Mallow's
Il
negozio era troppo tranquillo. Niente signore dai costosi cappelli
sulla pettinatura fresca di bigodini, né scialli colorati a
coprire
un collo adornato da un semplice filo di perle bianche. Eppure era
pomeriggio inoltrato di un normale sabato; davvero, proprio non
riusciva a spiegarsi dove si trovassero le donne di Brooklyn.
Girò
la manopola del volume, così che la canzone le facesse un
poco di
compagnia; lo swing
allegro la portò a sorridere e a muovere qualche passettino
di danza
fino allo scaffale, dove si allungò per rimettere la scatola
di
cartone al posto che le apparteneva.
Tre
voci di donne l'accompagnarono mentre finiva di rimettere a posto la
merce pronta per essere consegnata alle clienti, là nello
stretto
sgabuzzino fungente da magazzino.
Tonda
nel ciel di maggio
come un formaggio d'Olanda
monta la luna in
viaggio
ed il suo raggio ci manda
Erano
davvero brave, pensò, inciampando appena in un libro
– certamente
caduto senza intenzione perché mai avrebbe
compiuto un simile atto ignobile. Lo aggirò con cautela e,
per
fortuna, non ci furono altri ostacoli ad impedirle di stipare il
grosso scatolone in un angolino ancora libero. Ora ne mancavano altri
quattro da sistemare e poi avrebbe potuto tornare alla sua lettura,
sempre che non si fosse presentato qualcuno alla porta.
Odi
i fior parlar tra lor
parlano tra loro i tuli
tuli tuli
tulipan
muoveranno in coro i tuli
tuli tuli tulipan
odi il
canto delizioso
nell'incanto sospiroso
Nonostante
fosse una rivisitazione della
più celebre Tu-li-tulip Time, delle
altrettanto famose Andrews Sisters, dovette
ammettere di preferire questa versione italiana. Le piaceva la
musicalità di quella lingua sconosciuta, le metteva allegria
a
dispetto della sua totale incapacità di comprendere il
testo.
Senza
volerlo, si ritrovò a canticchiare sbagliando tutte le
parole e gli
accenti alternando strofe americane in un quadro molto strano a
sentirsi.
Fu
in quel momento – nel quale lei era nel retrobottega e di
spalle,
la voce e la musica a coprire lo scampanellio della porta –
che una
persona entrò.
Per
la precisione un gruppetto di quattro giovani, di cui due erano
ragazzi e due erano ragazze. Dopo un iniziale momento di confusione
dipinta sui volti si guardarono e sghignazzarono; tutti meno uno,
impegnato ad osservare la nuca di capelli bruni e il vestito rosso a
piccoli pois bianchi dalla gonna a campana che la copriva fino alle
ginocchia.
He
said, “Are you truly truly truly
Truly
truly truly truly truly mine”
Sorrise
spontaneamente, il giovanotto dai capelli biondi e gli occhi blu,
specie quando la commessa finalmente si girò in uno svolazzo
di
gonna; si impietrì non appena li scorse, il volto paonazzo e
gli
occhi sgranati, e si affrettò come una furia a spegnere la
radio di
legno.
«Sono
davvero, davvero mortificata» si scusò flebile,
torcendosi le mani
«non vi ho... non–» prese
fiato, assumendo una posa più
sicura «Posso esservi utile?»
Le
due ragazze – una bionda e una bruna, qual
novità! – ancora
preda di irrefrenabili quanto inopportuni risolini, non si diedero
nemmeno la pena di rispondere. Il compito toccò quindi al
ragazzo
vestito di una divisa militare.
«Buongiorno»
la salutò affabile mentre si toglieva il cappello,
tranquillizzandola appena. Ancora viva era la vergogna per la
figuraccia appena compiuta, e sperò vivamente non le
scoppiasse a
ridere in faccia, anche se non sarebbe stato un comportamento da
gentiluomo qual sembrava.
«Salve.»
«Le
signorine vorrebbero dare un'occhiata alle ultime stoffe arrivate.
Per loro solo il meglio, vero Steve?»
Solo
in quel momento la ragazza dall'abito rosso si accorse della sua
presenza, nascosto dietro agli altri quasi come volesse nascondersi
al resto del mondo. Lì per lì non ne
capì le motivazioni finché
non lo vide; troppo magro e troppo basso rispetto alla media, di
certo pensava di sfigurare accanto al suo amico. Non era affatto
difficile intuire quante ne avesse passate – e quante ne
stesse
passando in quel periodo – quel tipo mingherlino dai vestiti
ordinari. Eppure qualcosa la
colpì. Forse il sorriso cordiale appena accennato rasente la
timidezza, o gli occhi blu con una particolare luce che non avrebbe
saputo identificare, o tutti e due i fattori; fatto sta che le labbra
si tesero quasi per conto loro e formarono un bel sorriso, ricambiato
ampiamente dal ragazzo chiamato Steve.
«Se
volete seguirmi, sono da questa parte.»
Li
condusse in una stanza adiacente all'ingresso dove campeggiavano due
lunghi banconi di legno sopra i quali si trovavano le famigerate
stoffe; ve n'erano di tutti i tipi, dalle monocromatiche a quelle con
pois, fiori, quadri, plissettate o con le frange a ricordo dei
ruggenti anni '20. Le signorine si mostrarono soddisfatte e la
ringraziarono sentitamente, immergendosi in una fitta conversazione
su quale fosse la più adatta per un nuovo abito da ballo che
avrebbe, testuali parole, fatto morire d'invidia
tutte
quante!
La
giovane snocciolò una vasta quantità di
informazioni sulla moda del
momento, componendo con maestria abbinamenti raffinati e spumeggianti
adatti alle clienti; non per vantarsi, ma in questo poteva affermare
di avere buon occhio, ereditato dalla sua cara e amabile madre. Dopo
svariati minuti in cui persino il soldato espresse il proprio parere
– costretto, ovviamente – la commessa
notò che solo quest'ultimo
tentava di rendere partecipe l'amico, che rispondeva a monosillabi o
veniva sopraffatto dalla voce più alta delle ragazze.
