Dedicata alla mia
adorata Sakijune, anche se in mostruoso ritardo. Ancora buon compleanno.
Impasse
[a
Pomona/Filius Xmas story]
Le fiamme crepitavano vispe nel camino.
Le osservava con aria stanca, seduta su una sedia dalle gambe
traballanti, tremule. E si dondolava volontariamente, come se volesse
sfidare la gravità a spingerla a terra.
Era stanca della staticità della sua esistenza, ma
ammetterlo le provocava attacchi di panico. Arrivare alla
maturità, i capelli già divenuti fili
d’argento mascherati come meglio poteva, vanità
infantile che non sapeva correggere nonostante gli sforzi e il buon
cuore, arrivare alla sua età e voltandosi, non scorgere che
la propria ombra dietro le spalle. Nessuna strada battuta, nessun
successo raggiunto.
Certo, vi era l’affetto di tanti ragazzi che erano sbocciati
tra le sue piante, crescendo alla luce della sua dolcezza avevano
imparato cosa significasse amare e sentirsi cittadini del mondo, non
aver alcun timore dell’oscurità gelida capace di
avviluppare a volte, anche gli antri più lucidi delle menti
migliori. Vi era questo e il rispetto del corpo insegnanti. Dopotutto
molti l’avevano vista crescere, da ragazzina sempre
sorridente e dall’aria appena persa, in perenne
contemplazione della bellezza della natura e interessata ad ogni
fenomeno inspiegabile, lo sviluppo della vita in primis, da bambina a
giovane donna non particolarmente bella ma di certo portatrice sana di
una luminosità comparabile solo all’avvenenza. Il
sole che faceva crescere le piante nella serra l’aveva resa
una degna compagna degna d’essere ricoperta di delicate
ghirlande profumate.
Una donna che, ad un certo punto, come una pianta che incontri il
cemento e smette di crescere e collassa su se stessa, aveva raggiunto
un’insenatura dove ripararsi dal freddo e con
l’intenzione di fermarsi solo per riprendere fiato vi era
rimasta per anni. Contemplando il paesaggio vuoto e spoglio sotto i
suoi occhi. Restando immobile. Statica.
Le fiamme crepitavano allegre nel camino.
Quale fosse la forza che faceva ardere la legna per lei era un mistero.
Uno di quei grandi dubbi che la scienza poteva spiegare, dandone una
descrizione. La fisica e la chimica potevano giustificare il fenomeno,
ma non il perché uomini e donne amassero contemplare quello
spettacolo, dondolandosi su una seggiola confortevole mentre fuori
dicembre infieriva sugli alberi del bosco fitto e buio.
Nella sua stanzetta le capitava spesso di riflettere, di perdere ore
con un libro tra le mani, o le pergamene su cui erano stilati fiumi di
relazioni firmate dai suoi amati studenti. Le capitava di alzarsi
intenzionata a terminare la correzione soprattutto delle classi che
avrebbero sostenuto il G.U.F.O. e il M.A.G.O. e poi improvvisamente di
venir colta da un’improvvisa necessità di
adagiarsi in un posto qualunque e chiedersi cosa significasse andare
avanti, ascoltare i battiti pazzi del cuore, brancolare nel buio
ignorando la strada e lo scopo del viaggio chiamato esistenza.
Guardando le piante morire e rinascere si chiedeva se ci fosse
giustizia nel circolo perenne, se non fosse tutto inutile. Ogni pianta
sarebbe morta, poi avrebbe mostrato una nuova bellezza florida e quasi
perfetta, ma poi la neve avrebbe di nuovo asportato ogni merletto
fiorito lasciando i rami rachitici a soffrire e a leccarsi le ferite, a
piegarsi sotto i venti invernali.
Si chiedeva se fosse possibile vivere in un circolo, sentire di star
morendo asfissiata.
Perché anche Pomona, un po’ come le sue piante
viveva in un ciclo sempre uguale.
