S e a s o n s

di SunliteGirl
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S e a s o n s


 
 
 
Autunno
 
 
Jack si annoiava in modo terribile a scuola. Per un ragazzo iperattivo come lui era difficile starsene seduto per ore e ore ad ascoltare una lezione che non gli interessava minimamente, così finiva sempre per perdersi con lo sguardo oltre i vetri della finestra. Con le gambe che dondolavano avanti e in dietro senza sosta, dando talvolta dei deboli calci contro la sedia, fissava le foglie colorate d’arancio e di marrone sparse sull’erba del cortile e il cielo costantemente ricoperto di una patina opaca. Avrebbe preferito starsene là fuori, piuttosto che fare matematica.
«Frost!». Jack saltò sulla sedia e subito incontrò lo sguardo accigliato della signorina Jones, in piedi accanto alla lavagna. «Può dirmi il risultato dell’equazione?».
Il ragazzo fissò i numeri segnati con il gesso bianco, troppo agitato per capirne qualcosa.
«Non ne ho voglia». Lo disse con l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Dei risolini e alcuni sussurri si sparsero per la stanza, mentre la bocca della professoressa si storceva in un’espressione irritata.
«Ha intenzione di prendere una F anche nel prossimo compito, Frost?».
I professori sono tutti uguali, pensò Jack. Tutti convinti che la loro materia sia qualcosa di speciale e che tutti noi dovremmo semplicemente amarla, considerarla la cosa più importante dell’Universo.
«Sinceramente, non è che mi interessi un granché. La sua materia è noiosa». Sì, alla fine l’aveva detto. E la signorina Jones non sembrava molto felice. Le sue guance scarne avvamparono, raggiungendo una sfumatura quasi violacea. Le labbra secche e sottili si aprirono, probabilmente per urlare le parole “Dal Preside, Frost!”, ma proprio in quel momento una mano pallida si alzò l’ultimo banco a sinistra nella prima fila.
«Il risultato è -2». La voce pacata e melodiosa di Elsa Vinter sembrò quasi avere un effetto calmante sulla professoressa, che subito rilassò le spalle e addolcì l’espressione del viso.
«Esatto, come sempre». Lo guardò come se volesse incenerirlo e poi, tornando a Elsa, aggiunse con un sorriso «Sembra che qualcuno qui farà strada nella vita, al contrario di qualcun altro».
Quando tornò a concentrarsi alla lavagna, Jack fece il verso alla signorina Jones e continuò con maggiore convinzione alla sua precedente occupazione: fare di tutto per non ascoltare la lezione di matematica. Ma invece di fissare il suo sguardo fuori dalla finestra, questa volta lo posò sulla figura di Elsa Vinter.
Se ne stava rigida e attenta, immobile come una statua di ghiaccio. Non riusciva a vederla in viso, ma immaginò il suo sguardo impenetrabile fissato sulla lavagna, un ciuffetto biondo sfuggito allo chignon austero che le ricadeva sulla fronte. Con la mano lo ricacciò dietro l’orecchio, poi prese a ricopiare il nuovo esercizio alla lavagna.
Jack si portò la matita alla bocca e cominciò a mordicchiarne la punta.
Lui ed Elsa non erano certo amici. In cinque anni di liceo aveva provato a rivolgerle la parola una sola volta. Erano in fila per il riscaldamento, durante l’ora di educazione fisica, e Jack aveva fatto una battuta riguardo i calzoncini gialli del professore. Elsa si era limitata a sorridere con un certo imbarazzo e a osservarlo con diffidenza. Jack si era sentito intimorito, così aveva lasciato cadere il silenzio tra di loro. 
Elsa parlava raramente. Forse era per questo che era sempre sola.
Jack invece parlava spesso, anche se raramente apriva bocca per dire qualcosa di serio, eppure tutti lo ignoravano comunque.
Assorto nei suoi pensieri, non si accorse che la campanella era suonata. Elsa richiuse libri e astuccio e si alzò dal suo posto; doveva aver intercettato lo sguardo insistente del ragazzo, perché proprio in quel momento si voltò verso di lui. Le sopracciglia sottili di lei si aggrottarono e le guance si colorarono di un rosso pallido. Jack distolse lo sguardo, raccolse le sue cose in fretta e, prima ancora di accorgersi della sua agitazione improvvisa, era già uscito dalla classe.
 
