strappata
con violenza dal
legno scuro. Lascia scorrere le dita sulla superficie lignea, evitando
le
schegge, prima di socchiudere la porta e sbirciare al suo interno.
La
conosce bene quella porta:
conduce ad un'ala riservata del suo Palazzo Mentale, l'Ala John H.
Watson.
Dopo
aver conosciuto quello
che sarebbe diventato il suo miglior amico e l'unica ragione per
sopravvivere
alla prigionia e le torture subite in Serbia, sapeva che avrebbe dovuto
creare
una stanza per lui, anche solo per garantirgli una convivenza civile e
serena.
Ma a poco a poco la sua stanza aveva avuto bisogno di sempre
più spazio,
allargandosi ed esplodendo letteralmente, costringendo Sherlock a
creare
un'intera ala, ancora in via di espansione.
Varca
la soglia e si richiude
la porta alle proprie spalle, prendendo un respiro profondo per inalare
il
profumo di John Watson, racchiuso con cura in quello spazio. Fa qualche
passo,
rimettendo in ordine tutti i diversi file e le varie immagini che
ritraggono
l'amico, fino a fermarsi davanti a una spessa porta color rosso scuro.
Afferra
la maniglia e la apre, trattenendo il fiato prima di rilassare
l'espressione in
un debole sorriso.
Riapre
improvvisamente gli
occhi quando sente qualcosa di caldo bagnargli le guance. Porta una
mano al
volto ed osserva confuso le lacrime sui polpastrelli, scuotendo
impercettibilmente
la testa e serrando le palpebre per scacciare quella... strana ed
inusuale
sensazione all'altezza dello stomaco, una sorta di angosciante
pesantezza. Si
tira a sedere, sbuffando per non essere riuscito nel suo intento e per
essere
stato distratto dal pensiero di John Watson, distrazione ricorrente
negli
ultimi sei mesi forse ancora più accentuata dopo gli ultimi
avvenimenti. Si
alza in piedi e si scrolla la vestaglia di dosso, afferrando il
cappotto ed
infilandolo con un movimento fluido delle spalle, prima di precipitarsi
nelle
scale, direzione Scotland Yard, mentre il desiderio - bisogno - di un
caso si
fa sempre più pressante. Spalanca la porta e si congela sul
posto.
John
Watson è fermo davanti a
lui, una mano sollevata a mezz'aria come sull'atto di bussare la porta,
e
l'aspetto stranamente devastato. I capelli sono arruffati, gli occhi
stanchi
evidenziati da pesanti borse scure, il naso rosso per il freddo
pungente.
Sbatte le ciglia un paio di volte e apre la bocca per parlare, per poi
limitarsi
a deglutire.
"John?"
"Sherlock."
Biascica
in risposta, un sorrisetto che appare sulle labbra sottili mentre
lascia cadere
la mano al proprio fianco e barcolla leggermente. Rimangono a fissarsi
negli
occhi ancora qualche momento prima che John parli di nuovo. "Beh? Cosa
aspetti? Fammi entrare."
Sherlock
fa per protestare, ma
John sale il gradino che li separa e appoggia la testa contro il suo
petto,
facendo scivolare un braccio intorno alla vita sottile del detective,
bloccato
sul posto come se si fosse improvvisamente trasformato in marmo.
"Per
favore."
Mugola, afferrando un lembo del cappotto per coprirsi dal freddo, il
fiato che
puzza di alcool che giunge prepotentemente alle narici del moro,
riportandolo
alla realtà.
Sherlock
sbatte le palpebre e
riprende a respirare, abbassando lo sguardo sull'amico. E' chiaramente
ubriaco
e il detective sa che non è mai stato nelle sue abitudini
bere prima di
mezzogiorno, specialmente con l'intento di ubriacarsi. Qualcosa lo
turba, lo
può vedere dalle rughe profonde presenti sulla fronte,
inconsciamente
aggrottata, e dal modo in cui si stringe a lui, come se avesse bisogno
di una
qualche forma di conforto e rassicurazione. Sospira ed annuisce,
passandogli un
braccio sotto l'ascella e separandolo da sé.
"Vieni
con me." Gli
dice con tono dolce, facendolo entrare e chiudendo la porta alle
proprie
spalle. Sale il primo scalino quando Mrs. Hudson fa capolino nel
corridoio, con
sguardo interrogativo.
"Dopo,
Mrs. Hudson."
La zittisce Sherlock prima ancora che gli rivolga una domanda,
rientrando in
casa silenziosamente e a capo chino.
Trascina
John al piano di
sopra, salendo con fatica i diciassette gradini prima di varcare la
soglia di
casa. Barcolla con lui finché non raggiunge la poltrona,
adagiandolo con
attenzione e inginocchiandosi davanti a lui. Gli prende il volto tra le
mani,
forzandolo ad aprire le palpebre con le dita e osservando le iridi e le
pupille. Trattiene un sospiro di sollievo quando non nota nessun
problema nel
suo sguardo.