La mattina recandosi a lezione indossava una maschera, un debole
sorriso sempre cordiale e lo ostentava con dolcezza dirigendolo al
preside, ai suoi ragazzi, agli insegnanti con cui si scontrava per i
corridoi. A volte inciampava letteralmente in loro, e quando accadeva
soprattutto la McGrantitth lasciava intendere la sua preoccupazione.
Pomona stava sfiorendo troppo in fretta, non era giusto o naturale.
Qualcosa non andava.
Ma lei tuttavia sorrideva con dolcezza, e poi sfrecciava via, diretta
alle serre. Lì esprimeva tutta la sua vitalità,
elargiva pillole di saggezza e consigli e raffinati commenti ai suoi
allievi insegnando l’arte dell’Erbologia e del
rispetto con garbo e discrezione, intromettendosi quanto basta per
venire rispettata ed amata da chiunque. In effetti la lezione era il
momento più gratificante della sua vita, che si riduceva
semplicemente all’affermazione nel campo pedagogico.
Soprattutto da quando c’era Neville Paciock, insegnare era
diventato un meraviglioso palliativo alla sua inquietudine, e per di
più si stava trasformando con il procedere
dell’abilità del giovane, in una sorta di vincolo
segreto fatto di occhiolini e sorrisi complici tra una donna che
potrebbe essere la zia buona ed un adolescente taciturno e insicuro
desideroso di crescere.
Pomona intuiva quanto ci fosse di buono in lui. Neville salvava come
lei la vita ad ogni essere vivente, anche le piantine più
indifese, e soffriva nel vederle appassire, sfiorire.
Era così valente quel ragazzo che, Pomona ne era certa, un
giorno avrebbe dato prova di quanto coraggioso e forte fosse.
Pomona aveva questo sogno ormai, aiutarlo a maturare.
E dopo, quando i frutti sarebbero cresciuti, avrebbe abbandonato la
cattedra e gliel’avrebbe offerta su un piatto
d’argento. Tra qualche Natale Neville avrebbe trovato questo
dono sostanzioso sotto l’albero.
L’idea la fece distogliere dalla contemplazione del fuoco.
Nonostante avesse il volto completamente arrossato dal calore della
combustione, le sue mani erano bluastre. E qualcosa di più
nascosto e intimo era coperto di ghiaccio.
Il suo cuore si era adattato alla solitudine, costruendo uno strato
isolante di permafrost. Ghiaccio che nessuno poteva sciogliere.
E in quel periodo, appena prima di Natale, la solitudine, la
rassegnazione e i rimpianti cozzavano tra di loro, gettandola in un
pandemonio emozionale in cui le pareva di affogare.
Vent’anni, ripeteva nella mente, senza posa.
Perché a Natale Pomona aveva un appuntamento, ogni anno
sostenerlo sembrava più difficile.
Se avesse potuto, avrebbe preferito morire piuttosto che confrontarsi
con lo Specchio dei Desideri. Ma questo si presentava puntualmente,
mentre lei se ne stava cautamente, spaventata più che altro,
chiusa in casa con le sue piantine nane e i compiti da correggere.
Bussarono alla porta. Come ogni anno. Pomona si riscosse prontamente,
lasciando per terra un pacchetto di relazioni che, come al solito,
aveva solo finto di correggere. Quella di Neville era l’unica
che avesse realmente letto, l’unica di cui realmente le
interessasse. I tonfi alla porta furono seguiti da un rispettoso
silenzio, e poi da un roco colpo di tosse.
Pomona aprì gli occhi, il suo passo si affrettò
diretto all’uscio.
Non riusciva ad aprire.
Aveva come la netta sensazione di sapere chi si trovasse là
dietro.
E non voleva farsi trovare in quelle condizioni.
E non voleva farlo accomodare in casa.
Perché lei era un’acida zitella piena di acciacchi
ed incapace d’essere cordiale.
Non a dicembre, a poco più di due settimane dal Natale.