All'ennesimo
afflosciarsi delle spalle magre decise di intervenire rivolgendoglisi
direttamente «Scommetto che lei sarebbe
più interessato a
delle cravatte.»
Non
le rispose immediatamente, forse convinto non stesse parlando con
lui, ma quando lo realizzò fece tanto d'occhi, spaesato per
quell'affermazione e quella frase insperata. Lei gli sorrise,
intenerita, e decise di continuare il discorso come niente fosse.
«Venga,
gliele mostro. Alcune sono molto belle.»
Non
lo aspettò e si avviò, certa che l'avrebbe
seguita pur di non
rimanere lì a far da tappezzeria. Il negozio non ne aveva
certo
bisogno. Solo il bancone a separarli, iniziò a tirare fuori
con
molta attenzione tutte le cravatte ritenute adeguate, anche se
dubitava potessero stargli bene. Steve non spiccicò una
parola
mentre lei le osservava con occhio critico e il labbro inferiore
tormentato dai denti; doveva essere eccessivamente timido e in
imbarazzo se non riusciva a parlarle o esprimersi in battute che, di
certo, il suo amico non si sarebbe lasciato sfuggire.
La
vita era sempre ingiusta con i bravi ragazzi, si ritrovò a
pensare.
Non avrebbe saputo dire né perché né
quando l'aveva intuito, ma
era piuttosto sicura di aver compreso l'umanità e
l'umiltà di quel
piccolo ragazzo. Forse era stata quella la scintilla percepita; e ora
che erano più vicini – gli si era avvicinata per
porgergli la
prima cravatta, di un colore simile ai suoi occhi – la
notò
ancora, insieme al sentimento che sfiorava una gratitudine
silenziosa.
«Grazie»
parlò infine, osservandola dal basso.
Non
si riferiva solo all'oggetto porto, ovviamente.
«Di
niente.»
«Allora...»
iniziò, distogliendo lo sguardo mentre un soffuso rossore
gli
imporporava le guance scavate «...
questa?»
Si
limitò ad annuire «Assolutamente. Ed è
inutile spiegarle il
motivo» terminò, appena divertita.
«Credo...
credo di averlo afferrato» si schiarì la voce
– a dispetto del
fisico non era stridula ma bassa – e se la poggiò
appena al petto,
sospirando sconsolato quando si accorse della lunghezza spropositata
rispetto al corpo gracile.
«Non
deve preoccuparsi» lo rassicurò con un mezzo
sorriso «si
può sempre rimediare» evitò di dirgli accorciare
per
non offendere i suoi sentimenti, anche se nutriva forti dubbi sul
fatto che glielo avessero già ricordato troppo spesso.
Steve
sospirò di nuovo e scosse la testa
«Così la si rovinerebbe.»
«Bé,
anche a me capita di dover modificare un pezzo di stoffa, non
è una
faccenda così fuori dal comune. Inoltre con lo scarto si
può sempre
creare qualcosina. Credo possa saltar fuori una pezza, in questo
caso.»
«O
un nastrino» sussurrò lui, rivolgendole uno
sguardo fugace che
intercettò comunque l'occhiata ed il sorriso compiaciuti.
«O
un nastrino» ripeté, colpita. Non erano molti gli
uomini che si
interessavano a queste cose di donne, o se ne intendevano.
La
ragazza mora scelse quel momento per interromperli, avvicinandosi col
taglio prescelto e sfoggiando un gran sorriso trionfale
«Credo
d'aver scelto la stoffa giusta! Ce ne sono talmente tante che non so
decidermi, sono tutte così belle. Ma questa è
molto particolare e
sono certa di non averla vista ancora indosso a nessuna delle mie
amiche. Chissà, magari dopo mi copieranno tutte! E quando
dirò dove
l'avrò acquistata ci sarà una bella fila qui
fuori.»
La
giovane cercò di non perdersi in quel fiume di parole e
maledisse
nel contempo la madre perché non era presente; col suo
carattere più
mite avrebbe saputo come risponderle senza sembrare una completa
villana o ingrata persona. Contò mentalmente fino a tre
prima di
sorriderle con tutta l'amabilità di cui era provvista.
«Ne
sono davvero lusingata, miss. Ma
dovete aspettare ancora qualche minuto, sto finendo di servire il
vostro amico.»
Una
doccia fredda avrebbe sortito un effetto minore. Sbatté le
palpebre
dei grandi occhi marroni e la fissò come fosse impazzita,
come se le
sue parole fossero state un oltraggio alla sua personcina
così
deliziosa. Aprì più volte la bocca e
scoccò un'occhiata
sconcertata da Steve a lei, terminando su Steve e infine, pestando
appena più del dovuto i tacchi sul pavimento raggiunse gli
altri
due, allibiti quanto lei.
«Perché
l'ha fatto?»
Alla
debole domanda riportò gli occhi nocciola sul ragazzo,
aggrottando
la fronte «E' il suo turno. Doveva scavalcarla?»
«No,
ma–»
«Allora
non vi è nessun problema.»
«La
smetta!»
Parve
arrabbiato, e lei non seppe davvero che gli stesse passando per la
testa. Eppure non le sembrava d'aver compiuto un'azione tanto
deplorevole.
«Non
deve mostrarmi simpatia. So che prova solo...
pietà.»
Pietà?
La
commessa strinse i pugni, la rabbia premeva per uscire «Oh,
mi creda, la pietà è
l'ultimo sentimento
che provo, al momento. Non capisco perché non si
è ribellato, né
ha detto qualcosa per difendersi. In tal modo la umilieranno senza
tregua e per l'eternità considerandola debole. E non lo
è.»