* * *

Jack se stava in piedi vicino al lampione. La strada a quell’ora era deserta e il sole stava per scomparire sotto all’orizzonte, lasciando dietro di sé un cielo rosato e le prime stelle della sera.
Il ragazzo cominciò a far ondeggiare un po’ la mazza da baseball che teneva in mano, per far passare il tempo, e lasciò cadere sull’asfalto la borsa che si era portato dietro per l’allenamento.
Il martedì e il venerdì, prima di tornare a casa, si fermava sempre accanto al lampione e aspettava. Era questione di minuti prima che iniziasse.
Puntuale come sempre la musica del violino proveniente dalla casa di fronte cominciò a diffondersi nell’aria, arrivando alle orecchie impazienti di Jack. Il ragazzo chiuse gli occhi e appoggiò la testa al freddo ferro, lasciandosi trascinare dalla melodia sconosciuta e malinconica. Con la mano destra aggrappata al lampione e un sorriso sulle labbra, immaginò una mano candida e affusolata accarezzare con l’archetto le corde del violino, le palpebre abbassate del violinista in segno di abbandono e concentrazione.
Quella musica sembrava quasi provenire da un altro mondo. Avvolgeva Jack e lo teneva al caldo, trasportandolo verso l’alto e poi lasciandolo cadere. In quei momenti si sentiva meno solo, quasi la sua anima e quella del violinista comunicassero attraverso le note prodotte dalle corde tese dello strumento.
Rimase in ascolto e immobile fino a quando la musica non si spense nel vento, poi riaprì gli occhi.
La luna era apparsa alta nel cielo e sembrava osservarlo con tristezza e comprensione. Jack posò lo sguardo sulle ante aperte della finestra del primo piano, cercando di guardare attraverso le tende azzurre e scorgere il volto del violinista misterioso e verso cui, senza sapere perché, si sentiva così trascinato.
Passarono veloci i secondi e Jack sospirò, per poi chinarsi a raccogliere la borsa da terra.
Il silenzio fu interrotto all’improvviso da una voce squillante. Jack sollevò lo sguardo verso la casa del violinista, appena in tempo per scorgere il viso di una ragazza dalle lunghe trecce biondo ramato sporgersi dalla finestra, inspirare con un sorriso l’aria della sera e poi chiudere le imposte bianche con un colpo deciso, che fece tremare un poco i vetri.
Jack rimase a fissare la finestra con il respiro strozzato e le guance un po’ troppo calde.
La violinista era una ragazza bellissima, dal sorriso solare, i capelli con riflessi del fuoco e gli occhi caldi.
Era sicuro di averla incrociata a scuola un paio di volte, ma non ci aveva mai fatto molto caso. Una sola volta l’aveva osservata con interesse, perché l’aveva scorta a mensa mentre se ne stava a braccetto con Elsa Vinter. Sembravano entrambe prese da una fitta conversazione. Elsa sorrideva raggiante e le brillavano gli occhi mentre parlava con quella ragazza, una cosa talmente insolita da aver lasciato Jack incuriosito e vagamente confuso.
I suoi pensieri furono interrotti da un rumore improvviso. Dalla tasca dei pantaloni cominciarono a uscire le note di Every Teardrop is a Waterfall dei Coldplay e il suo cellulare prese a vibrare insistentemente.
Sullo schermo Jack lesse il numero di sua sorella e, vista l’ora, si rese conto di essere nei guai. Si diresse verso casa correndo come un pazzo.  

 

 


