Capitolo 11
“There’s
gotta be another way out
I’ve been stuck in a cage with my doubt
I’ve tried forever getting out on my own.
But every time I do this my way
I get caught in the lies of the enemy
I lay my troubles down
I’m ready for you now”
[...]
“Bring me out
Come and find me in the dark now
Every day by myself I’m breaking down
I don’t wanna fight alone anymore
Bring me out
From the prison of my own pride
My God
I need a hope I can’t deny
In the end I’m realizing I was never
meant to fight on my own”
[…]
“I don’t wanna be incomplete
I remember what you said to me
I don’t have to fight alone”
( On My Own – Ashes Remain)
Di cose difficili, nella sua vita, ce ne erano state molte, forse anche
troppe se si prendeva in considerazione la sua età
come
cintura su cui imporre le tacche.
Accettarsi. Fidarsi.
Amarsi.
Tante, e non tutte le aveva portate fino alla fine, ma ci stava
lavorando, aveva deciso di lavorarci sù per
migliorarsi.
Cambiarsi d’abito, dunque, in comparazione a tutto
ciò che
aveva compiuto fino a quel momento, non avrebbe dovuto rappresentare
una tale sfida o richiedere un tale dispendio di energie da parte sua,
eppure, per quanto la cosa potesse risultare ridicola, Riku faticava a
compiere un’azione semplice come quella.
Era incapace, inabile, quale che fosse l’aggettivo
più
appropriato a descrivere la sua inettitudine non lo sapeva, ma si
trovava comunque a essere completamente inerme di fronte ad
una
sfida che pareva più difficile di quelle che aveva
affrontato in
passato, ed erano state tante, alcune, alle volte tanto
complesse
da aver richiesto più di un solo sforzo fisico, ma
la pila
di abiti che fissava in silenzio da ore, con il cuore stretto in gola e
le mani serrate lungo i fianchi sminuiva quasi ciò che aveva
passato, tutto impallidiva di fronte ad un’azione che, quella
volta, avrebbe richiesto troppo da parte sua.
Una sfida che gli avrebbe tolto più di quanto era disposto a
cedere, eppure, ogni qual volta la rabbia gonfiava i muscoli
del
suo braccio distendendo i tendini nervosi dei
polsi, Riku
arrivava quasi a
sfiorare la
stoffa con la punta delle dita irrigidite dalla frustrazione
prima di far ricadere indietro la mano sotto il peso di un
coraggio che tornava a mancargli ogni volta.
Codardo.
Riku lo masticò a labbra strette, gli occhi che guardavano
con
disprezzo il sedicenne dallo sguardo impaurito e le labbra
impallidite riflesso nello specchio,
un’immagine
che sembrava prendersi gioco di lui, di
quell’incapacità che ora risultava così
ridicola se
messa in confronto a ciò che aveva fatto, a ciò di cui
ancora era capace.
Ma non era per vanità che Riku stentava a compiere una
simile
azione, perché, per quanto di bell'aspetto sapesse d'essere,
nascondersi era sempre stata una scelta ben più
allettante
e sicura del mostrarsi alla luce del sole.
Eppure, in quel momento gli pareva di starsi comportando come una tra
le donne più sciocche e superficiali che si dibatteva su
quale
tonalità di rosa abbinare per mettere in risalto
il
pallore delicato del proprio incarnato, ma lui non aveva nessun
incarnato da mettere in mostra, nessuna vanità da
soddisfare,
solo la paura di un ragazzino che si rifiutava di tornare ad essere
ora che il suo fisico aveva preso le fattezze che gli erano
proprie.
Quelle di un bambino.
Un gorgoglio di collera gli ruggì in petto, una violenta
vibrazione di frustrazione che gli fendette il viso
strattonando
in basso l’angolo della bocca che si trovò ad
arricciare
quando la consapevolezza di non essere altro che quello, agli occhi del
mondo, ai suoi
occhi, lo fece ribollire di rabbia.
Di frustrazione.
Un bambino che si fingeva uomo. Ecco cosa vedeva in quello specchio.
Cosa aveva sempre visto.
Come doveva sembrare agli occhi di Aerith.
Un bambino da aiutare, un adolescente da capire, ma non un uomo da
amare.
Mai, un uomo da amare.
Come avrebbe potuto poi, se neanche lui amava ciò che
vedeva. Come avrebbe potuto lei amare ciò che lui odiava?
Eppure, come Ansem, come l’ombra che si era abituato ad
essere,
avrebbe potuto avere la possibilità di essere visto da lei
come
un suo pari, come qualcuno al quale sentirsi attratta, mentre
ora, ora non gli rimaneva che guardare gli abiti ordinatamente riposti
sul lavabo con il viso mangiato dal dubbio e il cuore
divorato
dall’ansia.
Dall’incertezza.
Stupido. Si sentiva così stupido ad essere rimasto
così a
lungo a fissare quelli che chiunque avrebbe visto come abiti,
semplici e normali abiti, ma che per lui non lo erano, non lo sarebbero
mai stati, non quando a spogliarsi non sarebbe stato solo il suo corpo,
ma la sua anima.
Quell’anima stanca che con il suo nero pece avrebbe
dato troppo nell’occhio, facendolo sentire diverso.
Una macchia.
Non era stato che quello. Da sempre.
Una sbavatura che aveva penetrato la carta fino a corroderne la
filigrana e fare marcire tutto ciò con cui era
entrato in
contatto.
Una macchia, una chiazza che passava inosservata
nell’oscurità più nera alla quale era
abituato.
Lì, lui non era diverso, non era strano, sbagliato,
lì lui poteva persino diventarlo, oscurità, e
persino
trovare riparo, un nascondiglio in cui nessuno lo
avrebbe
giudicato, perché non ci sarebbe stato nessuno ad
attenderlo, a
compatirlo, lì.
Come biasimare dunque la sua reticenza ad abbandonare un simile angolo
di pace, per quanto piccolo e scuro fosse?
Come mal giudicare la sua paura di abbandonarlo, quel timore viscerale
per ciò che stava fuori, per chi, fuori da lì,
avrebbe
parlato, accusato, e odiato lui per quello che aveva fatto e che
tuttora era disposto a fare?
Eppure, rannicchiarsi nelle ombre, bardarsi nella gobba del suo
mantello non sarebbe servito a niente, perché ogni qual
volta la
possibilità si fosse ripresentata, ogni qual volta il
bisogno di
nascondersi, di tacere le sue colpe e con queste anche se stesso fosse
tornato prepotente a spingerlo indietro, ci sarebbe stato il
ricordo di una promessa da mantenere a convincerlo a rimandare il
riposo nelle ombre, ci sarebbe stato un pezzo di stoffa a rammentargli
che lui, una via ancora ce l’aveva, che alla fine di tutto,
qualcuno lo stava aspettando, fuori di lì.
Che non tutti lo
avrebbero odiato.
Era stata un ricordo al quale aggrapparsi, quello, un ritornello da
canticchiare quando il buio diveniva troppo soffocante e la solitudine
troppo angosciante, così da ricordare a se stesso, quando
l’oscurità si faceva troppo fitta e lui faticava a
distinguere il suo stesso profilo, di guardare in basso e ritrovare nel
fiocco rosa che non aveva mai avuto il coraggio di strappare dal suo
braccio la sua ancora di salvezza.
