Skywalker
“Quand’eri giovane, brillavi come
il sole
Ora lo sguardo nei tuoi occhi
è come buchi neri nel cielo
Hai scoperto il segreto troppo
presto
Hai pianto alla luna
Minacciato dalle ombre della
notte
Splendi, folle diamante
Hai cavalcato il vento d’acciaio
Fatti avanti delirante,
visionario profeta
Tu, prigioniero, e splendi”
I
Blue Monday
“Dovrei essere felice di essere vivo?”
Aprile 2005
Mesa, Arizona
È un pomeriggio così pieno di luce. Continuo a produrre pensieri elementari e
questo credo sia il terzo in ordine d’importanza.
Il secondo pensiero elementare riguarda il dolore: il polso fa male, brucia a
intervalli regolari.
Il primo pensiero elementare potrebbe essere riassunto in un sussulto di
terrore. Mi sono appena fatta tatuare i suoi piccoli occhi in un posto
dove potrò rivederli per sempre. Credo sia l’idea più raccapricciante che abbia
mai avuto, eppure sono tragicamente soddisfatta della mia decisione. Sono
identici alla foto originale, una delle poche che ho il coraggio di mostrare a
chi mi chiede com’è laggiù – una delle poche in cui non ci siano pezzi di
qualcuno sparsi nella polvere -. Facevamo tutti quelle stupide foto, come se
avessimo paura di dimenticare. Oh, andiamo, avremmo dovuto capire che
dimenticare sarebbe stato sostanzialmente impossibile. Il ricordo non ha niente
a che fare con la volontà, compare all’improvviso, come un nemico ben
mimetizzato, ti coglie alla sprovvista. Le speranze di sopravvivenza in un
agguato ben costruito sono prossime allo zero. Le speranze di superare indenni
lo sgambetto di un ricordo sono nulle. E se il ricordo è martellante, se il
ricordo è onnipresente, sei un morto che cammina.
Da quando sono tornata, ogni giorno è il giorno più triste della mia vita. Non
posso dire sinceramente che non me lo aspettassi, è che in realtà non c’è stato
il tempo di fare delle previsioni. C’era un’immensa quantità di luce, anche nel
pomeriggio in cui ho visto per l’ultima volta gli occhi che ora se ne stanno
nascosti sotto al cerotto. Un’orgia di sole, una distesa di terra gialla e
straniera, i suoi occhi sperduti che si avvicinano sempre di più. La normalità
in cui credevo è finita lì, è fissata in quell’ultimo fotogramma rubato alla
memoria. Ora so che forse non c’è mai stato niente di normale in me, in ciò che
ho deciso di fare o nel modo in cui ho scelto di vivere. Magari ha ragione lo
zio Mike: ora Abigail è solo un fantasma. Incontro il mio riflesso nella vetrina
di un negozio e mi chiedo se è così. Abigail è un fantasma, è davvero solo un
fantasma?
*
“Ciao tesoro”.
La risposta è un grugnito distratto. Abigail, di ritorno da chissà dove, gli
passa davanti e scompare oltre l'uscio, sbattendo la porta senza tante
cerimonie.
Mike socchiude gli occhi, il fumo dell’ultimo tiro gli fluttua davanti al naso
insieme a un pessimo pensiero. Da quando la ragazzina è tornata la casa si è
trasformata in una bomba a orologeria e gli pare quasi di sentire il ticchettio
del tempo che li separa dall’esplosione. Dire che gli dispiace è riduttivo: se
gli avessero dato ascolto, ora, al posto del casino che ha nella testa, Abigail
avrebbe una laurea e starebbe cercando un posto nel mondo come ogni sano giovane
adulto. Invece Bobby – il saggio, granitico, affidabile Bobby – ha assecondato
l’aspirazione folle, trasformandola in una realtà.
“Fanculo…” mormora, lanciando il mozzicone nel prato e calpestandolo.
Il cigolio della porta alle sue spalle annuncia un’altra visita e, a giudicare
dal passo, non può che trattarsi di suo fratello.
“Cos’è quella roba che ha sul braccio?” ringhia Bobby.
“Eh?” risponde Mike, senza comprendere.