 
Inverno
 
Per la prima volta in tutta la sua vita, Jack Frost era arrivato a scuola in anticipo.
L’aula dove si teneva il corso di Letteratura Inglese era ancora vuota, se non per una figura silenziosa che se ne stava seduta in prima fila, accanto alla finestra. I capelli biondi raccolti in uno chignon ordinato e una giacca di lana blu scuro abbottonata fino al collo, Elsa Vinter leggeva con aria assorta un libro che teneva aperto sopra il banco.
Jack si tolse una cuffietta dall’orecchio e si schiarì la gola. Elsa sbatté le palpebre, sorpresa, e si voltò verso di lui con le sopracciglia aggrottate. Lui la salutò, impalato sulla porta, e lei ricambiò con un sorriso timido, per poi tornare a concentrarsi sul suo libro.
Jack si dondolò un po’ sul posto, indeciso sul da farsi. Si avviò verso il suo solito posto, quello in ultima fila e vicino alla finestra, appoggiò lo zaino a tracolla a terra, si sedette, si alzò, si sedette di nuovo e poi si rialzò.
Mentre si avvicinava a Elsa si passò le mani sui jeans, sentendole improvvisamente sudate.
Si sedette vicino a lei, con i gomiti sul banco, e la ragazza si irrigidì appena.
«Cosa leggi?» le chiese, sporgendosi per osservare meglio le pagine.
«È un libro di Agatha Christie». Gli mostrò la copertina rossa, su cui stava scritto The little Niggers. «Lo conosci?».
Jack sorrise imbarazzato, appoggiando il mento al pugno chiuso. «Non sono uno che legge molto».
«Oh». Elsa per un attimo sembrò delusa e Jack sentì una sensazione strana nel vedere quell’espressione triste nei suoi occhi chiari.
«Di che cosa parla?».
Il volto di Elsa Vinter sembrò illuminarsi a quella domanda.
«È un po’ complicato da spiegare… Ci sono dieci persone bloccate su una casa in un’isola. Tutti hanno commesso un omicidio nella loro vita e qualcuno, probabilmente l’uomo che li ha attirati lì con l’inganno, comincia a ucciderli, uno alla volta, ispirandosi a una filastrocca per bambini».
«È un po’… inquietante».
Elsa inclinò appena la testa e cominciò a ridere, piano. Un ciuffo di capelli ribelli le cadde sulla fronte, ma lei non sembrò farci molto caso.
«Sembri sorpreso».
«Diciamo che da te mi aspettavo qualcosa di diverso, più… Non saprei».
«Non dovresti mai giudicare un libro dalla copertina».
Senza che se ne accorgessero le loro spalle si erano avvicinate. Le labbra di Jack si aprirono in un sorriso ed Elsa sbatté di nuovo le palpebre, distogliendo lo sguardo e puntandolo di nuovo sul suo libro.
«Grazie per avermi salvato dalla Jones, l’altra volta».
«Non c’è di che».
«Quell’arpia mi odia».
«Forse perché non fai che dire che la sua materia è inutile e noiosa…?».
«Ma è quello che penso». Jack cominciò a dondolare la sedia, in bilico sulle due gambe posteriori, ed Elsa gli lanciò un’occhiata preoccupata. «La scuola è noiosa. Sarebbe più bello se, invece di studiare, potessimo semplicemente fare quello che ci va’».
Elsa strinse le labbra rosee, gli occhi fissi sul libro.
«Dovresti prendere le cose più seriamente, Frost».
«E tu dovresti imparare a divertirti un po’, signorina Vinter».
Le spalle di Elsa si irrigidirono e il suo volto si voltò lentamente verso quello di lui.
«Io sono capace di divertirmi».
Jack le rivolse un sorriso sarcastico. «Certo, come no».
Elsa spalancò le labbra come se volesse dire qualcosa, poi le richiuse. Le guance le si colorarono di rosso e uno sguardo determinato comparì improvvisamente nei suoi occhi.
«Ti assicuro che so divertirmi. E tanto, anche. Tu non mi conosci».
Quelle parole gli fecero male e non sapeva nemmeno perché. Si voltò verso la porta quando il primo gruppetto di studenti entrò in classe, lanciando verso di loro delle occhiate curiose. Si sentì infastidito da quell’intrusione.
«Allora dimostramelo. Oggi pomeriggio, dopo la scuola».
Elsa spalancò gli occhi, incredula e diffidente al tempo stesso. Ricacciò indietro il ciuffo che le era ricaduto sulla fronte e abbassò lo sguardo.
«Perché sei venuto a parlarmi? Non l’avevi mai fatto».
Jack non lo sapeva in realtà. Pensò subito alla sua violinista, ma non era sicuro fosse lei il motivo.
«Ci vediamo alle quattro davanti al cancello della scuola, signorina Vinter».
Non le lasciò il tempo di ribattere e tornò al suo banco. La lezione cominciò cinque minuti più tardi.
 
* * *

Finì di lavarsi le mani e poi si guardò allo specchio del bagno della scuola. Non aveva mai sentito il bisogno di farlo, prima, eppure in quel momento gli sembrò importante. Si pettinò un po’ il ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte, si sistemò il cappuccio della felpa blu che indossava e prese un profondo respiro, raddrizzando le spalle magre.
Lo zaino a tracolla gli colpiva ritmicamente la coscia mentre attraversava il corridoio e si avviava verso l’uscita. Alcuni compagni di corso lo salutarono, ma la maggior parte lo ignorò.
Il brutto di essere il pagliaccio della classe è che tutti ridono quando fai lo stupido, ma poi pochi ti cercano come amico.
Attraversò il cortile con passo veloce e quello che trovò al cancello gli provocò un tuffo al cuore. Elsa non era sola, ma c’era anche la violista con lei. Parlavano vicine, con aria spensierata. Quando mi avvicinai, la ragazza dai capelli biondo ramato tirò una gomitata a Elsa e mi mostrò un enorme sorriso. Elsa sembrò in imbarazzo.
«Ciao! Sei Jack Frost, giusto? L’amico di Elsa!». Gli strinse la mano con energia. «Io sono Anna… Mi ha parlato tanto di te! Dove andate di bello?».
Jack si sentì arrossire. I suoi occhi erano così verdi…
«Io… Io veramente non…».
Qualcosa alle spalle di Jack catturò l’attenzione di Anna, che esclamò «Oh, arriva Kristoff». Si girò verso Elsa e l’abbracciò, poi mi rivolse un ultimo sorriso. «Divertitevi! Ci vediamo dopo» disse, e poi cominciò a correre verso un ragazzone biondo, alto quasi il doppio di lei. Con un balzo gli saltò al collo e gli scoccò un bacio sulle labbra.
Jack distolse subito lo sguardo, sentendosi scosso. Avrebbe dovuto immaginarlo…
«Jack…?». Elsa gli sfiorò la spalla con la mano, lo sguardo curioso. 
«Scusa» le disse, sforzandosi di sorridere. «Andiamo».
 