Vent’anni.
Un nuovo tonfo alla porta. Una domanda, tremula <<
Pomona? >>
La donna si strinse nelle spalle, si rassettò la veste,
portando i fili argentei dei capelli appena dietro alle orecchie.
Doveva avere un aspetto terribile, ma di certo indugiare
sull’uscio era qualcosa di stupido. E poi di cosa si
preoccupava? Ad una come lei non era richiesta che la dolcezza, anche
se acida e fasulla. Non bellezza, non fascino. Poteva presentarsi anche
con indosso un sacco nero della spazzatura e nessuno ci avrebbe fatto
caso. Non c’era nessuno che l’avrebbe poi domandato
cosa non andasse. Forse ci avrebbero provato Minerva o Neville, ma lei
sapeva eludere le loro occhiate turbate.
Non sapeva eludere però i suoi occhi gentili.
Perché Pomona non era totalmente statica.
Nella sua immobilità la donna compiva una rotazione continua
e folle attorno ad un astro. Un astro che per tutti era un patetico
sassolino, chissà come si era affermato nella vita.
Ma Pomona amava le cose semplici e i misteri inspiegabili della vita.
E inspiegabilmente, lo amava, e attorno a lui seguitava a orbitare.
Ed era straziante voler aprire la porta e tremare. Ed era struggente
quella tosse pacata da udire.
Il freddo copriva la sua mancanza di coraggio, scandendo il tempo.
<< Pomona, sei in casa? >>
La donna aprì la porta. Dall’espressione che
l’altro aveva assunto, tutto il turbamento che le scuoteva
l’animo dovevano essersi impressi sul suo viso. Ma il
“sassolino” era troppo galante e rispettoso per
esprimere commenti negativi << temevo non fossi in casa.
Di questi tempi ti tormento necessariamente, ormai da decenni
>> esordì. Filius Flitwick, togliendosi il
cilindro oblungo che calcava sul capo durante ogni suo viaggio. Un
cappello anacronistico e consunto, che faceva ridere sotto i baffi gran
parte dei giovani studenti, ma che secondo Albus Dumbledore non passava
mai di moda. Filius tremò per un attimo, scuotendosi per
scacciare lo spettro del freddo, e poi abbassando il cappello e
stringendolo con le lunghe dita affusolate accennò un
elegante inchino. Anche sul suo capo il tempo aveva infierito. Capelli
argentei e lunghi fino alle spalle, gli davano un’aria da
regnante caduto in disgrazia. << mi scuso per il
maledetto disturbo, Pomona, ma come sai bene il Natale si sta
avvicinando e la Sala Grande deve essere addobbata. Mi chiedevo se
anche quest’anno tu abbia dei consigli da darmi per le piante
che potrebbero rallegrarla. >>
Quelle parole lo facevano sempre sentire un ignavo. Un vile. Un idiota
patentato. Perché non bisognava essere degli scienziati per
ricordare dopo quasi vent’anni della stessa pantomima, del
solito colloquio, della medesima domanda quali piante utilizzare per
allietare una maledetta sala da pranzo.
E dopotutto un insegnante di incantesimi doveva necessariamente
possedere un’ottima memoria, quelle dannate formule magiche
non si potevano pronunciare se non alla perfezione, per evitare di
creare mostriciattoli mezzi uomini e mezzi maiali. O peggio, strambi
individui della sua stessa stoffa. Filius fingeva di dimenticare per
questo motivo.
Andare dritto al sodo, domandarle semplicemente di passare un allegro
pomeriggio insieme a riempire di finta neve abeti incantati era troppo
difficile.
Ma avere un suo sorriso tremulo, vedere le gote arrossarsi
delicatamente e le labbra pronunciare un debole <<
d’accordo >> era essenziale per lui.
A Natale gli importava solo questo. Un suo prezioso sorriso.
Perché vederla lieta non era raro, ma scorgerla felice era
impossibile. E bizzarramente, gli pareva che solo dopo quella richiesta
Pomona davvero sorridesse di gioia.