La corda allacciata attorno alla vita che gli aveva sempre impedito di
cadere troppo giù.
Prezioso. Non aveva mai avuto nulla di più prezioso in vita
sua di quello.
Un fiocco rosa.
Ironico che una cosa così sciocca potesse risultare tanto
importante, ma per lui lo era, importante e troppo amato da potersene
separare, da poterlo scambiare per altra forza, lui che in fondo, aveva
barattato tutto per un po’ di potere, sacrificando ogni volta
un
po’ di se stesso, pezzo dopo pezzo, persino il suo cuore per
l’orgoglio, ma quello, quello non sarebbe mai riuscito a
lasciarlo andare.
Lei, non sarebbe mai riuscita a lasciarla andare.
Amore.
Riku non aveva mai saputo se si potesse chiamare così quella
stretta al petto che, con il passare degli anni, non aveva
fatto
altro che rafforzarsi, arrivando ad avvolgersi attorno al suo busto
fino ad abbracciare il suo cuore e ricoprirlo di una patina
traslucida e delicata capace, nonostante la sua impalpabile
consistenza, di riparare ciò che racchiudeva e porre una
barriera tra il suo cuore e ciò che minacciava di
avvelenarlo,
di strappargliene un altro pezzo.
Un battito
mancato.
Aerith era sempre stata questo per lui.
Quel respiro strozzato in gola per l’emozione,
l’incosciente dilatarsi delle pupille nel cogliere qualcosa
di
tanto bello da far male.
Amore.
Riku non sapeva cos’era, l’amore, ma se qualcuno
glielo
avesse domandato, e lui avesse dovuto dare una risposta sincera,
allora, in quel caso, avrebbe detto che Aerith era l’amore.
Il suo.
Il sussulto al cuore che lo coglieva ogni qual volta la sua mente, il
suo cuore e i suoi occhi si aggrappavano all’immagine
di
quella donna dal sorriso gentile che anni fa l’aveva trovato
agonizzante in un sudicio vicolo.
Non aveva mai avuto modo di paragonarlo a nient’altro,
neanche
negli anni di solitudine e isolamento, ma se non era amore
quell’insensato bisogno di vederla sorridere, di sentirsi
chiamare da lei, di essere anche solo guardato da quegli occhi verdi,
allora, non sapeva cos’altro potesse essere.
Amore. Lo era, o forse no.
Un amore non ricambiato. Taciuto. Fragile. E forse troppo
immaturo, ma un amore per il quale Riku ora si preparava ad affrontare
quell’ennesima sfida, quel salto nel buio per trovare ancora
una
volta alla fine del tunnel il suo sorriso.
E se per ritrovarlo doveva tornare ad essere se
stesso e
smettere di sembrare qualcun altro, allora, per lei, per quel sorriso,
lui l’avrebbe fatto.
Avrebbe fatto di tutto per farsi amare un po’ da Aerith.
Come se davvero ci fosse
qualcosa da amare in lui
schioccò la voce tesa della sua coscienza, maligna e cruda
come
una frustata tra le scapole, ma un colpo che Riku incassò
con
una smorfia, tentando invano di non perdere la presa su quella corda
rosa alla quale strenuamente tentava di rimanere aggrappato,
ricordandosi che lei sembrava crederci davvero, che qualcosa di bello,
qualcosa da amare ci fosse lì, da qualche parte, in lui,
dove,
non era suo desiderio scoprirlo, gli bastava sapere che lei ci credeva,
che lei lo vedeva.
Perché Aerith non gli aveva mentito, mai, neanche
una
volta, neanche quando farlo sarebbe stato più
semplice e
meno doloroso che dire la verità.
Ma lei non lo aveva fatto.
Non aveva mai negato la sua oscurità, non aveva mai fatto
finta
di non vederla, ma l’aveva sempre abbracciata, e persino
consolata, quando le tenebre dentro di lui stentavano a colmare il
vuoto nel suo petto, nella sua anima.
Lei, quel fiocco, erano il cammino che aveva scelto per sè,
il
confine tra oscurità e luce sul quale si
destreggiava a
rimanere in equilibrio.
Nel mezzo.
Era sempre stato così.
In mezzo ad ogni cosa.
In mezzo a Kairi e Sora.
In mezzo tra ciò che era giusto e ciò che era
sbagliato,
una posizione che lo aveva sempre angosciato assieme al peso delle sue
scelte che alla fine si erano sempre rivelate sbagliate, ma un posto
che era suo, che si era scelto lui, e nessun altro.
In mezzo come
ora tornava
ad essere, a metà tra il bambino al quale voleva smettere di
assomigliare e l’uomo che agognava a diventare.
Per lei. Era sempre, per lei.
Lei che non aveva smesso di aspettarlo, di pensarlo, di accettarlo e
che, Riku sapeva, con uno strano nodo alla gola, lo avrebbe
cercato, trovato e trascinato per mano via dalle tenebre che
lei
avrebbe rischiarato con la luce del suo sorriso.
Lo avrebbe fatto.
Lui lo sapeva, ne era certo, e di certezze Riku nella sua
vita ne
aveva avute davvero troppo poche per lasciarla andare, per non tenerla
stretta a sé con forza fino a lasciare i segni, proprio come
si
trovò ad allacciare le dita attorno al fiocco che gli
fasciava
il polso per prendere coraggio.
Non lo aveva rivoluto
indietro.
Riku aveva temuto, aveva atteso con angoscia che lei glielo chiedesse
indietro, che lo privasse di qualcosa che gli ricordava lei, che gli
dava l’impressione di avere una parte di Aerith, con
sé,
quando era lontano.
In fondo, era stato un prestito, il suo, un gesto di carità
quasi, ma a dispetto di quello che aveva pensato, creduto e
temuto, Aerith non aveva chiesto niente indietro.
Non gli aveva chiesto qualcosa in cambio come invece aveva fatto il
resto del mondo.
Ed era stato quando, preda di una realtà virtuale,
si erano
trovati ancora una volta sugli angoli opposti della barricata
che
Riku aveva capito.
Lui.
Aerith, più che al suo ornamento, più che a quel
fiocco, si era riferita a lui.
Si era sempre riferita a lui.
Al suo, di ritorno.
E si era sentito spaesato, confuso dall’inaspettato fiotto di
calore che gli aveva riempito il cuore e la bocca di un
sorriso
che aveva poi ingoiato a quella scoperta, perché il solo
pensiero che qualcuno potesse tenere così tanto a lui, che lei,
potesse tenere così tanto a lui dopo tutto quel tempo, dopo
tutto quel silenzio, lo aveva scosso, turbato, e fatto sorridere.
Sì, sorridere, a lui, che sorridere non piaceva.
Perché per un istante, per un solo, singolo istante, lui si
era
sentito felice, e quando Riku aveva pensato di non poterla amare di
più di così, aveva dovuto ricredersi
ancora una
volta quando, nel riaprire gli occhi, nell’abbandonare il
buio
sicuro dietro le sue palpebre, nel
tornare a vedere,
aveva trovato tutto quello che gli serviva, che gli sarebbe servito per
ripagarlo di ciò che aveva lasciato indietro, per
ricordargli
che ne era valsa la pena, alla fine, tornare.