* * *

Elsa stava ridendo forte. La sua risata non era fastidiosa, di quelle troppo acute e a singhiozzo; era cristallina, spontanea, contagiosa. Jack si ritrovò a sorridere nel guardarla.
Dei ciuffi di capelli erano sfuggiti allo chignon e se ne stavano sparati in aria, le sue guance erano rosse per la fatica e per il troppo ridere; la sciarpa azzurra se ne stava allentata sul suo collo e si alzava sospinta dal vento. Non l’aveva mai vista così libera.
«Non distrarti, Frost!» esclamò e gli diede una leggera spinta al braccio. Lui tornò a guardare davanti a sé e accelerò. Arrivarono insieme alla fine della pista, sostenendosi alla balaustra con le mani e ansimando per la corsa. Delle nuvolette di fiato si condensarono nell’aria di fine novembre.
«Ti avevo sottovalutata» riuscì a dire Jack dopo qualche attimo, e lei annuì con un sorriso orgoglioso.
Elsa raddrizzò la schiena e si spinse indietro, rimanendo in equilibrio perfetto sui pattini bianchi. Gli fece cenno con la testa di andare e poi riprese a pattinare, canticchiando seguendo la musica che fuoriusciva dalle casse ai lati della pista.
Jack rimase immobile a guardarla per qualche attimo, la schiena contro la balaustra.
Durante il tragitto a piedi, appena usciti da scuola, erano entrambi in imbarazzo. Si erano scambiati qualche parola sulla scuola, ed Elsa non aveva smesso di guardarlo con quell’espressione a metà fra la curiosità e la diffidenza. In fondo non si conoscevano; Jack non sapeva perché le aveva chiesto di uscire, e probabilmente Elsa non sapeva perché aveva accettato.
Ma poi, una volta raggiunta la pista di pattinaggio e indossati i pattini, qualcosa era cambiato. I silenzi imbarazzati avevano lasciato posto alle risate, la diffidenza alla complicità. E Jack si ritrovò a pensare che il sorriso di Elsa fosse davvero bello.
«Vieni?». Era in piedi al centro della pista quasi vuota,  con le mani dietro la schiena e il viso inclinato.
Jack annuì e, dopo essersi ravvivato un po’ i capelli scuri, pattinò veloce verso di lei.
Forse era stato lo sguardo negli occhi grandi di Elsa, oppure il freddo pungente che cominciava a farsi sentire. Jack sapeva soltanto che la sua mano aveva stretto quella di Elsa e che lei si era irrigidita, tornando simile a una statua di ghiaccio.
Si guardarono entrambi allarmati. Per soffocare l’imbarazzo, Jack le prese anche l’altra mano e cercò di mostrarle un sorriso sicuro. «Giriamo!».
Lei sbatté le palpebre, come faceva sempre quando era nervosa, e gli angoli della bocca si alzarono in un sorriso timido.
Sorriso timido che si trasformò in risata mentre giravano e giravano, gli occhi strizzati e le mani strette per non cadere. Jack in quel folle istante si sentì felice.
«Sei pazzo».
 
 * * *

Dato che vivevano a qualche isolato di distanza, si separano a un incrocio. Si stava facendo tardi ed Elsa aveva un compito urgente da fare a casa.
Si salutarono e lei, tenendo lo sguardo basso, lo ringraziò educatamente per il bel pomeriggio che aveva passato in sua compagnia. Jack la guardò allontanarsi sul marciapiede, fermarsi dopo pochi passi e girarsi di nuovo verso di lui.
«Perché?» gli chiese. Lui si sistemò la tracolla sulla spalla.
«Non lo so. Forse volevo scoprire se eri davvero solo una secchiona seriosa come sembra».
«Lo sono?».
«Non si giudica il libro dalla copertina. Oggi l’ho capito».
Elsa aggrottò le sopracciglia. «Sei un ragazzo strano. Ma… Grazie».
A quelle parole gli diede le spalle e si allontanò a passi decisi, le mani aggrappate alle bretelle dello zainetto viola. Jack scosse la testa con un sorriso e si allontanò.
Era quasi arrivato al suo quartiere quando gli tornò alla mente la violinista.
Senza pensare imboccò una via laterale, tagliando per qualche isolato fino ad arrivare alla casa con la finestra dalle imposte bianche. La luce all’interno della stanza era spenta. Jack osservò l’orario e si rese conto che quella sera la violinista era in ritardo, forse a causa dell’uscita con il ragazzone biondo. Si appoggiò con la spalla al lampione e aspettò alcuni minuti. La luce si accese e, dopo pochi attimi, la musica del violino lo raggiunse, provocando in lui le sensazioni di sempre. La stessa vicinanza di anime. Lo stesso sentimento di solitudine. Gli stessi brividi sulla pelle.
Ma, questa volta, c’era una nota di tristezza nell’aria.  
 
