Breathe on me (parte seconda)
Quella notte, dopo tanti giorni,
per la prima volta Bucky si rifiutò di dormire con Steve, anzi si chiuse dentro
la sua stanza senza rispondere e senza uscire nemmeno per cena. Rogers si
rendeva conto di quanto quel bacio l’avesse destabilizzato e ancor più di
quanto la consapevolezza dei suoi crimini passati gli impedisse di godersi
finalmente il suo affetto incondizionato… capiva, sì, ma era anche intenzionato
a fare qualcosa di concreto e non avrebbe lasciato che Bucky si crogiolasse nel
dolore e nell’autocommiserazione. Questo no, maledizione! Bucky lo aveva
spronato alla morte di sua madre, lo aveva sempre incoraggiato quando gli altri
ragazzi si burlavano di lui e lo picchiavano, gli aveva ripetuto continuamente
quanto valeva a dispetto del suo fisico gracile… bene, adesso toccava a lui.
La mattina seguente, Steve si
presentò baldanzoso alla porta della stanza di Bucky e bussò con fare deciso.
“James Buchanan Barnes, se non
apri questa porta entro cinque secondi, giuro che la butto giù e tu sai che non
sto scherzando” dichiarò. “Tanto, a questo punto, un danno in più o in meno
all’appartamento di Stark non è un problema. Uno… due…”
Al tre Bucky aprì la porta, con il viso tirato e i capelli
scarmigliati di qualcuno che non aveva chiuso occhio per tutta la notte e che
non aveva fatto che girarsi e rigirarsi nel letto.
“Molto bene, abbiamo fatto il
primo passo” commentò Steve. “Cercherò di sorvolare sull’aspetto da zombi che
ti ritrovi stamani, ma adesso fila in cucina a fare colazione, è chiaro,
soldato?”
Il Soldato d’Inverno squadrò
Rogers con aria dubbiosa, chiedendosi evidentemente se non fosse impazzito, ma,
alla fine, l’istinto a obbedire a un ordine ben preciso fu più forte di tutto
il resto e il giovane si avviò verso la cucina sotto lo sguardo soddisfatto del
Capitano.
Mentre Bucky sbocconcellava di
malavoglia una fetta di pane tostato e leggeva il futuro nei fondi di caffè,
Steve si era messo a preparare panini e a riempire uno zainetto di tela con
quelli e alcune bottigliette d’acqua. Sembrava molto compiaciuto.
“Sei in partenza?” chiese alla
fine il Soldato, disturbato da tutti quei preparativi e dallo strano
comportamento di Steve.
“Siamo in partenza, Buck” annunciò trionfante Rogers. “Oggi andiamo
a Brooklyn!”
“Sei partito di cervello o cosa?
Che accidenti c’è da vedere a Brooklyn?”
“Il posto dove abitavo” rispose
semplicemente Steve, con un sorriso disarmante. “Voglio vedere se, portandoti
lì, riuscirai a ricordare qualcosa.”
“Non ti ha sfiorato l’idea che
potrebbero aver buttato giù tutto e averci costruito sopra un parcheggio? Sono
passati settant’anni, Steve!” sbuffò Bucky che, per qualche suo motivo
personale, si dimostrava assai contrario all’idea di andare in quei luoghi.
“No, ci sono già stato: è una
delle prime cose che ho fatto non appena sono tornato a New York da Washington”
rispose il giovane, sempre sorridendo con tenerezza e per nulla smontato
dall’evidente malumore del compagno. “Volevo rivedere la casa dov’ero cresciuto
e di cui, nonostante tutto, conservo ancora ricordi piacevoli, grazie a mia
madre e… grazie a te. L’edificio è praticamente abbandonato, ma la zona è molto
simile ad allora.”
Il Soldato si alzò da tavola
scuotendo il capo, rassegnato.
“Datti una sistemata” gli ricordò
Steve. “Non ti porto fuori con me in quelle condizioni.”
Pochi minuti dopo, i due erano
pronti. Steve, con i jeans, la
T-shirt bianca, il giubbotto di pelle e lo zainetto in
spalla, pareva proprio uno studente universitario in gita di piacere; Bucky si
era legato i capelli in una sorta di codino, con una ciocca ribelle che gli
ricadeva ostinata sull’occhio sinistro, aveva una giacca di jeans verde
militare sopra una maglietta nera e i jeans pure neri… aveva più l’aria da
tossico che da studente, ma Rogers valutò che potesse andar bene lo stesso.