"Sherlock...
Avevi
ragione..." Trascina le parole, come se avesse difficoltà a
parlare tanto
quanto a tenere gli occhi aperti.
"Come
sempre, John. Ma
riguardo a cosa?" Gli chiede, tentando di tenerlo con lui, le sue mani
riluttanti a lasciare andare il suo viso.
"Riguardo
a tutto. A
Mary, alla bambina, a me." Sussurra, sbadigliando rumorosamente e
accennando un sorriso, che tuttavia sembra più un'amara
smorfia.
"Spiegati."
Lo
esorta il detective, aprendogli nuovamente le palpebre, prima di
alzarsi in
piedi e dirigersi in cucina per riempirgli un bicchiere d'acqua ed
accendere la
macchina del caffè. Torna da John e gli porge il bicchiere,
prima di sottrarlo
quando vede che sta per rovesciarne il contenuto su di sé
con un risolino. Lo
posa per terra e si siede accanto a lui sul pavimento.
"La
bambina. E' di
David." Gli dice, scoppiando a ridere sguaiatamente. "Mary è
entrata
in travaglio l'altro giorno ed io... Che coglione... Io ero talmente su
di giri
che non avevo nemmeno detto il mio nome e sai cosa ha detto
l'infermiera al
momento di farmi prendere la bambina in braccio? Ha detto
"Congratulazioni, David"!" Scoppia nuovamente a ridere,
battendosi una mano sulla coscia e scuotendo la testa. Sherlock
aggrotta le
sopracciglia, poggiandogli una mano sulla spalla per non farlo cadere
sulla
faccia sul pavimento.
"Come
poteva sapere che
il padre fosse David?" Gli domanda.
"Fanno
l'esame del DNA ad
ogni neonato, stupido." Risponde, appoggiandosi con la schiena allo
schienale e divaricando le gambe, dondolandole. Sherlock sbatte le
palpebre un
paio di volte, provando ad immaginarsi l'amico, sull'orlo delle lacrime
mentre
attende di poter prendere in braccio sua figlia, quando l'infermiera si
riferisce a lui con il nome risultato dall'esame del DNA, e non
può non provare
una forma di umana pena nei suoi confronti.
"Mi...
Mi dispiace."
Dice quando riesce finalmente a ritrovare la voce. John sorride
amaramente, la
sua espressione più simile a una smorfia di dolore che ad
altro.
"Non
è vero. Non ti
dispiace." Gli risponde, incrociando le braccia sul petto, sbattendo
prima
una palpebre e poi l'altra, cercando di trattenere un violento
sbadiglio.
Sherlock rimane a fissare i profondi occhi blu annebbiati dall'alcool
prima di
alzarsi e ripulirsi i vestiti.
"Alzati.
Hai bisogno di
una doccia fredda e di una dormita." Afferma, porgendogli una mano e
aiutandolo a sollevarsi in piedi. Gli passa immediatamente un braccio
sotto le
ascelle e lo trascina verso i bagno mentre l'amico poggia la testa
sulla sua
spalla, inspirando profondamente nel suo collo e strusciando con le
labbra
contro la linea della sua mascella.
"Perché
ti prendi sempre
cura di me?" Biascica contro la sua gola, facendolo sussultare per la
sensazione che il suo fiato caldo gli provoca. Sherlock deglutisce ed
attraversa il corridoio fino al bagno, John un peso morto contro il suo
fianco.
Lo fa sedere sul bordo della vasca ed inizia a svestirlo velocemente
prima che
abbia una qualche reazione. John si agita all'improvviso e spinge
Sherlock via
malamente, rischiando di cadere all'indietro e battere la testa contro
la
parete.
"Cosa
stai facendo?"
Gli chiede allarmato.
"Ti
sto svestendo. Non
fare la suffragetta, ti ho già visto nudo diverse volte."
Gli risponde
freddamente, riavvicinandosi a lui e sfilandogli il maglione che odora
di
alcool dalla testa, prima di gettarlo nel cesto della biancheria
sporca,
seguito poi dai pantaloni e dall'intimo dell'altro. Apre il rubinetto
dell'acqua fredda, aggiungendo un po' di acqua calda per non causargli
uno
shock, sebbene al momento ne avrebbe bisogno. Lo aiuta a rialzarsi ed
entrare
nella vasca, poggiandogli le mani sulle spalle affinché non
provi ad uscire.
John spalanca gli occhi e lancia un gridolino di sorpresa quando si
rende conto
di essere immerso nell'acqua fredda.