Per il resto era conscio di quanto fingesse. E il peggior dolore
è quello mascherato da falso sorriso.
Così continuava a presentarsi da venti anni alla sua porta,
bussava e tossicchiava, indossava i suoi abiti migliori, si riempiva di
profumo e si impomatava i baffi. I suoi capelli argentei li pettinava
elegantemente dietro la testa. E le unghie limate e raffinate
nonostante tanti preparativi indugiavano e tremavano, sfiorando il
legno levigato della porta.
Per non parlare di quello che combinava il suo cuore, quando gli pareva
che lei non dovesse aprire. Per non parlare di quello che combinava
sempre il cuore, quando poi Pomona appariva.
E bisogna tacere, sul momento in cui lui la osservava timoroso ed
emozionato, e lei abbassava gli occhi grandi e luminosi, ricercando la
forza nelle assi del pavimento.
Quella domanda. Che preambolo strano per un uomo del calibro di Filius.
Pomona non riusciva a capire perché ogni anno si presentasse
indossando i migliori abiti per porle un simile interrogativo. E la
cosa che ancora più non riusciva a comprendere, era
perché lei tremava e sbraitava, oppure se ne stava immobile
davanti al camino finchè quel maledetto giorno non arrivava.
Che fossero entrambi posseduti da qualche follia della mezza
età? Difficile dirlo.
No, Pomona, sai bene cos’è.
Ma pensarlo in maniera compiuta era difficile e crudele nei suoi
confronti.
Illudersi non era la mossa giusta, soprattutto davanti a lui.
Soprattutto a Natale.
<< Quest’anno non posso proprio.
>>
Filius barcollò su se stesso. << C-cosa?
>> borbottò, guardandola in viso. Non vi era
alcuna gioia in quegli occhi. Crudeltà sulle sue labbra,
ombre scavate ai lati della bocca. Avrebbe voluto sfiorarla con i
polpastrelli, accarezzare con devozione quel viso, come un bambino
avrebbe fatto con quello di sua madre, o un pellegrino con le labbra
della statua di una santa.
Ma doveva solo chinarsi, accusare il colpo. Barcollare debolmente era
quanto poteva permettersi senza far trasparire né dolore
né delusione.
<< Ho un pacco di compiti a cui affrancare un giudizio. E
ho problemi nella Serra, non avrei il tempo materiale da impegnare.
>> Pomona sbuffò. Perché aveva
così tanta voglia di mettersi a piangere? <<
mi dispiace >> boccheggiò.
<< Non ti preoccupare, non è un problema. Me
la caverò da solo, in fondo posso sempre consultare un tomo
in biblioteca. O rivolgermi a Paciock, è un allievo modello
nella tua materia dopotutto >>
Pomona si strinse nelle spalle, annuendo << è
un ragazzo meraviglioso >> sussurrò.
Filius annuì. Pomona notò che gli tremavano le
mani.
<< allora, beh. Ci vediamo domattina >>
sussurrò abbassando il capo e indossando con un guizzo il
cappello. << Grazie per il tempo che mi hai concesso
>>
Pomona avrebbe voluto replicare. Ma Filius si voltò,
nascondendosi nel mantello scuro.
Il fumo si sperdeva dal comignolo, imbrattando di nero il cielo rosso
per il tramonto.
Filius mosse qualche passo, gli occhi colmi di rabbiosa
incredulità. Chi era quella donna? Cosa ne aveva fatto di
Pomona? Dov’era finita la persona cordiale e allegra per cui
nutriva un profondo rispetto, un’ammirazione viscerale?
Dov’era la persona che gli aveva fatto dimenticare, anni
prima, con una frase gettata per caso o volontariamente,
l’inutilità dell’altezza ? Gli aveva
esplicitamente detto che le persone troppo alte hanno il cervello
troppo lontano dal cuore e non sanno più amare.