E ne sarebbe valsa anche adesso, solo che quella volta avrebbe dovuto
metter mano a tutto il coraggio che ancora gli rimaneva per scegliere
chi essere.
Una scelta difficile, combattuta, la sua, e forse persino sofferta, una
scelta che forse non avrebbe neanche preso in considerazione, neanche
per Sora, neanche per Kairi.
Nulla e nessuno sarebbe valso quel prezzo.
Nessuno, eppure, per lei ne valeva la pena, perché se fosse
stato qualcun altro ad averlo privato di ciò che gli era
familiare, a chiedergli di rinunciare
all’oscurità, Riku
se ne sarebbe risentito, ne avrebbe fatto una questione
d’orgoglio, ma per lei, e per il ricordo del
tessuto grezzo
della sua benda avvolto nei capelli di Aerith si decise a scegliere.
Ad essere.
Una benda per un fiocco.
Quello era stato lo scambio tra loro.
Qualcosa di vecchio per avere qualcosa di nuovo, di migliore, e Aerith
aveva sempre avuto il potere di far sembrare il mondo migliore, di far
sentire lui, migliore di quello che era in realtà.
Di come si sentiva.
Spogliarsi del suo mantello, scegliere, nel suo caso prendeva
quindi un significato più profondo, ben più
angosciate di
quello che sembrava.
Uno scambio che avrebbe voluto dire spogliarsi di
ciò che
si era stato fino a quel momento, privarsi di un ruolo che
aveva
ricoperto con fierezza e orgoglio, perché era
stato lui, a
volerlo.
Era stato lui, per una volta, ad essere scelto.
Ed anche se erano state le tenebre, a volerlo, qualcuno lo aveva
comunque giudicato degno di poter essere preferito ad altri, di essere
migliore ad altri, e Riku sapeva di esserlo sempre stato.
Migliore, a suo modo, di tutti.
Di Sora.
Degli altri bambini del villaggio.
Di chiunque altro.
Una presunzione che alla fine presunzione non era mai stata, non per
lui, non per chi davvero avrebbe potuto fare grandi cose, se solo fosse
stato lui, ad essere scelto come custode del Keyblade.
E c’erano state volte in cui aveva immaginato a come sarebbe
stata la sua vita se fosse stato lui e non Sora, a diventare
l’eroe dei mondi, se fosse toccato a lui il compito di
salvare
gli altri, di essere quel bambino speciale circondato da tutto quella
meraviglia, da tutta quell’ammirazione, ma poi, poi quel se
cominciava a sbiadire sotto la mano bianca che si tendeva verso di lui
e pronunciava quattro lettere in un modo diverso da quello che il mondo
era solito adottare.
Un nome facile da pronunciare, il suo, semplice da ricordare,
ma
un nome che molti nel corso della sua vita avevano chiamato senza
riuscire a ricevere da lui più di uno sguardo di traverso,
diffidente, annoiato, un nome che era stato strillato, sibilato e mai, mai
semplicemente invocato, almeno fino a quando non era stata
lei, a pronunciarlo, a chiamarlo.
E quando lo aveva fatto, quando Aerith aveva pronunciato il suo nome,
lui aveva sorriso, si era voltato,e si era riempito
il
cuore e gli occhi di quella gentilezza che aveva ingentilito
anche il suo nome, il suo viso.
Il suo cuore.
Pareva quasi prendere un altro significato, sulle labbra di Aerith,
quella parola così tanto abusata, una parola che risultava
più una spigolosa successione di lettere dal taglio aguzzo,
ma
un sussurro che si ammorbidiva se pronunciato da quella voce che nella
sua mente soffiò parole che, d'improvviso, nel ricordare
quanto
udito la notte prima, gli riempirono gli occhi
d’orrore e la voce di sibili che aveva dovuto
soffocare
contro le labbra mentre il suo cuore inciampava e rovinava in un oceano
di oscurità, venendone inghiottito, divorato da denso,
torbido
liquido nero che aveva impastato la sua bocca in una sola domanda
simile ad un ruggito.
Chi?
Chi aveva osato farle del male? Come si poteva trovare il coraggio di ferirla?
- …anche se
sono stata
braccata come un animale, anche se sono stata trattata come una cavia
da laboratorio da dissezionare e accoppiare.
La porcellana del lavabo crepò sotto la pressione delle
dita, i
denti che penetravano con forza nella carne del labbro che si
trovò a mordere a sangue per non urlare la propria
rabbia,
per non dar voce al mostro che gorgogliava nel suo stomaco e chiedeva
solo una cosa.
Un cuore.
Un cuore da strappare, rompere, spaccare e sbriciolare tra le sue dita
fino ad arrivare a stringere solo polvere.
Semplice e appagante, lo sarebbe stato, ma troppo codardo per chiedere
il nome di chi aveva provato a toglierle dal viso il sorriso, troppo
confuso sul proprio ruolo nella vita di Aerith, su quale diritto
potesse vantare per arrivare a tanto, tutto ciò che Riku
poteva
fare per lei era proteggerla ora, quando poteva farlo, e alla
luce del sole non avrebbe potuto.
Lì fuori, non avrebbe potuto, non se non avesse lasciato la
presa su quel manto di tenebra che veleggiava alle sue spalle in attesa
di tornare a coprire la sua vita e una realtà nella quale
faticava a trovare il proprio posto come Riku, ma era arrivato il
momento per lui di prendersi le sue colpe e gli sguardi di sbieco.
Era arrivato il momento di essere l’eroe di qualcuno, e aveva
scelto di essere quello di Aerith.
Un lungo, profondo respiro e un ultimo sguardo lanciato di sbieco allo
specchio fu tutto ciò che Riku si concesse prima di sfilare
il
cappuccio dal proprio capo con lentezza, quasi ad abituarsi
al
freddo che, filtrato dal collo oramai scoperto, scivolò
lungo la
schiena nuda che lo specchio rimandava assieme ad ogni sua mossa,
aiutandolo a mantenere un contatto con ciò che stava per
abbandonare, con ciò che stava per diventare.
Perché, mentre il fruscio degli abiti accompagnava il guizzo
teso delle sue pupille, mentre il pavimento accoglieva quello che un
tempo era stato, l’ombra che il buio ora avrebbe faticato a
riconoscere con quelle tonalità accese a renderlo
così
diverso, così
normale,
un nuovo viso sbucava dal collo della maglietta, e un uomo nuovo
tornava a fissare il riflesso di un Riku che non era più
Riku il
traditore, Riku l’ombra, Riku il disperso.
Ma Riku.
Riku e basta.
°°°
Il senso di colpa era uno di quei noiosi e sgradevoli stati
d’animo di cui Axel, in quanto Nessuno, non avrebbe mai
dovuto
subirne l’influenza.
Eppure, per quanto ostinatamente si sforzasse di non dar un nome e un
significato all’amarezza che gli comprimeva il
petto scosso
dall’affanno della corsa, il Nessuno sapeva con una
sconcertante
e altrettanto irritante certezza che il suo, era solo il tentativo di
ignorare il disagio che faceva fremere d’orrore le pupille
ogni
qual volta sulle pareti di mattoni che gli sfrecciavano di fianco nella
sua fuga disperata compariva un’ombra dalle fattezze
femminili.