Il
ragazzo si irrigidì e fece saettare gli occhi dal pavimento
al viso
di lei cercando menzogna. Rimase colpito da quello sfogo
appassionato, da quello sfogo sincero. Credeva
in ogni parola detta e lo sfidava a contraddirla. Come poteva
spiegarle che, ormai, si era rassegnato ad essere una
nullità? Come
poteva, quella ragazza sconosciuta – la considerava carina
con quei
tratti che gli trasmettevano dolcezza e serenità,
benché
non avesse dei termini di paragone a cui affidarsi
–
come poteva, lei, comprenderlo
addirittura consigliandolo? Non aveva alcuna idea delle beffe che la
vita gli aveva riservato, degli ostacoli insormontabili che la sua
condizione fisica si divertiva a mettergli sulla strada,
dell'inadeguatezza che l'aveva accompagnato da sempre.
«Posso
capire a cosa sta pensando.»
«Davvero?»
mormorò, scettico.
«Crede
di non essere abbastanza, e desidererebbe fare qualcosa per cambiare
il suo futuro. Lo so bene perché, dopotutto, sono una
donna.»
Per
la prima volta Steve parve vederla davvero, e si sentì
gretto «Non
è felice?»
«Amo
aiutare le persone a trovare quello che stanno cercando; che sia un
pezzo di stoffa, o una cravatta» riuscì a
strappargli un sorriso
prima di continuare «o semplicemente qualcuno
disposto ad
ascoltare. E quando se ne vanno con un sorriso sulle labbra so di
aver compiuto una buona azione e mi sento più leggera. Forse
non era
quel che avevo sognato fin da bambina, ma non posso aspettarmi
diversamente. Non in questi tempi.»
«Cosa
avrebbe voluto?»
Ci
pensò un attimo, le gote andavano via via imporporandosi «Viaggiare.
Visitare tanti posti e cogliere l'anima degli abitanti.»
«E'
molto bello come pensiero» stette in silenzio, alzando le
spalle
quando indicò attorno a sé con l'indice «Chissà,
forse
finita la guerra coronerà il suo sogno.»
Un
sorriso rassegnato prese il posto del precedente e gli occhi si
velarono appena di tristezza «Chissà. Lei mi
prometta di non
abbattersi. Credo che ciascuno di noi sia destinato a qualcosa di
più
grande. Bisogna solo insistere finché non lo si
scoverà.»
«Idoneo!
Sono idoneo!»
Ogni
persona presente nell'accogliente negozio di stoffe smise la propria
attività per rivolgere uno sguardo al giovane dall'aspetto
gracile
appena entrato; egli si schiarì la voce, imbarazzato da
quell'improvvisa attenzione e si grattò la nuca mentre
qualcuno –
una voce maschile – borbottava un funereo «La
guerra ci
rovinerà tutti.»
Camminò
appena a disagio fino a quando non udì lo scambio di battute
tra
Anna e suo padre, finché la ragazza non assicurò
che si sarebbe
assentata per poco tempo e sì,
sì papà,
sarebbero rimasti a portata d'orecchio.
Solo
quando sedettero sui gradini del retrobottega, il venticello fresco
sui volti, Steve ne approfittò per porgerle il foglio col
timbro
apposto dal dottor Erskine. Lei lo soppesò un momento prima
di
aprirlo, timorosa di leggere quelle famigerate lettere che le
avrebbero sbattuto brutalmente in faccia la notizia – ancora
sconcertante – della partenza dell'amico. Perché
Steve lo era
diventato; volente o nolente, aveva permesso al ragazzo di Brooklyn
di prendere parte alla sua vita reclamando per sé un pezzo
del suo
cuore. Forse un pezzo più grande di quel che avrebbe voluto
concedergli.
Con
dita tremanti tracciò il contorno della I e della A, ma poi
richiuse
in fretta il foglio come se si fosse scottata e glielo rendette senza
mai guardarlo.
«Congratulazioni.
È quello che volevi, no?»
Steve
incassò la voce spenta e il groppo formatoglisi nello
stomaco con
uno stoicismo davvero militaresco; non si aspettava salti di gioia
–
quello no, per l'amor del Cielo!
– né sguardi sospettosi perché aveva
un'autentica richiesta
d'arruolamento possedendo un corpo inadatto, però pensava
che
l'amica avrebbe capito. Era suo desiderio rendersi utile per il Paese
e non sarebbe stato affatto felice in una fabbrica o in
qualità di
garzone, questo era certo.
«Anna»
iniziò, tentennando quando lei posò gli occhi
nocciola – con una
punta di terrore notò come fossero lucidi – sui
suoi «Sai
come la penso in merito, ne abbiamo già parlato.»
«Ne
abbiamo discusso.»
Il
quasi-soldato Rogers alzò le sopracciglia e annuì
greve ricordando
con un macigno sul cuore quel pomeriggio soleggiato in cui, per la
prima volta, si era trovato a dibattere con una donna. «E'...
è irrilevante» sentenziò, perdendo la
sicurezza nel giro di poche
parole «Sono stato davvero male.»
«Non
me ne parlare» si asciugò velocemente gli occhi e
gli prese le mani
tra le sue, una scintilla determinata nel corpo e nella voce
«Ho
ancora sufficienti e nuove argomentazioni, stavolta, per farti
cambiare idea.»
Le
restituì la stretta ma scosse la testa, fermo nelle
convinzioni che
lei doveva accogliere «Ci
sono
uomini che sacrificano le loro vite, io non ho alcun diritto di fare
meno di loro. È questo che non vuoi capire»
approfittò della presa
ora inesistente e fu lui, stavolta, a prenderle una mano; le
accarezzò il dorso coi pollici mentre l'altra – in
uno slancio di
coraggio sempre immaginato ma mai concretizzato – la
portò al
mento alzandole il viso cosicché potesse guardarlo.