 


Primavera
 
La bicicletta azzurra con il cestino in vimini bianco fu abbandonata a terra, accanto a quella blu elettrico e argento.
Jack si voltò un poco, ma gli servirono pochi secondi per riconoscere i passi leggeri che si avvicinavano a lui sempre di più. Chiuse di scatto il libro che stava leggendo e lo nascose dentro la tracolla accanto a lui, tornando a guardare la superficie calma del fiumiciattolo. Poco dopo Elsa si sedette accanto a lui, incrociando le gambe sopra il legno umido dell’attracco.
«Sapevo che ti avrei trovato qui, con quell’aria malinconica da uomo vissuto».
«Buongiorno anche a te, Elsa». Si spinse contro di lui con delicatezza, dandogli un colpetto con la spalla. Lui la guardò con la coda dell’occhio, percependo ancora una volta quella sensazione strana che sentiva ogni volta che si trovava vicino a lei.
«Oggi non ti ho visto a scuola».
Jack prese uno dei sassi che aveva posato lì accanto e lo lanciò in acqua. Tre salti perfetti sulla superficie, e poi affondò. Jack socchiuse le palpebre e alzò gli occhi verso il cielo rischiarato dal sole di Aprile, sospirando.
«Avevo una cosa importante da fare». In realtà aveva passato la mattinata a leggere, ma questo non glielo avrebbe mai rivelato. Forse si stava comportando in maniera infantile, ma non voleva che lei sapesse che, da quando erano diventati amici, aveva cominciato a leggere tutti i libri di cui lei gli aveva parlato.
Elsa lo fissò con le labbra strette in una smorfia di rimprovero, poi scosse la testa e prese a torturarsi le dita.
«Jack, tra poco ci sono gli esami».
«E allora?».
«Niente». Elsa si passò una mano fra i capelli che erano sfuggiti alla treccia. «È solo che… Ho paura».
Jack si voltò a guardarla, aggrottando le sopracciglia.
«Paura?».
Elsa irrigidì le spalle e socchiuse le labbra, come se volesse dire qualcosa, poi scosse la testa e si portò le mani al volto. Si lasciò cadere con la schiena contro il molo.
«E se facessi la scelta sbagliata, riguardo l’Università? Se non fossi in grado?».
Jack si distese accanto a lei e con una mano le scoprì il volto. Lei lo guardò smarrita. Sembrava così tanto una bambina che Jack si sentì sorridere.
«Non dovresti essere preoccupata, tu sei così... I-io dovrei. Almeno tu sai che cosa vuoi fare nella tua vita… Io non saprei nemmeno dirti cosa voglio mangiare per cena. Vorrei solo…», Jack sospirò, «Non dover crescere. Non avere responsabilità… Tutto questo non fa per me».
Elsa rimase a guardarlo con un’espressione seria, quasi triste.
«Jack, io non riesco mai a capirti. C’è tanto di più in te di quello che credi… Perché hai paura di tirarlo fuori?».
Jack si sentì stringere la bocca dello stomaco a quelle parole. Le chiese che intendesse dire, ma lei non rispose.
«Oggi ho voglia di fare un giro in bicicletta. Andiamo al parco?». Quando gli sorrideva in quel modo, con quella luce negli occhi e le fossette sulle guance morbide, lui non riusciva mai a dirle di no.
«Andiamo…. Ma solo se mi offri il gelato. E niente fermata in biblioteca, l’ultima volta mi hai tenuto chiuso là dentro per un’ora e mezza».
Elsa gli porse la mano.
«Affare fatto, Frost».
 