“Andremo con la mia moto, ci
impiegheremo circa tre quarti d’ora, lo so perché ci sono già stato” spiegò
Steve, invitando il compagno a salire dietro di lui.
“Io dovrei venire in moto con te?
Seduto dietro?”
“Altrimenti puoi fartela a piedi,
scegli tu” tagliò corto Steve, impaziente di condurre Bucky a rivedere i luoghi
in cui avevano trascorso un’infanzia e un’adolescenza tutto sommato felici.
Il viaggio durò più o meno tre
quarti d’ora, proprio come il Capitano aveva previsto; Bucky trascorse tutto il
tempo a cercare di ignorare quanto lo turbasse e quante strane emozioni gli
scatenasse dentro il doversi tenere ben allacciato alla vita dell’amico…
“Secondo me è una colossale
stronzata… come minimo, ti ruberanno la moto” disse Bucky, guardando torvo
Steve che parcheggiava il veicolo. Erano arrivati proprio a due passi dal
vecchio edificio in cui il Capitano era nato e cresciuto e Steve, ignorando le
proteste del compagno, si avviò deciso verso il cortile della sua casa di
allora. Ormai non ci viveva più nessuno, molte finestre avevano i vetri rotti e
le porte degli appartamenti erano sbarrate con assi di legno, ma questo non
aveva importanza per Steve. Anzi, per loro sarebbe stato meglio, così nessuno
si sarebbe chiesto cosa ci facessero là.
“Avanti, vieni” disse Rogers in
tono incoraggiante verso Bucky, che esitava perfino a mettere un piede nel
vecchio cortile malridotto. “Ecco, io abitavo lì.”
Scostandosi la ciocca
dall’occhio, Bucky si decise a entrare nel cortile e a guardarsi intorno. Steve
già si accingeva a salire la scala che lo avrebbe condotto alla porta del suo
antico appartamento, quando una sorta di grido soffocato proveniente dal
compagno lo fermò.
“Bucky, cosa c’è?” chiese subito,
preoccupato.
Il giovane era rimasto immobile
ai piedi delle scale, pallidissimo e con gli occhi fissi su qualcosa che pareva
vedere solo lui.
“Io… ah… io sono già stato qui…
non ricordo quando… molto tempo fa, sicuramente” mormorò, rivolto più a se
stesso che a Steve.
Il Capitano s’illuminò tutto, ma
non disse una parola per non interrompere la magia: il flusso di ricordi stava
facendosi strada nella mente confusa di Bucky.
“Tu abitavi lassù” disse Bucky,
indicando una delle porte, “ed io… io ti aspettavo qui ogni mattina, per andare
a scuola insieme a te.”
“Sì, sì, è proprio così!” esclamò
Steve, con le lacrime agli occhi. Avrebbe voluto precipitarsi ad abbracciarlo,
ma non poteva, doveva trattenersi: Bucky stava pian piano ricordando e per
nulla al mondo lo avrebbe interrotto proprio in quel momento.
“Quando c’era la neve, ti
chiamavo tirandone manciate al vetro della tua finestra…” continuò il giovane,
tremando per l’emozione che lo invadeva a causa di quell’ondata improvvisa di
memorie dolcissime e struggenti. Si muoveva appena e aveva lo sguardo fisso,
come se non vedesse davvero ciò che aveva davanti, ma soltanto quello che stava
rivivendo. “Una volta tua madre aprì la finestra e… e la neve le arrivò dritta
in faccia!”
“Sì, andò proprio così, Buck…
Dio, non mi sembra vero” sussurrò Steve, che ora rideva e piangeva nello stesso
momento, sopraffatto da una gioia immensa e inaspettata.
“Mi pare… non avevo anche una
bicicletta?” Bucky si guardò intorno stupito, come aspettandosi di vederla
comparire per magia.
“Te l’avevano regalata i tuoi”
annuì Steve. “Quando era bel tempo, venivi a prendermi con quella per andare a
scuola.”
Un lieve sorriso sfiorò le labbra
del Soldato d’Inverno… un altro miracolo, a ben vedere. Steve era disposto a
giurare di non averlo più visto sorridere da quando l’aveva ritrovato.
“Un giorno d’estate mi portasti a
Coney Island in bicicletta, ma poi ci fu un temporale, te lo ricordi, questo?”
domandò Steve, commosso.