Un’ombra dalla quale istintivamente distoglieva lo sguardo
per
paura di incrociare il verde acceso di grandi iridi nelle quali, la
sola possibilità di leggere la delusione e la consapevolezza
di
aver dato fiducia, una casa e forse, anche un futuro migliore di quello
che spettava ad uno come lui, a qualcuno che non se lo meritava, lo
atterriva.
Lo angosciava.
Anche se Axel sapeva, e aveva sempre saputo,
quanto immeritevole fosse di fronte tutto ciò che
Aerith gli aveva dato
e che lui, in un battito di ciglia, aveva scrollato di dosso come un
peso
irritante.
Attenzione. Comprensione. Qualcuno con cui condividere i propri
patimenti e nel quale trovare aiuto, un alleato.
Aveva sprecato la sua unica possibilità di non essere solo
in
quell’accanita lotta per la propria sopravvivenza, ma se da
una
parte il rimorso per aver tradito la fiducia di Aerith gli gonfiava la
gola di un ringhio frustrato, dall’altra, il palmo sottile e
sudato che sentiva ricambiare la presa nel dover superare una via meno
riparata gli ricordava che fuggire e lasciarsi inghiottire dal nulla
fosse nella loro natura.
Dopotutto, non erano che ombre.
Non c’era salvezza per quelli come loro.
Non c’era possibilità di fermarsi,
perché, se mai
lo avessero fatto, se mai avessero permesso ai loro desideri di
prendere il sopravvento sull’istinto di sopravvivenza, allora
gli
altri
li avrebbero
trovati, puniti, ed infine, gettati in pasto
all’oscurità
più nera che di loro non avrebbe lasciato che un sussurro
angosciato di chi non avrebbe mai più riuscito a trovare la
pace.
Non c’era che morte, per quelli come loro, e se non quella,
ci
sarebbe stata una lenta e dolorosa agonia che prima o poi li avrebbe
portati alla pazzia, perciò Axel correva.
Correva e nel mentre, malediva se stesso.
Malediva la sua essenza. La sua inadeguatezza. La sua impotenza. E
infine, malediva Aerith. Sì. Anche lei.
Soprattutto,
lei.
Lei che gli aveva ridato ciò di cui non aveva bisogno,
ciò che aveva abbandonato da tempo. La speranza.
La speranza di poter cambiare, di potersi salvare, di potersi fermare,
e persino, di poter avere un lieto fine come tutti gli altri.
Gli aveva concesso, semplicemente, la speranza di poter continuare a
vivere, e Axel la odiava per quello, perché ora aveva
trovato un
motivo in più per soffrire per qualcosa che non poteva
avere,
qualcosa di cui poteva solo immaginare l'entità, la sostanza.
Aerith gli aveva donato un “se”.
Se avesse
potuto seminare l’organizzazione senza dover
continuare a fuggire e nascondersi.
Se avesse
potuto trovare per sé e per Roxas un lembo di mondo nel
quale poter vivere senza dover temere di svanire.
Se avesse
potuto finalmente
capire come sarebbe stato avere qualcuno che in sua assenza
avrebbe
sentito la sua mancanza, chiamato il suo nome, regalato un sorriso.
Se, ma lui
non sapeva che farsene, dei se.
Axel, non poteva permettersi di pensare ai se, alle
possibilità,
perché lui semplicemente non ne aveva, proprio come Roxas.
Roxas che aveva sentito gli occhi pungere di
lacrime di
delusione quando, nel cuore della notte, mentre Hollow Bastion
dormiva e le risate al piano di sotto concedevano al suo spirito stanco
uno strano senso di
calore, di appartenenza, di famiglia, si era visto strattonare verso il
bagno per arrampicarsi al
davanzale della finestra e fuggire.
Dove. Neanche Axel lo sapeva. Ma lontano, il più lontano
possibile dal prescelto che non sembrava capire quanto vicino e crudele
fosse il nemico contro il quale credeva di poter vincere.
Perché non poteva. Nessuno avrebbe potuto.
- Ho trovato delle impronte qui!
L’urlo che volò sopra le loro teste giunse
inaspettato e,
Axel, notò con orrore, tremendamente vicino, troppo vicino
per non convincerlo ad imboccare alla cieca una biforcazione e
tirare a sé Roxas per allontanarsi dalla ninja che
assieme
al soldato dello sguardo di ghiaccio e alla compagnia di eroi li stava
cercando.
Prevedibile.
Axel sapeva che prima o poi si sarebbero accorti della loro assenza, ma
aveva sperato che gli concedessero almeno un paio di ore di vantaggio
prima di
doversi sobbarcare in una corsa contro il tempo che ora li vedeva
schiacciati contro un muro, con il fiato corto, e gli occhi sgranati
dall’angoscia di essere scoperti e riportati indietro.
E forse, si
ritrovò a pensare il Nessuno mentre riprendeva fiato e si
permetteva di socchiudere gli occhi con il capo ripiegato
all’indietro contro il freddo muro, questa volta
l’uomo
dallo sguardo di ghiaccio non sarebbe stato tanto permissivo nei loro
confronti.
- Credi che se ne siano andati?
Con un verso d’insofferenza volto più alla
situazione che
al sussurro concitato di Roxas Axel si costrinse a schiudere le
palpebre e fissare il compagno stretto tra le braccia con attenzione,
stiracchiando un sorriso storto per smorzare la propria e la sua ansia
mentre con una mano gli scompigliava affettuosamente i capelli.
Roxas.
Una luce morbida gli accarezzò lo sguardo quando la sua
mente bisbigliò quel nome.
Era per lui che continuava a combattere.
Era per quello sguardo sperduto. Per quelle mani sottili e bisognose di
aggrapparsi a qualcosa. Per quel sorriso che lentamente, come lo
schiudersi dei petali di un timido fiore, sbocciò nel viso
delicato che Axel sfiorò in una carezza prima di scostarsi
dal
muro e osservare con un sospiro l’ennesima biforcazione che
li
avrebbe condotti, con un po’ di fortuna, alla loro salvezza.
- Coraggio – lo incitò, avvolgendogli un braccio
attorno
alle braccia minute per sospingerlo verso destra –
è
meglio continuare prima che –
Fu un attimo.
Un lieve scricchiolio alle loro spalle, e la parola che Axel stava per
sospirare si tramutò nel ringhio minaccioso con il quale
accolse
la venuta di uno dei loro inseguitori, i denti snudati in un ghigno
sinistro e le braccia rigonfie di fiamme che nella loro languida
discesa verso il terreno illuminarono lo stretto sentiero di mattoni e
un paio di vecchi e consumati scarponi marroni che videro fermarsi
assieme alla figura flessuosa appena uscita dall’ombra
dell’arco.
- Bella serata, non trovate?
Il tono era stato fra i più affabili e leggeri, come quello
di
chi si trova a discorrere sulle bellezze del mondo con uno sconosciuto
attorno al fuoco di un falò improvvisato nel deserto, e
proprio come un girovago dall'animo curioso non ci
furono ombre nello sguardo gentile nel quale Axel aveva tanto
temuto di cogliere la delusione e l’amarezza.