«Non
si tratta di me» esalò infine, senza
fiato.
Per
un drastico momento pensò ad un attacco d'asma; quando si
rese conto
della vicinanza dei loro corpi e conseguentemente dei loro volti
allora realizzò la portata di quel momento e dell'azione
appena
compiuta. Ora si ritrarrà, pensò.
Nessuna ragazza era mai stata ad un soffio da lui, da tempo aveva
perfino rinunciato a pensarci; d'altra parte, ora sapeva due cose:
che se Anna si fosse scostata ne avrebbe sofferto in maniera
inimmaginabile. Che, se non l'avesse fatto, probabilmente sarebbe
stato preso dal panico perché non aveva alcuna
idea
di come procedere. O meglio, un'idea ce
l'aveva. Però come avrebbe reagito lei?
Analizzò
ogni sentimento che riusciva a trasparire dai tratti dolci ora tesi e
pensosi, ripensò a come era sempre stata un libro aperto;
era
tremendamente facile capire quali stati d'animo la pervadessero, e
non aveva impiegato molto a capire l'importanza rappresentata da
quella giovane commessa nella sua vita. Un raggio di sole in
un'esistenza grigia dove, a parte Bucky, non era rimasto nessun
altro.
Anna
sospirò, l'accettazione ormai evidente aveva scavalcato la
rabbia
per quell'assurdo conflitto «Dove ti hanno
assegnato?»
«Al
momento Camp Lehigh, poi si vedrà.»
Con
i battiti leggermente accelerati notò che no, non si era
ancora
spostata di un millimetro né separata dal suo tocco anzi,
portò le
dita della mano libera a sfiorare la sua. Rabbrividì
perché erano
fredde ma ciò non spense in nessun modo il lieve sorriso
nascente.
Lì fuori, con il vento che ogni tanto le scompigliava le
onde scure,
la luce che gli permetteva di notare le efelidi sugli zigomi e sul
naso, la considerava bella come non mai.
E
lui doveva partire proprio ora...
«Anna»
la chiamò, timoroso di spezzare quel silenzio carico di
frasi
sottintese «mi mancherai» disse solo,
sentendo le orecchie
improvvisamente molto calde.
Impegnato
a maledirsi e maledire la timidezza, si accorse che anche le guance
della ragazza erano diventare di un bel colore rosato.
«Anche
tu, Steve.»
Fu
veloce quanto un battito di ciglia. Un attimo prima gli era seduta
accanto, le spalle che si sfioravano; l'attimo dopo si era sporta e
gli aveva baciato la guancia indugiando forse più del tempo
prefissato. Lui era solo consapevole delle labbra morbide e calde
sulla pelle, nient'altro. Nient'altro contava in quel preciso,
desiderato momento, nemmeno il suo povero cuore impazzito.
Udì una
porta cigolare e la voce di mrs. Mallow arrivò anche troppo
distintamente a scoppiare la sua personale bolla di sapone.
«Annie
cara, abbiamo bisogno di te.»
L'Annie
in questione si staccò repentinamente e scattò in
piedi come una
molla – seguita a ruota da lui, lento di riflessi –
borbottando
qualche frase sconnessa in cui, certamente, rassicurava la madre sul
suo pronto arrivo. Rossa in viso, si torceva le dita ed
espirò solo
quando la porta si richiuse. Ancora non riusciva a guardarlo,
notò
Steve, amareggiato.
«Stai
attento, ti prego. Torna tutto intero» sussurrò
rivolta a lui anche
se fissava la porta.
«Farò
del mio meglio.»
Lo
guardò intensamente e infine alzò un angolo della
bocca rosea in
una specie di sorriso «Io ti aspetterò
qui.»
«Sarebbe
troppo...» respirò a fondo per darsi coraggio
mentre ormai aveva
detto addio al suo incontrollabile cuore «...sarebbe troppo
invitarti a ballare? Non adesso, ovviamente, ma una sera. Magari
quando sarò in licenza – se me la daranno. Presumo
di sì»
balbettò, pregando nel contempo che lei non gli scoppiasse a
ridere
in faccia.
Anna
finse di pensarci su – in realtà dentro
sé aveva già urlato la
sua risposta, ma una volta aveva sentito dire – o letto, non
ricordava bene – che gli uomini bisognava farli aspettare
lasciandoli un po' sulle spine. Durò pochissimo
perché si sentiva
una vera vipera, e regalò a Steve il più bel
sorriso del
repertorio.
«Sarebbe
meraviglioso» rispose, la voce traboccante d'emozione
«Come prima
volta potremmo ballare qui, magari? Vorrei evitare i locali
perché
non so ballare.»
A
Steve scappò involontariamente una risata perché,
per un momento,
aveva creduto si vergognasse di mostrarsi in pubblico con un
ragazzetto rachitico.
«Nessuno
ti ha mai invitata?»
«Non
passo molto tempo in quei posti» confidò,
profondamente a disagio
«Non ho molte persone con cui andarci e poi non... non mi
sembra
giusto.»
La
guardò torturarsi le dita, il pensiero condotto a quel
gemello che
la sua Anna aveva perso undici anni prima a causa di una malattia ai
polmoni. Più di una volta aveva tentato di convincerla che
non
commetteva un torto se una volta tanto si lasciava andare
abbandonando l'aria malinconica, e lei lo assecondava; poi
però le
ombre tornavano ad addensarsi e oscuravano le scintille di vita
nascoste nella profondità dei suoi occhi. Aveva giurato di
perseverare finché non fossero sparite del tutto. Con grande
rammarico avrebbe dovuto sciogliersi dall'impegno.
«Come
primissima volta anche per me direi di poter accettare le sue
condizioni, miss» scherzò,
accennando un lieve inchino col
capo tanto ingessato da farla ridacchiare «Le successive
affronteremo le nostre paure per buttarci nella mischia. È
d'accordo?»