Bobby avanza con aria minacciosa, fino a mettersi di fronte a lui.
“Lo so che con te parla, non prendermi per il culo. Cos’è quella benda che ha
sul braccio? Non starà mica cercando di auto lesionarsi o cazzate simili, perché
ti giuro che…”.
“Ti prego” sospira Mike, interrompendolo “Stai girando a vuoto…”.
“Che cosa vorresti dire?”.
“Voglio dire che adesso dovresti sederti qui”.
Bobby obbedisce, piantandosi con poca grazia nella sedia di plastica sistemata
accanto alla sua. Mike lascia trascorrere un lungo minuto di silenzio, godendosi
il paesaggio che si estende oltre il giardino della casa. Laggiù in fondo,
sull’orizzonte di Maricopa, si sollevano i contorni di Camelback, la montagna
rossa. La vista è stordente, bellissima, l’esordio del tramonto colora d’oro
tutto quanto e sembra quasi di essere in paradiso.
“Devi portare la ragazzina in un posto dove possano aiutarla” dice Mike,
cercando un'altra sigaretta nelle tasche dei jeans.
“Vuoi dire uno psichiatra, è questo che intendi? Abigail non è una matta”
mormora Bobby.
Ha questa fissazione assurda che lei li stia ascoltando in qualsiasi momento e,
per Mike, è davvero snervante pensare che la creda così scema da non poter
capire quali siano le loro preoccupazioni.
“Cerca di pensare un po’ oltre. Abigail non è pazza” dice, sforzandosi di
restare tranquillo “Ma circola armata, si porta dietro quella pistola anche nel
cesso. Che cosa stiamo aspettando, esattamente? Che succeda qualcosa di tragico?
Perché credimi, succederà”.
Lo sguardo combattuto di Bobby vaga sul terreno, alla ricerca di risposte.
Sembra un animale rinchiuso in gabbia.
“Ti ha detto se è successo qualcosa? Con me fa finta di niente”.
“Intendi qualcosa oltre all’andare in guerra?” la domanda scivola dalle labbra
di Mike e il sarcasmo non passa inosservato.
“Non ho voglia di ascoltare un’altra predica. Sei l’ultima persona che può
permettersi di dare consigli di vita” la replica di Bobby è tagliente.
Mike sorride senza allegria e si ritrova a pensare che il passato è come una
fedina penale sporca: ti viene rinfacciato sempre, soprattutto quando vorresti
mettere la testa a posto.
“La senti urlare, di notte? La senti urlare tutti quei nomi?”.
La mascella di Bobby si contrae e lui distoglie gli occhi dai suoi. Deve aver
sentito per forza. I lamenti iniziano sempre con delle urla strazianti e poi si
trasformano lentamente in preghiere piene di dolore. Nessuno di loro due ha
ancora avuto il coraggio di risvegliarla dai suoi incubi.
“Dicono che il rientro è il momento più difficile, forse è normale”.
“Non c’è niente di normale in quello che le succede”.
Entrambi si soffermano su quel pensiero spaventoso. Solo diciotto anni prima, in
quello stesso giardino, coccolavano una bambina con una massa spropositata di
riccioli biondi. Sarah - la deliziosa, paziente Sarah - se n’era già andata,
portata via da una malattia che aveva infranto ogni speranza di vera felicità,
insieme al cuore ingenuo di Bobby. Mike lancia un’occhiata di sottecchi al
fratello minore: anche con lui il tempo è stato impietoso. Gli anni hanno
scavato solchi profondi che, come argini di un fiume morto, attraversano il suo
viso dove sono passati lacrime, dolore, rassegnazione, qualche sorriso sporadico
dedicato alla ragazzina. Sa di essere responsabile di parte delle sue cicatrici
naturali, specie quelle dovute alla preoccupazione, tutte concentrate lungo la
fronte corrucciata. Sa anche che in questo momento Bobby sta cercando la
soluzione, disperatamente come l’ha cercata al capezzale di Sarah, fino
all’ultimo istante di vita.
“Farò un paio di telefonate. Ho un amico su a Phoenix che forse può aiutarmi”
sospira Bobby, a un certo punto.