Ma non c'era niente, negli occhi di Aerith illuminati dal bagliore
delle fiamme.
Nessun rammarico, disprezzo, avversione, rancore, solo, una morbidezza
piena che ingentiliva l’aria e riscaldava il cuore.
- Così – continuò Aerith con l'aria di
chi si trovava a discorrere con vecchi amici che non vedeva da tempo e
non con due fuggitivi che avevano rifiuato il suo aiuto,
fuggitivi ancora troppo scossi dall'aria rilassata della
donna per riuscire a ritrovare una qualsivoglia compostezza
– volevate andar via senza neanche un saluto?
Abbassare la testa e mormorare un mortificato ‘scusa fu
un gesto istintivo per Roxas, il primo fra i due Nessuno a reagire
all’inaspettata ma piacevole apparizione, le spalle incurvate
in
una aperta dimostrazione di rimorso a cui Aerith rispose con una risata
leggera, abbozzando un paio di passi in avanti per poter guardare da
sotto le folte ciglia castane lo sguardo che per un attimo, solo un
attimo, Axel seppe di essere stato sul punto di diventare lucido prima
che un paio di battiti di ciglia ripulissero ogni traccia del sollievo
che gli aveva stretto la gola.
Ma, nonostante tutto, la bocca continuava ad essere impastata, la voce
troppo tremante da poter fare uscire e
il cuore troppo debole per potersi permettere altro
all’infuori
di quel fissare insistente che Axel sapeva, poteva risultare
sgradevole, uno
sguardo che si tinse di nuova ansia mentre il mento di Roxas scattava
verso l’alto quando una voce maschile, livida di rabbia, si
alzò nell’aria per chiamare la donna che in
silenzio li
fissava con un sorriso.
La donna dallo sguardo mite e dal sorriso leggero che, senza curarsi di
quelle voci insistenti, fece scivolare i palmi
morbidi e asciutti verso quelli sudati e gelidi delle due figure
bardate di nero che gentilmente strinse a sè per
tirarli verso
sinistra, imboccando una strada che Axel aveva scartato e che, nel
più completo silenzio, cominciarono a percorrere un
po’
alla volta.
Lentamente.
Come se ci fosse tutto il tempo del mondo.
Ed anche se non ne avevano, anche se il pericolo di essere scoperti era
ancora dietro l’angolo, e le voci scoccavano come
dardi sopra le loro teste,
tutto ciò che Axel riusciva a pensare era che, ancora una
volta,
Aerith aveva scelto di aiutarlo a dispetto di tutto.
Di ciò che avrebbero potuto dire i suoi compagni.
Di come fossero loro nel torto.
Di come crudelmente avessero tradito la sua fiducia infrangendo la
promessa di rimanere lì, con lei.
Perché?
La domanda premeva sulle sue labbra sigillate in una linea
secca,
ma per quante volte tentasse di emettere un suono, dalla bocca di Axel
usciva solo un verso rauco come se soffrisse di arsura.
Ma era solo commozione quella che gli grattava la gola e
appesantiva lo sguardo, una riconoscenza che Roxas non
riuscì a
tenere nascosta, aggrappandosi con forza alla mano fresca e
con
lo sguardo alla schiena sottile ad un passo di distanza da
loro.
Salda, sicura, e incrollabile come niente Axel e Roxas avessero mai
visto nella loro vita.
E fu forse per quel senso di protezione, per
quell’inaspettata
consapevolezza di non dover temere nulla, con lei, che si lasciarono
trascinare senza porre domande su dove li stesse portando,
perché, in cuor loro, Axel e Roxas conoscevano
già la
risposta.
Al sicuro.
Lo scricchiolio dei sassi sotto le suole e il flebile ululato del vento
accompagnò la loro lenta avanzata per una manciata di
minuti,
minuti nei quali le voci si erano fatti distanti, il buio un
po’
meno soffocante, e la sensazione di libertà un po’
più a portata di mano.
Una libertà che Axel e Roxas ritrovarono in uno spiazzo del
quale, per
un attimo, la parte più pragmatica del Nessuno dai capelli
rossi fu confusa, perchè non c'era mai stato
un posto simile ad Hollow Bastion, e lui lo sapeva, lo
ricordava,
ma quella era una voce fin troppo flebile per poter infrangere
l’improvvisa meraviglia di cui si colorarono gli occhi di
Roxas
quando le sue caviglie vennero sfiorate dagli steli di fiori.
Fiori che riempirono lo sguardo di Axel di incanto quando il
Nessuno tentò di abbracciare completamente quel luogo che
pareva
quasi irreale come un sogno ad occhi aperti.
- Attenti a non calpestare i fiori.
Axel ingoiò il grugnito e il commento al vetriolo che era
stato
sul punto di brontolare ma che cavallerescamente si
ostinò a ingoiare, preferendo non farle notare piccatamente
quanto irragionevole
fosse la sua richiesta dal momento che
ogni.dannato.centimetro quadrato era occupato da fiori, ma se Roxas
poteva farlo, allora anche lui poteva.
Con un grugnito incastrato in
gola, sì, ma poteva farlo anche lui. Si, ce la poteva fare.
Ce la fece. E quando Aerith si decise a fronteggiarli con ancora quel
sorriso leggero ad accarezzarle il volto, Axel strizzò gli
occhi
per impedire a se stesso di non mostrare il dispiacere che lo
assalì nel sentire la presa allentarsi attorno alla sua
mano,
cosa che Roxas non riuscì a fare, incurvando le labbra e
fissando insistentemente la donna che li scrutava tra le ciglia
con aria distratta e una luce di aspettativa in fondo al verde acceso
dell'iride.
- Che aspettate? Coraggio!
La sorpresa lampeggiò sui loro volti quando Aerith
agitò d'improvviso la mano nell’aria con
quell’incoraggiamento, un incoraggiamento che oltre a
prenderli alla sprovvista, entrambi faticarono a capire per
una buona manciata di minuti, trincerandosi in un attonito mutismo dal
quale faticarono a liberarsi.
La risata che d'improvviso vibrò nell’aria si
tramutò in una
nuova ondata di sorpresa per Axel che, seppur habitué delle
stranezze di quella stramba donna, ebbe l'ennesima
dimostrazione di quanto bizzarra e sconclusionata
potesse ancora essere Aerith.
- Oh avanti – li pungolò scherzosamente con il
gomito la donna,
agitando subito dopo le braccia in un ingarbugliamento di arti che
tentavano di ritrarre qualcosa, cosa, ancora Axel, faticava a
comprenderlo – è ora di fare quella cosa che fai
sempre, il ‘puff.
- Puff ? – le fece eco Roxas con aria perplessa, sbattendo le
palpebre con aria sconcentrata.
- Avete capito – tornò a ribadire la ragazza,
poggiandosi
una mano sul fianco e piegandosi leggermente in avanti per scutarli
negli occhi e bisbigliare alla stregua di un segreto
una
confidenza che fece sgranare gli occhi di entrambi all'unisono
– la barriera
magica non arriva fin qui, potete smaterializzarvi.