All’inizio aveva riso di quella sentenza, non aveva voluto
scorgere il complimento. Era troppo timida per certe esclamazioni.
Ma poi aveva compreso cosa gli volesse suggerire. Era stata coraggiosa,
per una volta.
E lui in quel preciso istante, non era preparato a riconoscere tanta
audacia.
Non mentre si piangeva addosso, commiserando i centimetri che gli
mancavano per essere alla sua altezza. Non aveva ancora capito che
Pomona considerava nel giudizio l’estensione solo del buon
cuore. E il suo tendeva pericolosamente a più infinito. (
nda: questa Saki concedimela, merito delle nostre chiacchierate
cibernetiche! )
Quella volta aveva sprecato la migliore occasione della sua vita.
E reiterava l’anniversario di una simile disgrazia
presentandosi da lei con la stupida richiesta di partecipare alla
decorazione natalizia. Qualche volta si era perfino spinto a domandarle
di passare insieme il pomeriggio, a scegliere gli abeti migliori. Era
un piacere vedere le gote do Pomona colorarsi appena di rosso. Lei
sosteneva per il freddo, ma entrambi sapevano che fosse una piccola
bugia. Ma la Foresta Proibita ottenebrava nel suo manto magico ogni
segreto, ed era meno difficili fingere che le loro mani si sfiorassero
casualmente.
<< Filius! >>
Lo aveva richiamato ed era impossibile tapparsi la bocca.
Ma la paura, il tremore, l’amore la rendevano pazza.
Spericolata.
Lei che aveva paura anche degli uomini adesso si era spinta oltre a
trincea. Una bomba sarebbe esplosa e l’avrebbe travolta. Se
lo meritava. Stupida.
Pomona si avvicinò alla porta. Si reggeva saldamente per non
cadere.
Filius si voltò stupito, e incapace di nasconderlo, le
mostrò il viso inumidito dalle prime lacrime.
<< cosa? Tu piangi >> borbottò
incredula la donna, arrivandogli accanto <<
come… perché? >>
Il professore sussurrò debolmente. Stava per esplodere anche
lui.
Perché Pomona era una stupida ad avergli negato il solito
sorriso.
Perché lui era un idiota a non averglielo strappato.
Perché vent’anni di innamoramento e corteggiamento
non se li poteva portare via così, un capriccio femminile.
Loro si erano promessi aiuto reciproco, o così pareva, erano
una squadra magnifica, e adesso il duo si era sciolto. Tornava ad
essere solo. Com’era brutto, cadere in basso. E
già che c’era era meglio toccare il fondo in un
unico schianto inesorabile, e non aggrapparsi ad ogni sporgenza, solo
per l’illusione di potersela cavare.
<< Tanto vale dirtelo. Beh, non è
Natale senza la tua presenza, Pomona. Non per me. perché
quando non ci sei non mi riesce nemmeno possibile immaginare che
esistano giorni comuni. Non mi riesce nemmeno possibile vivere. E il
periodo di Natale è il più duro,
perché spesso non ci incontriamo per settimane.
>>
Lei lo osservò sconcertata. Le mancava il respiro.
<< quando hai capito tutto ciò?
>> riuscì solo a domandargli. E le
bastò un suo sguardo per conoscere la risposta.
Erano venti lunghi anni che lo sapeva.
Venti lunghi anni, e forse di più.
<< lo so da quando mi hai aperto il cuore e io per
codardia ho preferito non esplorarlo. Temevo stupidamente di aver
trovato la felicità. Non credevo potessi anche io, un
giorno, averne diritto. >> confessò,
guardandosi i piedi. Faceva ridere, con il cilindro sulla testa che
traballava ad ogni suo gesto.
Codardia.
La stessa che le impediva di accettare la proposta di Filius.
O forse la sua era rassegnazione? Se qualcosa non si realizza per
vent’anni chi ci scommetterebbe ancora sopra?
Pomona era pazza a volerci ancora sperare.