Mike annuisce e accende la terza sigaretta del pomeriggio, in onore del
sensazionale prodigio che Dio sta costruendo nel cielo.
“Mi dispiace, Robert. Non doveva andare così” dice.
Lui non risponde, nel suo sguardo passa il pensiero che ha nascosto nel
silenzio: niente doveva andare così.
*
Uno, due, tre… il boccone di carne scivola giù lungo la gola e già sento lo
stomaco irrigidirsi, poi chiudersi. Il secondo pezzo di pollo, degli otto che ho
sistemato nel piatto, mi fissa. Lo so che è tecnicamente impossibile ma è così.
Il pezzo di pollo mi fissa come mi fissa Maisie, che ora se ne sta quieta contro
la mia schiena, dormiente. Ho inserito la sicura? Credo di averlo fatto, sono
certa di averlo fatto. Uno, due, tre. Il pollo ritorna nella mia gola, lo
stomaco gorgoglia una protesta. Zio Mike ha finito da un pezzo la sua cena, se
ne sta con la testa appoggiata a una mano, a guardarmi. Mi dà ai nervi. Non
posso dargli la soddisfazione di far capire che mi sta innervosendo e questo mi
irrita ancora di più. Respira, Abigail, respira. Sto perdendo anche il
mio ultimo talento, la capacità innata della faccia da poker, come l’ha sempre
chiamata lo zio – con lui non ha mai funzionato granché, certo, ma con papà e
con il resto del mondo sì –; intendo la competenza del dissimulatore consumato,
l’infallibile mezzo con il quale ho nascosto tonnellate di emozioni dietro
espressioni neutrali, gesti misurati, comportamenti normali. Ho iniziato
a farlo da bambina, quando ho capito che la mia tristezza non piaceva a nessuno.
Voglio dire, a chi piacciono i bambini tristi? Io ero triste per via di mia
madre. Non l’ho mai conosciuta davvero, non ne ho memoria, eppure ne sentivo una
mancanza infinita e avevo tante di quelle domande che non avrebbero mai trovato
risposta… ma la mia tristezza per gli altri significava qualcosa di strano e,
per papà, significava solo altro male. Così ho seppellito tutto da qualche
parte, dentro di me, e ho continuato a farlo, come se si trattasse di un vizio.
L’ho fatto con l’invidia, con la gelosia, con la frustrazione dell’adolescenza.
Poi l’ho fatto con la confusione, lo smarrimento, il disagio del passaggio
all’età adulta. Anche dopo l’incidente, ho scavato una buca profonda e l’ho
riempita con tutto il terrore, gli incubi, il tremolio delle mie mani, il
ricordo del sangue. Solo che, questa volta, sembra non aver funzionato. Da
quella buca sento le cose peggiori premere per uscire da me, per esplodere e
farmi a pezzi. La mia faccia da poker si sta sgretolando e, oddio, zio Mike lo
sa. Lo capisco da come mi guarda. Terzo e quarto boccone di carne, due in una
volta, sperando di non vomitare sulla moquette.
Rimpiango il mio sangue freddo più di qualunque altra cosa. Mi ha permesso di
fare scelte che non avrei mai pensato di contemplare, di infrangere barriere che
non avrei mai pensato di superare. Quando ho deciso di arruolarmi non sapevo
fino a che punto mi sarebbe servito ma poi, con l’addestramento e in missione,
ho scoperto che senza sangue freddo qualsiasi soldato è condannato alla pazzia.
Gli occhi dello zio sono azzurri come quelli di papà e lui è la sua versione
corrotta, almeno secondo la morale comune. Io non sono pazza, zio Mike,
Abigail non è una pazza. Tu lo sai. Non ho il coraggio di dirglielo con le
parole. È che ho obbedito agli ordini, ho combattuto con precisione, anche se ci
avevano fatto capire che noi donne saremmo state esenti dallo scontro in prima
linea. Era una cazzata. Laggiù la prima linea è ovunque, si estende dal buco in
cui ti accovacci, sperando di pisciare senza che il nemico ti sorprenda con le
mutande abbassate, al villaggio in cui pensi di svolgere una ricognizione di
routine. La prima linea è anche nella tua testa, quando di stendi e cerchi di
dormire, pensando che è passato un altro giorno e, wow, contro ogni previsione,
sei ancora vivo. Ce la potevo fare, l’ho dimostrato, io non sono debole.