* * *

Elsa era talmente bella con la treccia bionda posata sulla spalla destra e quella semplice maglietta celeste. Quando correvano in bicicletta, lei lo superava sempre. Si girava ridendo e gli faceva la linguaccia, poi chiudeva gli occhi e si lasciava accarezzare il volto dal vento.
Ed ecco che Jack la superava di nuovo e toglieva le mani dal manubrio. Lei a quel punto lo guardava sempre preoccupata, perché la prima volta che l’aveva fatto era talmente concentrato a osservare Elsa, e a ridere della sua espressione allarmata, che aveva perso il controllo della bicicletta, finendo addosso a lei. Erano caduti entrambi sull’asfalto in un intrico di braccia, gambe doloranti e biciclette ammaccate.
Quel pomeriggio non fece eccezione.
«Stai attento!».
«Sì, mamma…».
Continuarono a pedalare lungo i sentieri del parco, all’ombra degli alberi, fino a quando non raggiunsero il chiosco dei gelati. Come promesso, Elsa gli offrì un cono al cioccolato, mentre lei ne prese uno alla vaniglia.
Si sedettero su una panchina libera e abbandonarono le bicilette lì vicino.
«Jack?».
«…Elsa?»
La ragazza arrossì, ma cercò di nascondere il viso dietro il cono gelato. Jack scoppiò a ridere.
«Dai, non prendermi in giro… Per me è difficile parlare di questa cosa».
Jack si portò una mano alla bocca e cercò di assumere un’espressione seria, per quanto possibile.
«Ricordi che ti parlavo di quanto mi piacesse suonare…».
«Non mi hai mai detto che strumento, però. Io scommetto che si tratta del pianoforte, giusto? Con quelle dita sottili che hai, direi che…».
«È una sorpresa!» esclamò la ragazza, spazientita, e Jack alzò le mani in segno di resa. Elsa fece una breve pausa, e lui le fece cenno di continuare. «Be’, ti andrebbe… Sì, insomma, tu…».
«Dillo con parole tue».
Jack si beccò un pugnetto sulla spalla, e sapeva di esserselo meritato.
«Sei il mio unico amico… Be’, a parte Anna, ma lei è mia sorella, non conta… Insomma, ti andrebbe, - non sei obbligato-, di sentirmi suonare? Ho il saggio a luglio, volevo sapere un tuo parere…».
«Tre mesi prima?».
«Jack!».
«Quando devo venire ad ascoltarti?».
Elsa lo guardò con un’espressione di pura gioia.
«Ti va?».
Jack alzò gli occhi al cielo. «Quando?».
«Dovresti venire a casa mia…».
«Allora facciamo sta sera? Quando torniamo dal parco?».
Elsa annuì con energia e gli mostrò un sorriso talmente caldo che Jack temette per il suo gelato.
 
* * *

Era stato un vero colpo scoprire che Anna, la sua violinista, non era soltanto l’amica di Elsa, ma sua sorella minore.
Era venuto a saperlo a mensa, mentre era intento a bere della Pepsi e, be’, diciamo che non era stata un’esperienza piacevole. Elsa temeva che si sarebbe soffocato e aveva preso a dargli dei colpetti sulla schiena, poi era diventato tutto viola, etc etc.
Il lato negativo di aver scoperto un’amica in Elsa Vinter e di sedere con lei a mensa era che doveva di conseguenza sorbirsi Anna e il ragazzone biondo, Kristoff, tutte le volte.
Aveva cercato di nascondere il fastidio in ogni modo, ma a quanto pare non si era impegnato abbastanza, dato che Elsa aveva capito tutto comunque.
Erano a casa di lui a guardare una commedia demenziale sul suo computer, quando la domanda fatidica fece la sua entrata in scena.
«Ti piace mia sorella, non è vero?».
Jack si era sentito mancare il fiato. Elsa continuava a guardare lo schermo del computer, come se fosse una cosa da nulla, ma le sue spalle erano rigide, lo sguardo freddo.
Jack non sapeva che rispondere. Gli piaceva Anna? Certo che gli piaceva. Era bella, spontanea, allegra. Era la sua violinista. Era così diversa da Elsa, e anche da lui. Ma quale senso di piacere intendeva? Jack aveva paura di rispondere, perché, se avesse sbagliato risposta, Elsa… Elsa cosa?
«I-Io…».
«Non fa niente. In fondo non si può controllare il proprio cuore, sbaglio? Ma lei è fidanzata e ci tiene tantissimo a Kristoff, perciò… Stai attento. Mi dispiacerebbe vederti soffrire, sei il mio unico amico».
 