Non voleva, ma ci credeva ancora.
<< hai il diritto di essere qualunque cosa tu voglia,
Filius. E questo lo sai bene >> replicò
debolmente, arrossendo.
Filius le si avvicinò. Sorrise tra le lacrime che gli
rigavano il viso appena puntellato di rughe e ciuffi candidi
<< anche se il mio volere contrasta con quello di un
altro, credi che debba farlo valere? >>
<< se è per il bene di entrambi sì
>>
<< non so se sia una bene. Ma so che è giusto
>> borbottò lui.
Pomona non seppe mai come accadde, ma al tramonto si baciarono.
Fu questione di un secondo, o forse passarono ore.
Si baciarono consumando così il dolore e il timore di
vent’anni. Le mani di Filius le sfioravano i capelli
argentei, ma non si vergognava più di possederli. Era il
tempo che aveva consacrato aspettando quel pomeriggio, non
c’era nulla di più bello da portargli in dono.
E Filius non temeva più di essere troppo poco per lei. Il
dolore e la frustrazione provata erano una ghirlanda di fiori con cui
cingerle il capo, incoronandola sua salvatrice.
Si baciarono a lungo, prima di decidersi ad entrare in casa.
Le fiamme crepitavano ancora nel camino, avevano mangiucchiato e
annerito tutti i ceppi di legno.
E c’era tutta una Sala Grande da preparare.
<< domani >> sussurrò Filius
tranquillo << domani ce ne occuperemo >>
<< Ma Filius! Il Natale non aspetta. Non ha la nostra
stessa pazienza >> sorrisero, sentendosi due stupidi
felici << e se bisogna risolvere una questione lunga
vent’anni, affrancarle un giorno in più
sarà un buon motivo per discuterne più a lungo!
>>
Il professore la osservò e sorrise vittorioso
<< avevano ragione Minerva e Paciock. Non eri felice da
tanto tempo >>
Pomona arrossì violentemente << e chi ti dice
che ora lo sono? >>
Filius le strappò un nuovo bacio, spensierato
<< il tuo sorriso. Era da tempo che non lo vedevo
più >>. Lei sorrise di nuovo, nascondendo il
viso con le mani.
Il giorno dopo nella Sala Grande ricoprendo di luci e colori anche il
buio tetro del cielo.
Pomona e Filius sedevano accanto, avevano fatto un bel lavoro.
<< siamo un’ottima squadra >>
borbottò Pomona, sorseggiando un po’ di succo di
zucca.
Filius le sfiorò la mano da sotto il tavolo, tanto che la
donna arrossì e lasciò andare la tazza per non
farla scivolare. Tremava fin nelle ossa.
<< che ne dici di essere un’ottima squadra per
sempre? Finchè morte non ci separi? >>
Lei lo guardò incredula. Sospirò <<
anche oltre >>
Aveva spezzato il ciclo. Tornava a sorridere.
Accanto a Filius sarebbe stato sempre Natale. Iniziava allora, la vita.
FINE
U__U Pairing inconsueto per i miei gusti, ma sappiamo bene
com'è Sakijune ^^
Ama ogni creatura di cui si conoscano a malapena le abitudini, ama i
deboli e gli umili delle storie.
E le persone bizzarre.
E gli amori impossibili, dove il vero vincolo non è la casa
d'appartenenza, o il sangue.
è la timidezza, o un complesso. O l'animo umano,
incomprensibile e inesplorato.
Spero ti sia piaciuta questa storia, non era esattamente come me
l'aspettavo.
Ma una promessa è una promessa, e così l'ho
pubblicata nonostante non mi sembri un gran capolavoro.
Spero di dedicartene un giorno una migliore, più sensata,
più bella.
Che possa farti davvero sentire felice di esserne la dedicataria.
Per adesso solo i miei auguri, nella speranza che non ti faccia
vomitare.
E un ringraziamento a chiunque voglia leggere o recensire, nel bene e
nel male.
Maria
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