Bucky rimase pensieroso per
qualche istante e Steve si pentì di avergli fatto una domanda precisa: era già
una meraviglia inaspettata che il giovane Soldato avesse ricordato tante cose
solo rivedendo quell’edificio e quel cortile, non si poteva forzare la sua
mente. Scrollò il capo, deluso, e abbassò lo sguardo a terra, lasciando che la
ciocca scura gli coprisse l’occhio.
“Non importa, Bucky, va bene
così, davvero, non devi sforzarti” lo rincuorò Steve. Poi, cercando di
distrarlo, prese a salire le scale che portavano al suo vecchio appartamento,
invitando il compagno a fare altrettanto.
Salirono insieme, ma dopo pochi
passi Bucky si fermò di colpo e riprese a fissare nel vuoto, trasognato.
“Sono stato qui quando è morta
tua madre” mormorò.
A Steve salì il cuore in gola ma
questa volta si sforzò di restarsene zitto e di attendere con pazienza che il
ricordo riaffiorasse spontaneamente nella testa del giovane.
“Ti ho riaccompagnato a casa dopo
il funerale perché non volevo che restassi solo” continuò, sempre guardando
fisso qualcosa che solo lui poteva vedere. “Volevo restare con te per qualche
giorno, per farti compagnia…”
Mordendosi il labbro inferiore
nello sforzo di rammentare completamente l’episodio, Bucky salì ancora qualche
altro gradino; nel frattempo Steve era giunto proprio davanti alla porta del
suo appartamento di allora, anch’essa ormai sbarrata con assi di legno. Quando
furono entrambi sul pianerottolo, nella stessa identica posizione di tanti anni
prima, Rogers dovette farsi forza per non mettersi a piangere: era tutto così
surreale, loro due nello stesso posto a più di settant’anni di distanza nel
tempo e con in mezzo tanti episodi atroci e dolorosi… era come un cerchio che
si chiudeva.
“Mi pare… ho insistito per
restare con te, non è così? Ti ho detto… ti ho detto…”
I grandi occhi chiari di Bucky si
sgranarono per la sorpresa e il giovane trasalì, incredulo e sconvolto.
“Sono stato io” disse poi, con
un’espressione sperduta e indifesa dipinta sul viso. “Quella frase, quella che
tu hai ripetuto sull’Helicarrier… io sarò
con te fino alla fine… quella che mi ha bloccato quando stavo per colpirti
di nuovo… la riconobbi allora, ma non eri stato tu a dirmela per primo. L’avevo detto io a te, tanti anni
prima!”
Questa scoperta sembrava aver
turbato Bucky più profondamente di ogni altra cosa.
“E’ andata così, sì, sei stato tu
a dirlo a me quel giorno” confermò Steve commosso. “Te l’ho detto, sei sempre
stato premuroso e affettuoso con me fin da quando ci siamo conosciuti. Adesso
ti sembra strano che io mi comporti in questo modo, ma tu con me l’hai sempre
fatto e ora, finalmente, lo ricordi anche tu.”
“Quello era Bucky…” mormorò il giovane,
disorientato.
“Tu sei Bucky” affermò Steve con decisione, “e ora che sei riuscito
a ricordarlo sarà anche più facile accettarlo. Tu sei lo stesso ragazzo di
allora, nonostante tutto quello che ti hanno fatto. Per questo io… beh, io ti
amo oggi esattamente come ti amavo allora.”
Il Soldato, smarrito, dovette
aggrapparsi al corrimano per non soccombere sotto quella marea di ricordi e
sentimenti che lo travolgevano e lo schiacciavano. Quello era Bucky, no, lui era Bucky… avevano cercato di
distruggerlo, di spezzare la sua anima e il suo spirito, ma non ce l’avevano
fatta, non con lui e non dopo che… aveva ritrovato Steve. Chiuse gli occhi per
un lungo istante, prese un gran respiro e parve riprendersi. Si voltò verso
Rogers, più lucido e tranquillo.
“Perché non volevi che restassi?”
Ecco che ricominciava con le sue
domande inopportune…
“Certo che volevo che restassi,
ma… beh, c’erano tante cose” rispose confuso Steve. “Dovevo elaborare il fatto
che mia madre non ci fosse più, volevo dimostrare che potevo farcela da solo
senza disturbare te per ogni minima cosa e poi… più di tutto…”
“Più di tutto cosa?”