Il corpo reagì ancor prima che il cervello potesse
dare
l’ordine, e quando Axel vide la propria mano sfumare in una
nuvola di fumo si trovò a rialzare sul viso di Aerith uno
sguardo sorpreso che ben presto si costrinse a distogliere quando una
nuova assurda consapevolezza si fece strada in lui.
Li stava aiutando a
fuggire.
Il sorriso sul viso di Aerith si ammorbidì assieme allo
sguardo
quando la donna colse il guizzo nervoso nella mascella di Axel e il
lieve luccicore nello sguardo di Roxas, ma non vi era nulla di
straordinario in quello che stava facendo, nulla di eccezionale.
Stava
aiutando degli amici. Nulla di più.
Non stava facendo fuggire dei criminali.
Non stava tradendo la fiducia di Leon.
Non stava facendo nulla di sbagliato, solo, quello che sapeva, era
giusto fare.
Aiutare.
Non poteva che fare quello, per loro.
Dargli un po’ di tempo in più per pensare a cosa
volessero fare, a come desiderassero vivere.
Vivere.
Non sopravvivere.
Perché era quello che avrebbero fatto
fintanto che la paura, l’angoscia e l’ansia non
avessero
permesso loro di puntare i piedi e capire che non erano soli, che non
lo sarebbero mai stati.
Un pensiero che le carezzò la voce in un sussurro che, nel
silenzio della notte e nel gelo della sera, ebbe l’effetto di
una
scarica violenta negli occhi che d’improvviso Axel e Roxas
puntarono su di lei, sul suo sorriso leggero, sul suo sguardo
comprensivo e sul quella figura minuta dall’aria fragile ma
salda
come una montagna.
Un appiglio al quale istintivamente gli arti di Roxas si
allacciarono in una stretta goffa e disordinata mentre la spalla di
Aerith accoglieva il peso della fronte
che Axel premette ad occhi chiusi mentre quelli di Aerith si
incrinavano nel percepire un
lieve tremore scuotere le membra stanche di quei corpi magri
e
nervosi che ora sembravano così fragili contro il suo, come
quelli di un bambino spaventato.
E solo.
Roxas schiuse le palpebre che aveva serrato per trattenere le lacrime
quando sentì la mano di Aerith accarezzargli la testa
un’ultima volta prima che Axel si scostasse un poco per
incrociare lo sguardo verde e stringersi lui al fianco con un lieve
cenno del capo a sancire la separazione.
Quanto lunga, non stava a loro deciderlo, e forse, non volevano neanche
saperlo.
Eppure, c'era qualcosa che poteva ancora fare, una cosa in cui Axel
aveva perso fiducia ma che, per una volta, dopo tanto di quel tempo
passato a
lasciarsi condurre dagli eventi,si decise di
tornare a fare.
Di tornare a sperare.
°°°
Eroe.
Cosa significava davvero essere un eroe?
Cosa si doveva fare per diventarne uno?
Bastava davvero solo salvare qualche vita per esserlo?
No. Riku
chiarì il proprio dubbio con una convinzione e fermezza
tale da far sembrare la risposta data a se stesso il frutto
di un profondo
rancore nutrito verso il soggetto del quesito.
Ma non lo era.
La sua era, in realtà, una semplice constatazione, una presa
di coscienza che difficilmente avrebbe potuto mutare.
Perché il modo in cui la gente lo fissava non
sarebbe mai
cambiato, neanche, se avesse cominciato a fare l’eroe,
neanche se
avesse deciso di seguire le orme di Sora.
Sora che quando passava, calamitava su di sé sguardi bonari,
grati e alle volte, persino ammirati, mentre a lui, a lui toccava la
diffidenza, la paura e persino il sospetto.
Riku mantenne l’espressione granitica e impassibile quando
sentì gli occhi dell’anziana vecchia che aveva
appena
sorriso a Sora gravitare su di lui, uno sguardo scrutatore al quale
oramai si era abituato, avvezzo com’era a ricevere ben
più
che smorfie perplesse e guardinghe, ma l’anziana lo studiava
con
una tale meticolosità da fargli credere che forse, quella
vecchia non era poi così svampita come appariva.
E ne ebbe la conferma quando la vide aggrottare le sopracciglia in un
cipiglio serio mentre una frase a cui non diede voce ma forza con lo
sguardo arrivò fino a lui come una scudisciata in mezzo alle
scapole.
Sbagliato.
L’accusa di una vita.
Quanto sciocco era stato a pensare di aver lasciato l’ombra
delle
sue colpe in quel piccolo bagno profumato di fiori, quanto ingenuo e
patetico si era scoperto a tornare, ora che era adulto, ora che avrebbe
dovuto essere più forte, più duro, più
insensibile
a ciò che di lui veniva detto, ma la decisione era stata
presa,
la maschera era stata tolta e la volontà di non sembrare ma
di
essere lo portò a ignorare la donna e guardare Sora
scambiare
ancora qualche parola con Leon prima di partire.
Partire.
Riku non aveva voluto che quello.
Partire. Lontano. Scoprire mondi nuovi. Visitare luoghi sconosciuti.
Era tutto a portata di mano ora, non più il sogno di un
bambino
sognatore, non più il desiderio mai del tutto esaudito di un
ragazzino deluso, ma la reale e concreta possibilità che
tuttavia Riku aveva rifiutato.
Ironico.
La sua vita non faceva che tingersi di ironia ogni volta.
Poco tempo prima avrebbe dato di tutto per accompagnare Sora nei suoi
viaggi, salvare mondi, diventare un eroe, mentre invece, ora, tutto
ciò che voleva era rimanere fermo in un posto.
Era cambiato tutto.
Lui. Il suo modo di pensare. I suoi motivi per combattere, ed ora,
anche il suo desiderio più grande.
Scoprire. Sì, ma non più un mondo, non
più un posto lontano, ma una persona.
- Sei sicuro di non voler venire con me ?
La domanda giunse all’udito di Riku come un sussurro lontano,
perso com’era in pensieri che avevano fatto nascere
involontariamente sul suo viso un’espressione concentrata, ma
quando i suoi occhi si focalizzarono sull’aria dubbiosa di
Sora e
non più su un’immagine che inconsciamente si era
messo a
cercare nei ricordi, Riku si trovò a dare un cenno di
conferma
all’amico di una vita.
Un cenno sicuro come forse mai le sue decisioni erano state, e Sora,
che
conosceva la sua ostinazione nel raggiungimento di quanto prefissato,
non potè che incurvare le spalle con aria sconfitta prima di
sentire la mano salda di Riku stringergli la spalla mentre un sorriso a
labbra strette si apriva sul viso pallido del ragazzo.
- Ci rivedremo presto.
Tanto bastò a Sora per tornare a sorridere, ed anche in
quello,
Riku, trovò un motivo in più per
sottolineare la
differenza tra lui e Sora.
Tra l’eroe e l’anti-eroe.
Ma andava bene così, se lo ripetè mentre il viso
sorridente del suo migliore amico svaniva in un cono di luce, se lo
ricordò quando lo sguardo livido di Leon si puntò
su di
lui con la violenza di uno sparo quando il motivo della sua presenza
lì venne meno.
- Stai andando da lei?
Non ci fu bisogno di specificare a chi fosse riferito quel lei
ringhiato tra i denti, lo strascico di una rabbia che il soldato non
sembrava aver ancora digerito, non dopo ciò che
Aerith
aveva fatto la notte scorsa.