Ho ucciso, prima dell’incidente, e l’ho fatto senza pentirmene. Ho ucciso
qualcuno che voleva uccidermi, ho ucciso qualcuno che ci avrebbe volentieri
uccisi tutti. Capisci, zio Mike? C’è qualcosa di nobile, in questo, anche se
tu non ci crederai mai. Ti prego, smettila di guardarmi così. Dentro la mia
mente deflagra un urlo straziante, che mi costringe a serrare gli occhi. Per un
attimo, tutto è buio. Quando li riapro, la forchetta mi scivola dalla mano e si
schianta nel piatto, facendo sobbalzare papà. Zio Mike non fa una piega.
“Smettila di fissarmi”.
Quello che mi è uscito dalla gola è un ringhio: quando me ne accorgo è già
troppo tardi. Ho perso di nuovo il controllo e spero che la mia disperazione non
sia così evidente. Dove sei, Abigail, dove sei andata a finire?
“Ti sto solo guardando, perché ti dà tanto fastidio?” risponde lo zio,
tranquillo.
Lo sai, perché.
“Niente… è che io, ho solo…” le parole mi sfuggono, tento di afferrarle prima
che spariscano dalla mia lingua ma è un battaglia persa.
Anche papà mi fissa, ora. Allontano il piatto e, mentre bevo un sorso d’acqua, i
miei occhi incrociano i suoi. Ti prego, papà, ti prego. Non è colpa mia. Lo
sai, lo sai che è così. È così triste, dannazione. Da quando sono tornata,
ha proprio le sembianze di qualcuno che non sa che pesci prendere. Se avessi
ancora la mia faccia da poker ora potrei alzarmi, abbracciarlo, dirgli che tutto
andrà a posto. Tento un sorriso ma fallisco, gli angoli della bocca mi
abbandonano prima che riesca a partorire una smorfia credibile, e lui si rabbuia
ancora di più.
“Domani andiamo a Phoenix” dice, riprendendo a mangiare.
“Va bene” replico.
“Tieniti pronta per le nove”.
“Ok”.
Lui non mi guarda più. Se ne sta con il capo chino sul piatto, piegato. I suoi
capelli sembrano diventare sempre più grigi ogni giorno, come se la mia presenza
lo stesse privando della vita. Me ne accorgo, lo sento ma non riesco a parlare,
spiegare, come se tra me e lui ci fosse un gigantesco vetro. Forse nemmeno papà
vuole ammettere che la sua Abigail non c’è più.
Mi alzo di scatto ma stavolta nessuno si spaventa, balbetto un ‘buonanotte’,
ritorno indietro, su per le scale, supero l’uscio della mia camera, poi quello
del bagno. Quando la porta è chiusa, riprendo a respirare. Il mio riflesso è
sospeso sopra al lavandino, è un ritratto pessimo di ciò che dovrei essere. I
miei ventidue anni sembrano essere diventati cento, il cranio rasato mi
trasforma in un teschio senza identità e le ombre scure delle occhiaie si
allargano sulle guance. Cerco me stessa lì dentro, in questa sconosciuta che mi
guarda impaurita, e non riesco a trovarmi. Maisie mi accarezza la schiena e un
po’ mi rincuora. La sfilo dalla cintura dei jeans, dove la maglietta lunga l’ha
tenuta nascosta fino a questo momento, rimuovo la sicura. La sua bocca metallica
e nera bacia la mia tempia e finalmente c’è qualcosa di giusto. La vera Abigail
avrebbe il coraggio di farlo, il suo sangue freddo glielo permetterebbe e non ci
sarebbero esitazioni. Un colpo per un colpo, qualcosa che potrebbe cancellare
tutto. Vorrei solo uscire da questo corpo, evadere dalla prigione. Accarezzo
Maisie lungo il grilletto e lei, di nuovo, mi fissa. Sono qui, sembra
dire, sono qui per te. Un colpo per un colpo…
“Tesoro?”.