Le
tese la mano destra, trepidante d'attesa. Quella era una promessa, e
con le promesse non si giocava a cuor leggero. Steve lo sapeva. Lo
sapeva Anna, che decise in quel preciso istante di essere stanca di
lasciare a fattori esterni le decisioni della sua vita; troppo a
lungo aveva mancato d'afferrare delle occasioni speciali, e ora che
le si presentavano nuovamente non ci avrebbe rinunciato.
Le
mani si strinsero con delicatezza a suggellare il patto in cui
entrambe le parti risultavano vincitrici e provate da molteplici
emozioni euforiche.
«Allora
a presto, per il nostro ballo.»
«A
presto» rispose Steve, seguendola con gli occhi
finché non lo
lasciò solo.
Dimenticò
di consegnarle il regalo d'addio avvolto in un pacchettino piccolo e
semplice, anche se ormai il coraggio di una spiegazione del contenuto
vacillava facendolo sentire inadeguato; nella sua testa quel bacio
innocente e l'accettazione che tanto gli avevano fatto traboccare il
cuore erano solo cortesie di una giovane rispettabile, nulla di
più.
Non poteva trattarsi di altro, si ripeteva, quindi era inutile
riempirsi la testa di congetture e sogni. Doveva tenere i piedi ben
ancorati al suolo, ora più di prima; l'esercito americano lo
attendeva, l'occasione offerta da Erskine poteva già
toccarla con
mano. Avrebbe dato il meglio di sé in quell'addestramento,
successivamente in guerra. E il pensiero del pomeriggio trascorso
l'avrebbe confortato nei momenti più bui.
Rientrò
in negozio con questo ultimo pensiero. Senza farsi vedere
lasciò il
pacchetto proprio sopra la copertina del volume di Piccole
Donne,
certo della
sua scoperta non
appena la proprietaria l'avesse scorto.
Con
un ultimo saluto ai gestori di Mallow's
–
la madre di Anna lo abbracciò e il padre gli tese
addirittura la
mano – Steven Grant Rogers uscì verso il suo
destino.
La
musica quasi la infastidiva, ma in quel momento avrebbe odiato il
silenzio perché solo così, allora, i pensieri non
le avrebbero dato
tregua. Girò la manopola e il volume si alzò
considerevolmente
riempiendo il negozio ormai vuoto; nessun cliente sarebbe giunto a
quell'ora, i suoi genitori erano tornati di sopra, nell'appartamento
in cui abitavano. Lei, d'altra parte, si era presa alcuni minuti per
sé e, nel frattempo, aveva deciso di confezionarsi una nuova
gonna.
Prese il lungo metro a nastro giallo avvolgendoselo attorno al punto
vita, lesse il numero e lo annotò su un blocco appoggiato
lì
accanto, passando infine ai fianchi. Decise di non usufruire di altre
misure – sarebbe stata a campana, il suo modello preferito
– e
ripose il nastro al suo posto proprio mentre qualcuno bussava alla
porta. Alzò gli occhi al cielo, esasperata, tentando di
ricordare se
avesse girato il cartello sulla scritta Chiuso.
Doveva
essere uno molto insistente, pensò all'ennesimo tocco sul
vetro;
rapida andò verso la porta, afferrò la maniglia e
allora, solo
allora, guardò fuori bloccandosi al pari di una statua di
marmo.
Non
può essere.
Un
ragazzo alto – molto alto – e muscoloso dai capelli
biondi
pettinati di lato la scrutava rivolgendole un sorriso impossibile da
dimenticare. Come impossibile era scordare quegli occhi blu, sinceri
e limpidi.
Non
può essere.
Non
ruppe il contatto visivo mentre girava la chiave e si tirava indietro
trascinando con sé la porta, che permise al giovanotto di
Brooklyn
di mostrarlesi in tutta la sua nuova, incredibile altezza.
Non
avrebbe saputo trovare una scala di parametri, ma in quel preciso
istante era profondamente scioccata.
«Steve?»
Che
domanda stupida!
si rimproverò,
eppure lui parve non badarci; anzi, se possibile il sorriso si
ampliò
assumendo una sfumatura di dolcezza in contrasto con gli occhi,
dietro cui si celavano stanchezza e tanta, tanta pena. Il cuore dolse
nel petto mentre lo appurava, mentre ancora faticava a credere che
quel ragazzo fosse la stessa persona di una settimana prima.
E
lei lo immaginava ad arrancare e morire di stenti in un campo
militare.
«Ciao»
la salutò, guardandola finalmente dall'alto.
«Ciao.»
Oh,
avrebbe voluto porgli così tante domande, ma dove iniziare?
Era
talmente confusa!
«Posso
rubarti cinque minuti? Oggi è stata proprio una
giornataccia.»
Unicamente
in grado di annuire, lo condusse verso due sgabelli liberi.
Le
raccontò tutto: dall'ennesima visita medica fasulla alla
Fiera del
Futuro dove aveva incontrato il dottor Erskine – ebreo
tedesco di
nascita trapiantato nel Queens – che gli aveva offerto
un'occasione
unica e al contempo speciale; alle giornate passate al campo tra
compagni spacconi desiderosi di burlarsi del rachitico
di
quaranta chili, passando
per la
tenacia e la volontà con cui aveva perseverato
nell'addestramento,
finendo con la scelta del colonnello Phillips di assegnarlo al
Progetto del Supersoldato. Accennò vagamente al dolore
patito per
non turbarla ulteriormente – il viso era ancora una maschera
di
sconcerto e ansia – ma capì subito che lei, come
al solito, aveva
compreso la verità taciuta. Aspettò qualche
secondo dopo averle
rivelato della morte del dottore per mano di una spia nazista, e
raccontò con un poco di vergogna di come il desiderio di uccidere
l'assassino
l'avesse
colmato per poi scemare rapido com'era venuto. Anna a quel punto
aveva posato una mano sulla sua destra, stringendola piano in
sostegno. Lui l'aveva ringraziata ed aveva proseguito esponendole i
dubbi che lo attanagliavano, specie quelli riguardanti il suo nuovo
corpo: la forza e la velocità, in primis, erano difficili da
controllare al momento. Quando rivelò che, d'ora in poi
– se
l'effetto fosse stato permanente – le sue cellule si
sarebbero
auto-rigenerate permettendogli di guarire velocemente da qualsiasi
ferita o contusione, la vide trattenere il fiato e aggrottare le
sopracciglia, preoccupata; al che la rassicurò promettendole
di non
compiere colpi di testa.