“Mi sentivo particolarmente
vulnerabile e non sapevo come avrei reagito nel rimanere da solo con te!”
ammise il Capitano, arrossendo. “Temevo che avrei potuto dire, o fare, qualcosa
di cui mi sarei pentito e che avrebbe rovinato tutto. Già su quel pianerottolo
l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che desideravo terribilmente che tu
mi baciassi! Ecco, ora l’ho detto!”
“Ho capito” commentò Bucky,
riflettendo sulla confessione del compagno. “Bene, e lo pensi anche adesso?”
Steve arrossì ancora di più.
Possibile che Bucky avesse la capacità di fare le domande più imbarazzanti
dell’universo mondo?
“In realtà… sì, lo penso più o
meno ogni volta che mi sei vicino” riconobbe Rogers.
“Dicevi che qui non abita più
nessuno, no?” chiese il Soldato, dandosi una veloce occhiata intorno.
Poi… nessuno dei due capì chi
avesse preso l’iniziativa. Si ritrovarono l’uno nelle braccia dell’altro, avvinghiati;
tutti i dubbi, le paure e le incertezze si liberarono in un fiotto di passione.
Le bocche, le lingue, le mani, i corpi premuti insieme fin quasi a fondersi, un
cerchio che finalmente si chiudeva dopo più di settant’anni. Anche questa
volta, tuttavia, fu Bucky a staccarsi per primo, fissando Steve con una luce
strana negli occhi.
Cosa c’è adesso?, si chiese Steve, desolato.
“Sono disorientato” fece il
ragazzo, guardandolo perplesso. “Nel mio ricordo tu eri… più basso, non so…
insomma, non eri così, ma non capisco perché, forse è la mia mente che funziona
male e confonde un episodio con un altro…”
Ecco.
Alla fine erano arrivati anche a
quello.
Steve si rese conto che Bucky era
riuscito a ricordare alcuni momenti della loro vita prima della guerra, ma che
non aveva memoria di quando si erano ritrovati nel 1943… e adesso avrebbe
dovuto spiegargli tutto da capo un’altra volta.
Non sarebbe stato facile.
“Senti, Buck, che ne dici se ce
ne andiamo a Coney Island, sulla spiaggia, e mangiamo i panini che ho portato? Così
ti spiegherò tutto” propose Steve, approfittando del fatto che era quasi ora di
pranzo.
“Ah… certo” replicò il giovane
Soldato, continuando a fissarlo poco convinto.
Con un sospiro rassegnato, il
Capitano iniziò a scendere le scale, seguito da Bucky. Era contento di aver
portato il compagno fino a Brooklyn e aveva ottenuto molto più di quanto
sperasse: i ricordi erano tornati, soprattutto quelli legati alla loro infanzia
e adolescenza. Adesso, però, ci sarebbe stato un altro ostacolo non
indifferente da superare.
I due ragazzi ripresero la moto e
Steve guidò fino a Coney Island, lasciando il veicolo nel parcheggio
prospiciente la passeggiata sul lungomare: poco oltre si trovava il Luna Park… chissà se Bucky ricorderà anche di avermi
fatto dare di stomaco su quelle montagne russe?, si domandò distrattamente
Rogers. Superato il lungomare, si accedeva alla spiaggia. Steve scelse un luogo
appartato e cominciò a tirare fuori le provviste dallo zainetto di tela.
“Tonno o prosciutto e formaggio?”
chiese, mostrando i panini a Bucky.
“Fai tu, per me è lo stesso.
Piuttosto, ora devi spiegarmi…”
“Ti spiegherò tutto, Buck, te
l’ho promesso” ribatté Steve, porgendo al compagno il panino al tonno.
“Allora inizia” insisté il
giovane, ostinato e prestando ben poca attenzione al pranzo improvvisato.
“Posso almeno mangiare, prima?”
“Stai prendendo tempo” osservò
Bucky.
“Per l’amor del cielo, non sto
prendendo tempo, sono semplicemente affamato!”
replicò Steve, dando un morso al sandwich.
Per qualche minuto rimasero in
silenzio, Steve che mangiava e cercava le parole giuste per iniziare quel
discorso tanto ostico e Bucky che lo fissava, ricordandosi di tanto in tanto di
dare un morso distratto al suo panino. Quando Rogers ebbe finito di mangiare il
primo sandwich, prese una delle bottigliette d’acqua e ne bevve più di metà in
due sorsate, poi fece per attaccare il secondo panino.