Quando, dopo l’infruttuosa caccia ai fuggitivi si erano
ritrovati tutti
nel laboratorio di Merlino per ragionare su una nuova
modalità
di ricerca e Aerith, da poco rientrata dal suo giro di perlustrazione,
aveva confessato candidamente di aver lasciato andare Axel e Roxas, la
rabbia di Leon non aveva fatto in tempo a manifestarsi in tutta la sua
devastante violenza che il ‘non
erano prigionieri di Aerith
aveva arginato il fiume di parole e la rabbia che l’uomo
aveva
ingoiato di fronte allo sguardo saldo della donna.
Occhi verdi capaci di tramortirti con la forza di quello
sguardo di vetro verde, una forza contro la quale Leon aveva dovuto
cedere, rinfoderando le domande e le maledizioni e trincerandosi dietro
un mutismo che, a detta di Aerith, sarebbe venuto non appena avesse
sbollito la rabbia.
Una rabbia che Leon non si faceva però problemi a sfogare su
di
lui ma che Riku faceva cozzare contro il proprio gelido disinteresse,
proprio come si decise a fare anche in quel momento, ignorando
l’aperto scontro che il soldato cercava per andare dalla
donna
per cui aveva deciso di restare.
Non fu difficile trovarla.
Yuffie lo aveva già informato sui posti in cui Aerith amava
soffermarsi a pensare.
E sebbene la ninja gli avesse dato modo, con
quell’informazione,
di sfoltire le numerose possibilità, Riku aveva avuto lo
strano istinto di cercare per primo il posto nella conca, lì
dove
Merlino gli aveva confessato che la sua allieva amava passare del tempo
con Axel.
Bastò il solo pensiero di quel nome a far nascere sul viso
di
Riku una smorfia mentre i suoi occhi mettevano a fuoco la
schiena di Aerith in lontananza e un ricordo richiamava alla
mente
l’irritante voce del Nessuno che lo aveva
disturbato
durante la sua lotta interiore nel bagno della casa.
“- Ehi fiore
di luna, il bagno
serve anche agli altri sai? Hai finito di metterti il rossetto o ti
serve altro tempo per farti le unghie?
Quando la porta si
aprì, lo
fece con uno schianto secco che fece sobbalzare Roxas ma non lui,
non l’uomo dalla chioma color fiamma che Riku si
trovò a fissare in cagnesco mentre Axel, quasi estraneo
all’aria tesa che cominciava a frizionare tra loro, si
trovava ad
allargare un sorriso scaltro ed ad aggirarlo per sistemarsi i capelli
con noncuranza guardando attraverso lo specchio, tra una sistemata ed
un sorriso scanzonato gli abiti che sembravano finalmente dare
un’età a quel ragazzino impertinente
prima che Riku,
accortosi di quel fastidioso e inopportuno scrutamento, lo
fulminasse con lo sguardo.
- Problemi?
–
soffiò malevolo il Nessuno, una mano corsa a lisciare con
accuratezza il collo della giacca che Aerith aveva ripescato da uno dei
bauli di quel vecchio strambo dal cappello a punta per dare a lui e
Roxas qualcosa da indossare.
Un verso di insofferenza
fu tutto
quello che Riku gli concesse prima di voltarsi ad osservare il Nessuno
di Sora e rifilargli una spallata per la quale Roxas si
trovò a
strizzare gli occhi prima che Axel lo fulminasse con
un’occhiata cattiva.
- Vedi di tenere il tuo
amico lontano
da Roxas e da me se non vuoi che si faccia
male– nella sua voce
Riku captò una scia di rancore fin troppo violento
per non farlo reagire, per non farlo ruggire.
- Sarai tu quello a
farsi male, invece, se non smetti di mostrarti così ingrato.
– lo riprese con un sibilo.
- Ingrato? –
ringhiò il Nessuno, ruotando il busto per mettere a
fuoco il profilo
affilato del ragazzo dai capelli di argento
– Io? E
per quale motivo sarei un ingrato?
Riku fece forza sul suo
buon senso
per non metter mano alle armi, le labbra agitate da un ringhio che si
costrinse a rigettare in fondo alla gola assieme a parole che avrebbero
acceso la miccia di una tensione che faticava a ignorare.
- Perché
hai ancora una voce per parlare.
Credere davvero di non
stracciare il
filo sul quale entrambi si erano trovati a fare i trampolieri era stato
sciocco, era stato inutile, ma quando i loro corpi si tesero come archi
pronti a scoccare frecce avvelenate ci fu un muro a franare loro in
mezzo, una barriera umana che Roxas rappresentò nello
scivolare
di fianco al compagno, afferrandogli l’avambraccio e
frapponendosi tra loro con sguardo serio.
- Levati di mezzo
– gli
ringhiò contro Riku in un eccesso d’ira, la mano
libera
dall'arma corsa ad afferrare il polso che il Nessuno di Sora gli
lasciò prendere, ma solo per averlo tanto vicino da poterlo
guardare negli occhi e fargli leggere
l’irreprensibilità
del suo gesto, l’irremovibilità del suo cuore.
- Aerith non ne sarebbe
felice se venisse a sapere quello che stavate per fare.
Axel lo
liberò dalla presa
ferrea di Riku con uno scrollo nervoso del braccio, scortando il
compagno sul primo gradino sul quale lui si fermò
mentre
Roxas lo precedeva nella discesa delle scale e Riku rimaneva indietro,
lo sguardo proiettato in avanti ma la mente rimasta indietro, in quel
bagno stretto dal grazioso lavabo rosa dal quale si decise a
distogliere lo sguardo poco prima calato nuovamente quando lo
udì parlare.
- Non esistono solo gli
eroi in
questo mondo, tu per primo sai che dall’altra parte della
barricata ci sono persone di cui non importa a nessuno – lo
sentì sussurrare come se avesse paura di alzare la voce, di
rendere altri coscienti della sua presenza – e sai che quando
la
morte tocca chi si trova dall’altro lato questa
conta poco
più di una goccia d’acqua gettata in un oceano,
per questo
non devo niente, né a te, né al vostro salvatore
dei
mondi. Se anche noi morissimo, se svanissimo da un momento
all’altro voi non ve ne rendereste neanche conto, non ve ne
accorgereste.
Perché non
siamo eroi, non
siamo indispensabili, non siamo i protagonisti, siamo solo delle ombre
di passaggio, e nessuno piangerebbe per delle ombre.
E fu su
quell’ultima parola, su
quella più breve ed intensa emissione di fiato che Riku si
voltò per incrociare gli occhi che in silenzio lo fissavano,
ricordandogli una cosa che lui sembrava dimenticare troppo
spesso.
- E perché
non è stato lui, a salvarci.
L’asse
scricchiolò
rumorosamente prima che il Nessuno svanisse oltre il primo scalino, una
scia di vento freddo che spirava d’improvviso, ecco cosa
sarebbero stati loro, cosa sarebbe stato lui.
Una brezza di passaggio,
un tocco che
sarebbe durato un battito di ciglia, troppo poco per venire ricordato,
visto come più di quello che era.