«Ed
ora, in qualità di eroe americano»
disse, parecchio abbattuto per essere stato messo da parte «dovrò
esibirmi in un'inutile pantomima perché la gente compri dei
titoli
per la difesa.»
«Esibirti?»
«Esibirmi,
già.»
«Intendi
dire su un palcoscenico e con indosso un costume?»
domandò curiosa.
Quella situazione era sempre più surreale.
«Immagino
di sì. È l'unica cosa che vuoi
chiedermi?» credeva l'avrebbe
sommerso di domande su qualcosa di poco chiaro, invece era rimasta in
silenzio durante tutto il racconto esprimendo con gli occhi tutta la
sua partecipazione.
Ne
era grato, e realizzò pienamente quanto le fosse mancata.
«Cosa
vuoi sentirti dire, Steve? Che da una parte sono profondamente
dispiaciuta per il tuo nuovo ruolo e che dall'altra invece sono
contenta perché i nazisti non ti useranno come tiro al
bersaglio
vista la tua nuova invincibilità?»
Un
silenzio pesante seguì entrambe le domande. Anna non sapeva
da dove
né perché le fosse uscito un tale sbotto; sapeva
solo d'essere
combattuta e che doveva accettare il fatto che ora Steve risiedeva in
quel corpo nuovo. Non avrebbe saputo spiegare diversamente i suoi
sentimenti – mai cambiati, peraltro. Era innegabile che
l'amico
fosse qualcosa di più importante –
Come
un fulmine a ciel sereno si accorse delle loro mani precedentemente
sovrapposte ora intrecciate ed il cuore sembrò fare una
capriola per
finirle dritto dritto in gola; sembrò trovare molto
più
interessante la camicia khaki dell'esercito mentre l'imbarazzo
raggiungeva picchi mai registrati.
«Scusami»
mormorò, alzando appena gli occhi «Non
sono nessuno per
giudicare. È che... bé, mi è un po'
difficile vederti così quando
fino a una settimana fa eri Steve il magrolino.»
Risero
entrambi riuscendo a sciogliere una bella fetta di tensione;
accennò
un piccolo movimento per sciogliere il contatto con la sua mano
più
grande ma inaspettatamente lui sembrò percepirlo
perché la strinse
appena per non lasciarla fuggire.
«Tu
non sei nessuno, Anna. Non
per me.»
Entrambi
arrossirono un po' eppure non distolsero gli occhi l'uno dall'altra;
era bello potersi guardare di nuovo, perdersi e assaporare ogni
minima sfumatura dei loro segreti ormai non più celati. Ed
era
meraviglioso potersi accarezzare con lo sguardo e, perché
no, con i
polpastrelli tremanti d'emozione.
Steve
era caldo, ora, le guance piene e appena ispide dove la barba
iniziava a crescere. I capelli erano morbidi come li aveva
immaginati, e sottili; avrebbe voluto accarezzarli per
l'eternità,
sorridere di rimando e commuoversi per la dedizione con cui la
sfiorava, timoroso di mancarle di rispetto. Seppe con assoluta
certezza di essere la detentrice del suo cuore quando Steve
portò la
sua mano destra – più piccola e delicata, dalle
unghie rosse –
alle labbra e ne baciò il dorso con devozione.
I
capelli mossi di Anna erano davvero soffici come immaginava, e
profumavano. Lei profumava.
In quel frangente si ritrovò a sperare di poter rimanere
così per
sempre, in quel negozio di stoffe tanto amato con la ragazza
più
importante della sua vita. La conosceva da poco, vero, eppure sentiva
chiaramente un profondo legame legarli – perché no
– con un
nastrino colorato. Si ritrovò a sorridere come un ebete e
lei, se
possibile, divenne ancor più radiosa forse intuendo il suo
pensiero.
Il supersoldato si rese conto all'ultimo della vicinanza al volto di
Anna a causa dell'improvvisa serietà che l'aveva travolta;
in
attesa, era sospesa in un momento diluito all'infinito, con le labbra
rosee leggermente dischiuse.
Si
sporse appena e le sfiorò in un contatto leggero,
impalpabile quanto
un fiocco di neve sulla pelle; il rimbombo dei battiti del cuore
nelle orecchie e un leggero ronzio furono lo sfondo del loro primo
bacio, e a seguire del secondo vero primo bacio: un contatto
più
prolungato in cui ogni cuore rischiò di implodere tanto era
impazzito.
Non
seppero quanto durò, consci solo dell'enorme fatica di
staccarsi e
stare lontano da quelle tentazioni quali erano divenute le loro
bocche calde.
«Te
ne dovevo uno» confidò semplicemente il ragazzo,
dandole un
buffetto sul naso.
«Siamo
pari, dunque.»
«Mah,
non ne sono molto sicuro.»
Anna
si esibì in un'espressione stupita talmente comica da
innescargli
una risata «Steven Rogers, non essere così
sfacciato! Dove sono
finite le buone maniere?»
«Chiedo
umilmente perdono, miss»
alzò le mani in segno di resa e lei annuì
soddisfatta, un sorriso
compiaciuto a fare capolino.
«Molto
meglio, soldato.»
Passò
qualche istante di silenzio – e altre carezze –
prima che Steve
si decidesse a dire quel che più gli premeva «Hai
indosso il mio
nastrino.»