“Mozzarella e pomodoro va bene
per te?” domandò, mostrando al compagno due panini uguali.
“Fa lo stesso” tagliò corto il
Soldato, che non era ancora arrivato neanche a metà del primo. “Puoi prenderli
anche tutti e due, se ti va, io non ho molta fame. Sto ancora aspettando che
tu…”
“Ho capito” disse Steve,
rassegnato. Mangiò ancora metà sandwich e poi iniziò la spiegazione. “Non c’è
niente che non va nei tuoi ricordi: prima della guerra ero veramente un ragazzo
piccolo e mingherlino, ero debole e soffrivo di asma. Per questo, quando venne
il momento di arruolarci, nessun medico voleva accettarmi.”
Bucky continuava a fissarlo in
silenzio.
“Provai in diversi Stati, ma il
risultato fu sempre lo stesso. Una sera, però, uno scienziato, il dottor
Erskine, mi sentì mentre parlavo con te del mio desiderio di arruolarmi e di
essere utile al nostro Paese, così mi scelse per sperimentare… beh, per
sperimentare il siero del supersoldato” raccontò Steve, prendendo poi un altro
bel sorso dalla bottiglietta d’acqua. Non era certo facile parlare di
quell’argomento con Bucky…
“Ti hanno iniettato quel
maledetto siero?” esplose, infatti, il giovane, scuro in volto. “Ed io dov’ero?
Perché non ho fermato quei bastardi? Loro…”
“Calmati, Buck” lo interruppe con
dolcezza Steve, posandogli affettuosamente una mano sul braccio destro. “Tu eri
già stato arruolato ed eri partito per la Gran Bretagna, ma questo non
c’entra niente: nessuno mi ha fatto del male, sono stato io a volere che mi
sottoponessero a quel siero pur di potermi arruolare.”
Bucky pareva non averlo nemmeno
sentito.
“Io non c’ero e quei maledetti ti
hanno…”
“L’ho voluto io, Bucky, nessuno mi ha costretto. E’ stato un po’ doloroso, lo
ammetto, ma niente a confronto di ciò che hanno fatto a te. E, in ogni caso, io
ero felice perché così sarei stato arruolato… speravo di combattere al tuo
fianco e, in effetti, così è stato, almeno per qualche mese” spiegò tranquillo
Steve. “Io sto bene, sono sempre stato bene, non è stato come quello che…
quello che ti hanno fatto.”
Bucky restò in silenzio a
contemplare quello che restava del suo sandwich. Per lui era difficile
accettare che Steve avesse subito lo stesso trattamento riservato a lui e che
fosse stato lui a volerlo.
“Erskine non aveva cattive
intenzioni e, nel suo progetto, i supersoldati avrebbero combattuto per i
giusti ideali, proprio quello che desideravo io. Poi, purtroppo, i nazisti
uccisero il dottore e si impossessarono del suo siero… ma non sarebbe dovuta
finire così, Bucky, lo capisci?”
Il giovane annuì, restando però
pensieroso e cupo.
“Sapevo che avresti reagito così
e per questo non avrei voluto dirti niente” riprese Steve, in tono accorato.
“Questa è stata una giornata splendida per me, Buck, una giornata tutta per noi
due, come quando eravamo ragazzini; inoltre tu hai ricordato tante cose e
questo è meraviglioso. Ti prego, non rovinare tutto adesso…”
Bucky scrollò il capo e la ciocca
ribelle gli ricadde di nuovo sul viso.
“Anche per me è stata una bella
giornata… dopo tanto tempo, non ricordo neanche quanto” ammise.
“Ti prometto che sarà solo la
prima di una lunghissima serie di giornate felici, insieme, adesso come allora”
dichiarò convinto Steve.
Circondò le spalle di Bucky con
un braccio e lo attirò a sé, stringendolo teneramente.
Avevano affrontato insieme altri
ostacoli, quel giorno, e li avevano superati restando uniti. Bucky stava
iniziando a ricordare e, nei suoi atteggiamenti, adesso Steve riusciva a scorgere
sempre di più l’ombra dell’amico di un tempo.
Stringendo forte a sé il
compagno, il Capitano cominciò a pensare che, finalmente, il peggio era alle
spalle e che, lentamente ma con costanza, Bucky avrebbe fatto progressi fino a
ritrovare la serenità che meritava.
E lui ci sarebbe stato sempre.
Fino alla fine.
FINE