"Stai
fermo." Gli
ordina Sherlock, mantenendo la stretta salda ed evitando il suo
sguardo,
catturato dalla pelle lacerata della sua spalla sinistra. Non ha mai
visto la
cicatrice, prima, e adesso non può fare altro che fissarla,
senza accorgersi
del tempo che scorre e di John che lentamente riprende coscienza di
sé e di ciò
che lo circonda. Sussulta quando sente una mano toccargli il gomito e
si rialza
velocemente in piedi, ignorando la fitta di dolore alle ginocchia,
"Ti
prendo dei vestiti.
Non ti muovere." Gli dice prima di precipitarsi fuori dalla stanza.
Apre
il proprio armadio e si appoggia ad esso, serrando gli occhi per
qualche
secondo e inspirando ed espirando profondamente. Non sa cosa gli stia
succedendo.
Sente come un peso dentro di sé che lo sta lentamente
soffocando, quasi come se
venisse risucchiato e non potesse fare altro che abbandonarsi ad esso.
Normalmente combatte questa sensazione, ritirandosi nel suo Palazzo
Mentale per
combattere e sconfiggere questa chimera, ma in quel momento non
può far altro
che soccombere. Un rumore nell'altra stanza lo riporta alla
realtà ed afferra
velocemente un pigiama e un paio di mutande a caso senza guardare.
Ritorna da
John, che ora lo sta osservando con sguardo curioso, quasi come se
capisse il
suo tormento interiore.
"Sherlock?"
Lo
chiama con un debole tono di voce, venendo ignorato dall'altro, che gli
passa
le braccia sotto le ascelle e lo tira in piedi. Deglutisce, cercando di
non
lasciar correre gli occhi sul corpo nudo di fronte a lui, e si volta
per
prendere il pigiama e le mutande.
"Indossa
questi. Ti
saranno sicuramente piccoli, ma dormendo nudo potresti ammalarti." Gli
dice con voce meccanica, uscendo nuovamente dalla stanza mentre l'altro
lo
chiama nuovamente.
"Che
c'è?" Risponde
bruscamente, maledicendosi mentre vede il biondo sbattere le palpebre
offeso e
torturare la maglia del pigiama, deglutendo.
"Ti
ho chiesto se
potresti passare la notte con me." Sussurra, timoroso della reazione
dell'altro, che tarda ad arrivare. "Non voglio essere da solo. Non
stanotte." Gli spiega, abbassando lo sguardo sul pavimento. Sherlock fa
finta di pensarci su, sebbene la sua risposta sia sempre stata e sempre
sarà
affermativa, prima di comunicargli la sua decisione.
"Va
bene."
Esita
ancora qualche secondo,
osservando con la coda dell'occhio John annuire lentamente ed
asciugarsi con
calma, prima di dirigersi nella propria stanza. Si sveste con mente
assente,
indossando una maglietta e i pantaloni del pigiama per poi adagiarsi
sotto le
coperte, voltandosi sul fianco e volgendo la schiena alla porta. Non
riesce a
pensare a niente e quasi non si accorge quando John scivola nel letto
dietro di
lui, spegnendo la luce e schiarendosi la gola un'ultima volta per
rendere
chiara la sua presenza, prima di addormentarsi profondamente.
Quando
la mattina seguente
John si sveglia, Sherlock non c'è più al suo
fianco. Si tira a sedere e sente
una violenta fitta di dolore alla testa che gli fa serrare gli occhi
per
qualche istante. Rimane nel letto ancora per qualche minuto, cercando
di
memorizzare ed imprimere nella propria mente ogni dettaglio di quella
stanza e
del suo occupante, del suo odore catturato nel cuscino nel quale non si
trattiene dall'immergere il naso, del calore delle coperte, della
sensazione di
aver diviso quel letto con lui e di essere stato così idiota
dal presentarsi a
casa sua in quelle condizioni.
Si
alza finalmente in piedi,
barcollando leggermente mentre si cambia nei suoi vestiti della sera
prima, che
sono stati lavati e lasciati sul comodino accanto al letto. Si passa
una mano
sul volto e si infila le scarpe, afferrando la giacca abbandonata sul
dorso
della sedia.
Esce
dalla stanza e fa qualche
passo nel corridoio, fermandosi sulla soglia della cucina ed osservando
la
figura seduta al tavolo. Lascia correre lo sguardo sui capelli color di
inchiostro, in contrasto con la pelle pallida e il colore chiaro della
vestaglia che indossa, avvolto dal vapore della tazza di
caffè davanti a lui
mentre osserva il campione sul vetrino attraverso gli occhi del
microscopio.
Pensa
a come sarebbe
svegliarsi in quel modo ogni mattina, trovando l'oggetto dei suoi
pensieri ad
attenderlo e con la possibilità di poter allungare una mano
ed intrecciare le
dita nei soffici riccioli, ma poi la violenta realizzazione che
ciò non potrà
mai accadere nella sua situazione lo riporta alla realtà,
guidandolo
silenziosamente alla porta e dandogli la spinta necessaria per farlo
uscire da
quella casa.
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