Lo
sfiorò portando una mano alla nuca della giovane, dove
spiccava tra
la chioma scura a raccogliere i capelli; anche lei lo toccò
e annuì,
guardandolo seria in volto.
«Mi
è dispiaciuto non averlo ricevuto direttamente da te, ma
l'ho
apprezzato moltissimo. Avevi già in mente di regalarmelo
quando mi
chiedesti cosa farne della restante stoffa della cravatta?»
«Non
saprei» ammise, stringendosi nelle spalle «Forse
sì, nel mio
inconscio. Sapevo solo di dovertelo donare prima di partire
perché
non sapevo se sarei mai ritornato.»
Negli
occhi nocciola passò un guizzo di tristezza «Gli
eventi sono andati
diversamente, per fortuna. Sai se tornerai in prima linea?»
Steve
capì immediatamente la paura covata dalla sua commessa
preferita;
per quanto volesse rassicurarla, sapeva d'altro canto di non doverle
mentire «Non so se mi richiameranno. Lo desidererei, questo
sì,
perché vorrei servire la mia Patria. È sempre
stato il mio sogno
più grande, anche se il colonnello voleva spedirmi in un
laboratorio. Ora...» lasciò volutamente la frase
in sospeso,
prendendosi tutto il tempo necessario per accarezzarle la guancia
sinistra fino al mento «Ora avrei
un valido motivo per rimanere, se non ci fosse la minaccia nazista
sopra la nostra testa. Se ne avrò l'opportunità
la combatterò con
ogni mezzo possibile per permetterti un futuro felice di
pace.»
Non
sarebbe mai cambiato, pensò con un sorriso amaro. Dopotutto,
non era
per questa ragione che lo amava?
«Sì.
Ed io sarò qui ad aspettarti.»
Non
ci fu bisogno di altre parole.
“Chiedere
a qualcuno di ballare era sempre tremendo,
e
negli ultimi anni mi sembrava poco importante. Era meglio
aspettare.”
“Aspettare
cosa?”
“La
compagna giusta.”
L'ha
trovata, infine. È stato estremamente facile, anche se
avrebbe
voluto che il tempo si fermasse mentre camminava alla sua ricerca. Il
verde dell'erba e l'azzurro del cielo sono talmente brillanti da
nausearlo. Perché non vi è grigiore, a specchiare
la sua anima
lacerata? Stringe tra le mani il mazzo di girasoli e iris – i
suoi
fiori preferiti – ma si ferma appena in tempo per non
sbriciolare
gli steli. Compie profondi respiri e chiude gli occhi, incapace di
sostenere la vista dei caratteri semplici presenti sulla lastra di
marmo.
Sulla
sua lapide.
E
la foto – oh, quella fotografia!
– la
ricorda chiaramente come fosse stata scattata ieri perché ne
è
stato l'artefice.
Era
una piacevole giornata autunnale, lei indossava la gonna nuova, ed
era blu.
Un
nodo si forma in gola, talmente difficile da mandar giù da
costringerlo a chiudere ancora gli occhi; ma quando li serra vede
solo bianco, neve, percepisce il ghiaccio e il gelo infilarsi al di
sotto dell'uniforme e pungerlo come gli aghi con i quali lei
lavorava.
Respira,
respira, respira, respira. Così, ecco. Va meglio.
Mente.
Tutto pur di non concedersi il lusso di impazzire di un dolore acuto
tale da sopraffarlo. Tutto è cambiato da quando si
è risvegliato,
ed avrebbe preferito morire piuttosto che vivere questo
tempo senza i
compagni degli
Howling Commandos; senza Bucky, il migliore amico di una vita allora
troppo breve e ora troppo lunga; senza Anna, la ragazza che aveva
stroncato la sua promessa di attenderlo quando la tubercolosi aveva a
sua volta deciso di stroncarle la vita.
Dio,
perché anche lei? Era così giovane, nel fiore dei
suoi ventidue
anni.
Era
morta circondata dai suoi cari. Senza di lui, impegnato a mettere i
bastoni tra le ruote a Schmidt e all'HYDRA in un posto sperduto
circondato da neve soffice e pura.
Sola.
Era sola, magari ti aspettava, ci sperava!
Si
passa una mano sulla fronte sudata e la chiude a pugno serrando le
mascelle; spera che questo tipo di dolore superi quello dell'anima.
Ma lui è Captain America, il Supersoldato nato da un siero,
non
prova niente quando i denti si serrano con forza uno sull'altro.
Ricorda
che è volato a lei il suo ultimo pensiero poco prima di
schiantarsi
tra i ghiacci dell'Artico. Ha ricordato il loro primo incontro,
perfino la melodia della canzone italiana che tanto l'aveva colpito
quando era entrato in quel negozio che profumava di lei.
Perfino ora, a
distanza di
settant'anni, lo percepisce come fosse lì vicina, col corpo
caldo
dalle dita perennemente fredde. Lo sguardo si posa sulla foto tonda e
scolorita ancora dai dolci tratti visibili. E' sorridente, lui
proprio non riesce ad imitarla com'era solito fare. Il sorriso di
Anna era contagioso: bastava una piccola azione – come
portarle un
mazzetto di fiori, offrirle il braccio come un vero gentiluomo,
leggere mentre lei terminava l'inventario oppure finiva di cucirsi
qualche abito – ed ecco spuntare il sorriso di cui non si
sarebbe
mai stancato.
Come
rideva spensierata durante quel ballo impacciato.