  * * *

«Ah, oggi Anna non c’è in casa, è andata da…»
«…Kristoff».
Elsa scoppiò a ridere. «Non c’era nemmeno bisogno di dirlo».
La casa dalle imposte bianche all’interno era ancora più bella. Tutti i mobili erano riposti con ordine e precisione, tutti i colori si abbinavano perfettamente tra loro e l’aria profumava di lillà. Casa sua… Be’, definirla “caos” sarebbe stato riduttivo. L’amore di suo nonno Claus per il rosso si poteva vedere un po’ ovunque, dalle pareti ai tappeti al divano, per non parlare dei suoi progetti di lavoro e i modellini di giocattoli sparsi per tutta la casa. Nonostante tutto, Elsa l’aveva definita adorabile e preferiva sempre che si trovassero a casa di Jack, piuttosto che in quella di lei.
Elsa lo guidò lungo il salotto e poi su per le scale, fino alla camera da letto enorme che condivideva con Anna. Per quasi un anno Jack aveva fissato quella stanza dalla strada.
«Siediti». Elsa gli indicò il letto addossato alla parete di destra, quello con il copriletto bianco con dei pupazzi di neve azzurri e viola. Una volta seduto, Jack l’osservò mentre prendeva il leggio e lo sistemava al centro della stanza, sopra un tappeto rosa acceso. Elsa trafficò per un po’ con gli spartiti e, quando si accorse dello sguardo insistente di Jack, gli rivolse un sorriso nervoso.
«Non devi sentirti agitata. Sono solo io».
Lei annuì non troppo convinta, come se volesse dirgli “È proprio questo che mi spaventa”. Aprì la custodia sistemata su un mobiletto lì accanto e quello che ne tirò fuori fece gelare il sangue di Jack nelle vene.
Era un bellissimo violino Stradivari, talmente lucido che la luce si specchiava su di esso mostrando ogni sfumatura di marrone del legno. Elsa se lo portò alla spalla con mano ferma e vi appoggiò la mascella, mentre con l’altra stringeva l’archetto. Gli lanciò uno sguardo veloce, un accenno di sorriso, e poi cominciò a suonare.
Al contrario degli altri, questo brano doveva essere talmente famoso che lo conosceva persino Jack, che di musica classica non se ne intendeva per niente. Avrebbe voluto concentrarsi sulla melodia allegra e incalzante, chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere, ma non ce la faceva. I suoi occhi erano fissi sulla violinista – non Anna, Elsa-, con le labbra socchiuse e le mani immobili sulle ginocchia. Non riusciva a pensare a niente se non a quanto fosse stato stupido. I suoi occhi incontrarono per un attimo quelli di Elsa, e Jack sorrise, sentendosi sollevato senza motivo. Questa volta chiuse gli occhi e il legame fra lui e la violinista gli sembrò ancora più forte, le note più gioiose.
Quando Elsa ebbe finito, si sbrigò a riporre violino e archetto nella custodia. Diede le spalle a Jack per alcuni attimi, quasi si vergognasse di farsi vedere da lui, e, quando finalmente si voltò, gli chiese con un filo di voce «Orribile, vero?».
Fece per aggiungere qualcos’altro, ma Jack non le lasciò il tempo. L’abbracciò forte, ridendo come un pazzo, poi la prese per mano e cominciò a saltellare per la stanza trascinandosi dietro la ragazza sempre più confusa.
«Sei bravissima!». Si fermò e le posò le mani sulle spalle, guardandola negli occhi. «Sei bravissima» ripeté, questa volta più serio. Elsa sorrise radiosa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, e nel guardare le sue labbra così da vicino Jack percepì una forza magnetica attirarlo ancora più vicino a lei. Deglutì, imponendosi di distogliere lo sguardo.
«Sono felice che sia tu».
«Cosa?».
Jack sorrise e scosse la testa.
 