Un viso, un nome,
un’ombra che con il tempo sarebbe sbiadita fino a scomparire.
Perché lui
non era
l’eroe, lui non sarebbe divenuto qualcuno di cui il mondo
avrebbe
sentito la mancanza, ma sarebbe rimasto un ragazzo sperduto in un mondo
di tenebre che lo aveva inghiottito, che lo aveva mangiato fino a non
lasciare nulla se non ossa e il sentore della paura.
Un mondo dal quale Riku,
nel
discendere le scale e nell’incrociare a metà di
queste lo
sguardo sollevato del custode del Keyblade, si ricordò di
non
essere stato salvato da Sora.
Quando Riku riaprì gli occhi socchiusi per meglio
focalizzare il
ricordo ciò che trovò di fronte lo
portò ad
aggrottare le sopracciglia con una nota di confusione quando Aerith
entrò completamente nel suo campo visivo.
Gli stava di profilo, con la lunga treccia abbandonata in grembo alla
cui fine il ragazzo riconobbe con un certo imbarazzo la propria benda,
ma dal modo in cui teneva le palpebre leggermente socchiuse e il viso
reclinato di lato non pareva essersi accorta di lui.
Bizzarro, ma la sua attuale distrazione gli diede modo di scrutare un
po’ più approfonditamente la donna che gli stava
davanti
con un’aria che per un attimo gli parve malinconica, e triste.
Riku non capì perché la sua mente scelse proprio
quell’aggettivo, ma c’era qualcosa di profondamente
triste
nel profilo di Aerith, come se vi fosse un velo a dividerla dal mondo
che in quel momento non sembrava vedere.
Era una persona misteriosa, Aerith.
E avventata, alle volte.
Quello Riku lo aveva pensato fin da bambino, dal modo curioso e quasi
ingenuo con il quale la donna approcciasse gli
sconosciuti, dal suo modo innocente di sorridere a chiunque,
persino a lui.
All’inizio aveva scambiato
l’impavido
comportamento della giovane come ingenua curiosità, benevole
ignoranza, ma Aerith sembrava capire più di quanto desse a
vedere.
Era solo una sensazione quella di Riku, ma qualcosa gli diceva che il
più delle volte, quando Axel o Leon provavano ad attirarne
l’attenzione, lei stesse ascoltando altre persone oltre a
loro,
quasi ci fossero altre creature con le quali dialogare.
Persino in quel momento Aerith sembrava ascoltare
pazientemente
il racconto di un fantasma, perché non c’era nulla
davanti
a lei, nulla se non un una conca di terra e sabbia e il vento a
soffiarle nei capelli.
E il vento non parlava. Non in quel mondo. E non con gli esseri umani.
Fu dunque per istinto più che per un vero e
proprio desiderio di
farsi notare che Riku la chiamò, così da
strapparle dal
viso quell’espressione malinconica e non sentirla
così
distante, così lontana da lui.
Troppo lontana per poterlo sopportare.
- Aerith ?
Un piccolo sussulto scosse il profilo immobile della fioraia a quel
richiamo, e per un
attimo Riku si maledì per averla spaventata, ma quando,
sbattendo un
paio di volte le palpebre come a riprendersi da un sogno, Aerith si
voltò a guardarlo con un velo di sorpresa ad accenderle lo
sguardo, il ragazzo scacciò il rammarico per sorriderle a
labbra strette.
- Ho deciso di rimanere.
La sua era stata una constatazione alquanto sciocca, come se Aerith non
potesse vederlo lo rimproverò la propria
coscienza,
come se non lo avesse intuito dalla sua presenza
lì, e per un attimo Riku si trovò a maledire se
stesso e
quella goffagine che lo assaliva proprio di fronte a lei,
ridicolizzandolo, lei che però si
limitò a sorridergli conciliante e con quella che
intuì e
in cuor suo sperò essere sollievo, prima di tornare a
rimirare
il cielo con le mani unite abbandonate in grembo.
- Scusami se non ti ho risposto prima, una vecchia abitudine
– la
sentì sussurrare sofficemente tra sè e
sè, picchiettando la mano
sul posto vacante accanto al suo che Riku guardò incerto
prima di
osservare il suo profilo e decidersi con un sospiro a sederle di fianco.
Rimasero in silenzio per quelle che gli parvero ore, ma quello fu un
silenzio che a Riku trasmise quiete e pace, tanto che si
trovò a sua volta a chiudere gli occhi e ascoltare il vento
come
Aerith, nella speranza, magari, di capirla un po’ di
più e
svelare il mistero che si celava dietro quello sguardo che, qualche
volta, si colorava di tristezza.
Strano come il solo respirare potesse trasmettergli una
simile tranquillità, a quanto calmante fosse
inspirare,
espirare.
Dentro. Fuori.
Dentro. Fuori.
- Riku?
Sentirsi chiamare per nome fu più destabilizzante di quanto
mai
avesse creduto, e fu per puro orgoglio che Riku non si voltò
a
guardarla, costringendosi a tenere le palpebre chiuse per impedirsi di
mostrare l’evidente sgranarsi delle pupille che gli
avrebbe
dato le sembianze di un bambino spaventato, e lui, lui non voleva
essere più un bambino.
- Hmm.
La sentì sorridere.
Un pensiero bizzarro il suo, perché il sorriso non faceva
rumore,
eppure, anche a palpebre chiuse, Riku potè giurare
di aver
sentito un sorriso increspare le labbra di Aerith che, a sua insaputa,
stava ammirando il profilo tagliente del suo viso che
con il rosso accesso del tramonto come sfondo sembrava capace
di fendere il cielo.
- Sono contenta che tu sia rimasto.
Un tremore nelle dita.
Riku riuscì a catalizzare la sorpresa, l’emozione
e il
turbamento in quel semplice e all’apparenza naturale reazione
al
freddo della sera mentre sentiva levitare su di sé lo
sguardo di Aerith,
penetrante e probabilmente bellissimo con le luci delle prime stelle a
illuminarle il viso, ma quello se lo tenne per sè,
aspettando di
sentirla muoversi per tornare a guardare in alto il cielo che da
bambino lui aveva fissato con meraviglia chiedendosi se fosse lo stesso
in ogni parte del mondo.
Un cielo che i suoi occhi sbirciarono da sotto le ciglia grigie,
trovando la risposta a quella vecchia e sciocca
domanda rivolta al vuoto nel silenzio della sua stanza.
Perché quello, quello era il cielo più bello che
avesse mai
visto, ma anche quello, se lo tenne per sé, tornando a
chiudere
le palpebre e a tacere assieme al breve luccicore negli occhi
quell’anche io
che il sole morente portò via con sé
assieme al suo sospiro di sollievo.
Continua…
In ritardo, tremendo ritardo, ma l’ispirazione è
una
bestia rara che poche volte, se si è fortunati, si riesce ad
imbrigliare e la mia nell’ultimo periodo mi ha rifuggito come
la
peste.
Ringrazio chi ancora, nonostante la lunga pausa tra un capitolo e
l’altro, continua ad interessarsi e a leggere la storia.
Dedico questo capitolo alla gentilissima Kelloggs Snowflakes
che
ringrazio con un inchino per il commento e per i complimenti, davvero,
grazie infinite.
Un saluto,
Hagne
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