Avevano
ballato, sì. Subito dopo il bacio e le parole scambiate, e
lui aveva
temuto di fare una figuraccia tremenda se le avesse calpestato i
piedi per sbaglio. Non era successo. Erano stati perfetti, lei lo
era. Gli aveva poggiato timidamente la mano sinistra sulla spalla,
aveva sussultato appena quando lui aveva posato la destra sul fianco
morbido; si erano guardati negli occhi tutto il tempo mentre si
muovevano piano seguendo una melodia immaginaria, creata solo per
loro e per questo bellissima. E se inizialmente erano impalati come
stoccafissi poi si erano rilassati tanto che Anna aveva poggiato la
testa sul suo petto, cullata dal battito possente del cuore.
L'avresti
voluta baciare ripetutamente. Avresti danzato con lei giorno e notte
solo per sentirla fra le tue braccia e saperla contenta.
Fa
così male ricordare. Basta.
Fosse
ancora viva forse avrebbe potuto rivederla, sopportando la
consapevolezza della presenza di un marito, di due o più
figli e di
una nidiata di nipoti, ma almeno... almeno l'avrebbe rivista prima di
lasciarla andare.
Hai
sprecato le tue occasioni, lei non tornerà, tu non tornerai
indietro
a prenderti il vostro tempo. Lei è morta, morta, morta.
Morta.
Non...
no.
Piange,
il soldato. Piange, Steve, non riesce a frenarsi. L'erba del cimitero
di Brooklyn è inaspettatamente soffice a contatto con le
ginocchia,
testimone silenziosa dell'esternazione del dolore provato dal
Capitano insieme alla moltitudine di lapidi. E mentre le lacrime si
fanno strada sulla pelle di quel viso senza tempo tanto amato dalla
giovane Anna Mallow, le dice addio. Si scusa dell'imperdonabile
ritardo, si scusa per aver dormito e per non essere morto
perché
così, forse, sarebbero potuti rimanere insieme fino alla
fine. Si
scusa perché, ora, deve lasciarsela alle spalle in un gesto
egoistico che nessuno mai gli avrebbe attribuito; ma deve
farlo, o
impazzirà sul serio.
Spera possa capirlo, ne è sicuro poiché
Anna l'ha sempre capito molto più di quanto lui l'abbia
capita. E si
dispera, si scusa ancora, ancora e ancora in una nenia infinita e
straziante fino a che il sole non cala su quella città ora
irriconoscibile e sui suoi abitanti freddi e distanti dalle cose
davvero importanti.
Le
confida d'essere corso subito a Brooklyn non appena Nick Fury gliene
ha dato l'occasione – ovvero dopo aver accertato la
condizione
stabile del corpo e della sanità mentale, anche se ora non
è certo
di possederla – per cercare Mallow's, unico
punto fermo della sua incasinata nuova vita. Mallow's
non
esiste più. Ha lasciato spazio ad un ristorante con
camerieri
impettiti e impersonali nelle loro linde divise.
Non
esiste più, amore mio. Come tutti noi.
Sistema
meglio i fiori sulla tomba spoglia e si asciuga gli occhi mentre
allunga una carezza al volto amato. Può quasi sentirla
mentre gli
ripete le battute della loro ultima conversazione, ignara di
ciò che
il futuro aveva in serbo.
«Fai
attenzione.»
Lui
l'attira a sé prendendola per i fianchi, le stampa un bacio
sulla
fronte pensando si preoccupi troppo perché, andiamo!,
d'altronde
parte in tournée verso Azzano.
«Starò
in guardia e picchierò per bene Hitler. Tu mi aspetterai,
vero?»
Anna
sorride amorevole «Sempre.»
Le
dita sfiorano appena il nastrino color malva con cui ha adornato i
fiori, si chiede se quello azzurro regalatole sia nella semplice bara
di legno. Lo spera, perché in tal modo un pezzetto di lui
sarà
sempre lì a proteggerla – lui ha fallito, ha
fallito miseramente e
ne proverà rimorso finché vivrà.
«Addio.»
CANTUCCINO
DELL'AUTRICE
Salve!
Chiedo scusa a Peggy Carter – personaggio adorato alla follia
dopo
la visione di Agent Carter – ma
sentivo il bisogno di scrivere una Steve/Nuovo Personaggio che
interagisse con lui anche prima di diventare quel gran pezzo di
fi...gliolo di Capitan America. Ho giocato un po' con gli eventi del
primo film perché, come avrete capito, le due ragazze
portate al
negozio sono le stesse presenti nella pellicola; diciamo che qui,
invece di averle incontrate la famigerata sera, le avevano
già
conosciute. Passatemi questa licenza così come le
ripetizioni volute
nell'ultimo paragrafo, volte a far capire lo stato d'animo del povero
Steve che scopre, dopo settant'anni, la morte della persona amata. Se
ve lo state chiedendo, no, non l'aveva saputo prima; i genitori di
lei avevano pronta una lettera da consegnargli, ma non sapevano in
quale luogo spedirla perché non sapevano dove si trovasse e,
come
sappiamo, lui non è più tornato indietro.
Ero
piuttosto insicura – e lo sono ancora –
perché per me è
alquanto difficile scrivere di lui; non so bene il motivo eppure
è
così. Spero di non aver combinato pasticci e spero di avervi
trasmesso qualcosa con questa one-shot: se non c'è una buona
dose di
angst non sono contenta ^^, ma era praticamente inevitabile.
Grazie
a tutti per aver letto, spero vorrete lasciarmi un vostro parere.
Buona
giornata,
Eruanne.
P.S.
Non me ne vogliano i fan di Harry Potter *alza
la mano*
se
ho utilizzato la celeberrima “Sempre”.
P.P.S.
La canzone italiana appartiene al Trio Lescano, gruppo vocale
femminile composto da tre sorelle ungaro-olandesi residenti in Italia
e attive principalmente durante gli anni 1937-1941, i cui virtuosismi
vocali, armonizzazioni swing e jazz divennero ben presto famosi . La
canzone in questione è la celebre
“Tulipan” del 1939 e cover
della canzone americana (come scritto). Se vi va ascoltatela (come
altre canzoni), a me mette molta allegria!
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