La voce dello zio mi trascina a forza nella realtà. Puoi ancora farlo,
Abigail. Puoi farlo.
“Tesoro, ti ho portato un po’ di gelato”.
Una maledizione mormorata mi passa tra le labbra. Maisie trema nella mia mano,
poi scivola lungo la coscia. Quando reinserisco la sicura sembra rimproverarmi.
La nascondo al suo posto, nella cintura, e apro la porta allo zio senza
preparare una faccia presentabile. Lui mi aspetta insieme a un secchiello di
gelato alla vaniglia, seduto sul mio letto. Gli vado accanto e accetto l’offerta
di un cucchiaio. Nel silenzio, mangiamo un po’ di gelato ciascuno, a turno. Una
cosa che mio padre non farebbe mai. Ingoiando una cucchiaiata alla vaniglia,
penso distrattamente che due minuti fa ero sul punto di farla finita e non so
che spiegazione dare a tutto questo disastro.
“Scusa” dico, prendendo una pausa.
Zio Mike mi lancia uno sguardo divertito. È solo un secondo, regredisco allo
stadio della quindicenne che confessa a suo zio di essere stata sverginata da
uno sfigato. Il ricordo mi trascina indietro, al momento in cui lui mi ha
guardato nello stesso modo e mi ha detto: “cose che capitano”.
“Fottiti. Per un attimo ho pensato che mi avresti sparato” dice ora, sarcastico.
Passo una mano sul viso, scuotendo la testa. La verità non è così lontana da
quello che ha appena detto. Forse potrei arrivare anche a questo, chi lo sa? Ho
sentito di gente, laggiù, che ha fatto di peggio. Rabbrividisco.
“Tesoro?”.
“Non sto bene” sussurro, prima che mi manchi di nuovo il coraggio.
Non lo guardo in faccia ma so che lui non sta più sorridendo.
“Lo so” dice, poi mi abbraccia “Ce la facciamo ragazzina, stai tranquilla. Ce la
facciamo”.
Me ne sto qui, tra le sue braccia magre da ex tossico, e realizzo di trovarmi
sull’orlo del baratro.
*
NdA: sono secoli che voglio scrivere qualcosa sul PTSD, il disturbo post
traumatico da stress, con un’attenzione particolare dedicata agli individui nei
quali questo disturbo si manifesta così frequentemente e violentemente, cioè i
soldati coinvolti in combattimenti pesanti. Qualche anno fa avevo esordito con
un tentativo che sembrava essere partito bene, ma la storia era collocata in un
frangente temporale meno attuale del nostro, nel periodo subito successivo alla
guerra del Vietnam. Ho preferito, anche grazie a un contest che me ne ha dato la
possibilità, riprendere il tema in un contesto più vicino e del quale abbiamo
sentito parlare anche in tv. Il contest dal titolo "This Is War II - Situations" indetto da ManuFury sul forum di efp (http://freeforumzone.leonardo.it/d/10981324/This-Is-War-II-Situations-/discussione.aspx) prevedeva i seguenti paletti: il
protagonista doveva essere una ragazza di nome Abigail, e doveva provenire dagli
Stati Uniti; doveva avere due genitori dello stesso sesso (e per ragioni di
plot, ho inteso il “genitori” in senso piuttosto ampio, visto che comunque si
tratta di due fratelli); doveva avere un tatuaggio sul polso; doveva parlare di
sé in terza persona; doveva avere una fissa particolare per le armi e chiamarle
per nome (ho preferito concentrare questa caratteristica su un’arma in
particolare). Dal contest mi sono ritirata perché, come sempre, non sono riuscita a trovare la quadra in tempo: comunque questa storia ha visto la luce.
La citazione in apertura è la traduzione del testo Shine On You Crazy Diamond,
dei Pink Floyd, ed è dedicata a un personaggio della storia. La citazione in
apertura del capitolo è invece un estratto da un’intervista a un reduce italiano
affetto da PTSD che mi ha colpito e che ho ritenuto pertinente. Il titolo del
capitolo, Blue Monday, è una canzone dei New Order e anche un riferimento al
“giorno più triste dell’anno”, così ribattezzato da qualche scienziato idiota.
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