Estate
 
Erano partiti la mattina presto con l’auto di Elsa.
Durante il tragitto gli aveva parlato di com’erano andati gli ultimi esami del primo anno e lui aveva ascoltato con attenzione, il finestrino aperto e la mano aperta che accarezzava l’aria. L’auto sfrecciava veloce sulla superstrada.
«Ogni anno che passa diventi sempre più secchiona». Le aveva scompigliato i capelli biondi raccolti in una treccia disordinata e lei aveva scostato la testa, lanciandogli un’occhiataccia.
Una volta arrivati, si erano sistemati in una zona tranquilla vicino all’acqua e Jack aveva piantato l’ombrellone, mentre Elsa distendeva i teli sulla sabbia.
In quel preciso istante, la ragazza stava spalmando la crema solare sulle spalle di Jack, perché voleva evitare che si beccasse una scottatura come l’ultima volta. Lui la prese in giro come al solito, ma segretamente quelle premure che lei gli dimostrava gli facevano piacere.
«E a lei come è andato il semestre, Frost?».
«Normale, direi».
«Presto potrò leggere il suo libro?».
«Solo se mi chiederà un autografo, signorina Vinter». Elsa gli pizzicò la guancia e lui ridacchiò.
«Guardaci» sussurrò lei, «Siamo diventati grandi, ormai. Persino tu, caro il mio Frost».
Rimasero in silenzio, lo scrocio delle onde poco distanti.
«Hai conosciuto qualche ragazza?».
Jack si grattò la nuca, nervoso.
«Sì… Ma sono solo amiche, ti giuro! Non sono… Non sono uscito con nessuna».
Rimase immobile e in attesa, insicuro.
«Rimarrai con me anche quando sarò diventata una fredda donna di politica?». La ragazza allontanò le mani dalle spalle di Jack e lui sentì un brivido freddo alla base della nuca.
«E tu rimarrai con me quando sarò diventato uno scrittore squattrinato?».
Una risata, e poi «Sempre, Jack». Lui si voltò e le fece l’occhiolino.
«Allora affare fatto, Vinter».
Rimasero seduti per un po’ a guardare il mare e i ragazzi che giocavano a calcio vicino all’acqua, lanciando schizzi da tutte le parti. Jack sarebbe corso in acqua subito, ma prima doveva fare una cosa. Deglutì rumorosamente e poi, arrancando con la mano destra, riuscì ad aprire una tasca dello zaino e a tirarne fuori una collana.
La alzò velocemente sopra il viso di Elsa, in modo che il ciondolo a forma di fiocco di neve oscillasse proprio davanti agli occhi della ragazza.
«Buon compleanno».
Elsa strinse il ciondolo fra le dita da violinista e rimase a guardarlo in silenzio, senza proferire parola.
«T-ti piace? Non volevo regalarti un cd come l’anno scorso, e così ho pensato… Non ero sicuro sul colore, ma so che ti piace la neve e, non so, mia sorella ha detto che era carino e che ti sarebbe piaciuto, ma, non so… Dovevo prendere qualcos’altro, vero? Forse un libro, un libro ti sarebbe piaciuto di più… Scusa, sto parlando troppo, forse dovrei semplicemente…».
A zittirlo ci pensarono le labbra di lei. Si posarono sopra le sue brevemente ed erano calde, ancora più calde della sabbia sotto il sole di luglio.
Quando si separarono, Jack ringraziò che Elsa stesse guardando ancora la collana e non la sua faccia. Era sicuro che la sua espressione fosse qualcosa di altamente ridicolo, in quel momento.
«Mi piace. Tanto. E mi piaci anche tu, tanto, credo da sempre». Lo disse con un tono talmente sicuro che non lasciava spazio a dubbi o fraintendimenti. Jack percepì la stessa sensazione in fondo allo stomaco che aveva provato quel giorno in cui, mentre tornava dagli allenamenti di baseball, aveva sentito per la prima volta la melodia del violino di Elsa.
La ragazza si agganciò la collana dietro il collo e poi accarezzò il ciondolo con un’espressione assorta. Jack la fissava intontito.
«I-io… Va bene…».
Elsa si mise a ridere. Si alzò con agilità e finì di togliersi il copricostume bianco.
Era bellissima.
«Facciamo a chi arriva prima?». Jack annuì non troppo convinto e, non appena lei disse «Via!» e cominciò a correre verso il mare, la seguì imbambolato.
Si tuffarono nell’acqua fredda, rabbrividendo per il cambio di temperatura.  Jack approfittò della distrazione della ragazza e le schizzò addosso l’acqua salata. Elsa rimase impietrita.
«È una sfida, questa?». Jack la schizzò di nuovo e questa volta Elsa rispose con altrettanta energia. Quando lui tentò di afferrarla, la ragazza cercò di scappare, senza mai smettere di ridere, ma lui riuscì a sollevarla per la vita e a trascinarla sott’acqua con un urlo.
Riemersero che avevano entrambi i capelli incollati al viso e alla nuca. Elsa li allontanò dalla fronte, ridendo. Jack rimase a fissarla, le labbra aperte e il respiro pesante. Si sentì quasi estraneo al proprio corpo, mentre posava le mani sulle sue spalle e la baciava. Questa volta durò un po’ di più. Le labbra di lei erano salate e screpolate, fredde rispetto a prima. Jack portò le mani alle guance di Elsa, infilando le punte delle dita nei suoi capelli bagnati.
Quando si separarono, Elsa era arrossita e rideva emozionata. Jack le sorrise.
«Quel giorno, a scuola… Ti ho parlato perché, dentro di me, sapevo che se non fossi stata tu non sarebbe stata nessun altra».
Elsa posò le mani su quelle di lui.
«Grazie, Jack».
Lui scosse la testa, sorridendo.
«No, grazie a te».
 





Note dell’autrice:
 
Oh, un po’ di fluff ci voleva. Anche dentro di me si nasconde un cuore, in fondo… molto in fondo. Quindi niente tragedie e disperazioni questa volta *alza i pollici*
È la prima volta che scrivo su questi due adorabili esserini, perciò siate clementi, please. L’impostazione è classica, ma ho pensato che fosse l’unica che si adattasse senza problemi ai personaggi senza renderli OOC (e poi, diciamocelo, non è così poco comune come abbinamento: io, pur essendo più o meno una secchiona, sono un po’ la Jack della situazione, eppure tutti i miei amici sono personcine responsabili, ordinate e diligenti –sarà la legge della compensazione u.u)
Questa storia è stata scritta per il compleanno di End of me: spero ti piaccia ^^!
I brani che suona Elsa sono quelli de “Le quattro stagioni” di Vivaldi. La loro storia segue le stagioni non solo in fatto temporale, ma anche a livello interiore, sentimenti etc etc. Oh, Elsa aveva sempre avuto una cotta per Jack, per questo era così nervosa quando lui le parlava e per questo Anna dice “mi ha tanto parlato di te”: che sorella affidabile.
Elsa intraprende una carriera politica perché nel canon è una Regina, perciò… Sarà la prima presidente donna degli Stati Uniti? (Elsa for President!) Invece a Jack non sapevo che far fare, poi ho pensato che ce l’avrei visto come scrittore, e quindi ta-dan! Idea pessima?
Spero mi lascerete qualche opinione e grazie a chi è arrivato fin qui: la vostra forza di volontà è invidiabile. E scusate se ho dimenticato qualche errorino per strada, sono un disastro ^^”
Baci

 
 
 
 

 




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