Fandom:
Doctor Who
Rating:
giallo
Genere: Sentimentale,
angst, fluff
Tipo
di coppia: Slash
Personaggi: Doctor
– 12; Master – Missy; Doctor – 10; Master
– Simm; Doctor – Theta Sigma; Master –
Koschei
Canzone:
nei giardini che nessuno sa – Laura Pausini. Da ascoltare A S
S O L U T A M E N T E
Note: vi
presento questa piccola Doctor/ Master senza pretese, di
3.057 parole colme di angst con qualche stilla di fluff. La prima volta
che pensai ad una fic di questo genere avevo
l’intenzione di fare un missing moment ai tempi
dell’accademia. Poi però mi resi conto che ce
n’erano troppe, davvero troppe. Così mi
è venuta in mente questa. Un sentimento unico vissuto
attraverso tre loro diverse rigenerazioni. Spero che vi piaccia, anche
perché è la prima volta che scrivo una cosa del
genere.
Timeline: pre Last
Christmas, post 8 x 12
Disclaimer: Doctor Who
non mi appartiene, e non ci ricavo niente scrivendoci sopra –
al massimo qualche pomodoro marcio per la schifezza che ho scritto.
Beta: Evil Devil,
anche se non ama particolarmente lo Slash
Ringraziamenti:
grazie ad Evil Devil, che sopporta tutti i miei scleri e che ogni volta
che le propongo una nuova fusissima idea mi appoggia senza se
e senza ma; grazie alla ragazza che incontrai sull’autobus
– che forse non è nemmeno su EFP, ma io ci provo
– e alla piacevole chiacchierata sul fatto che Moffat non
aveva bisogno di far diventare il Maestro una donna per rendere Canon
questa coppia.
Nei
Giardini che Nessuno Sa
Erano
amici da tempo immemore, più di novecento anni. Entrambi si
ricordavano bene quel giorno in cui la loro amicizia si
trasformò in qualcos’altro, un sentimento
più forte e più esigente, che li aveva pian piano
trascinati in un vortice di amore e sofferenza, che aveva portato con
sé ogni conseguenza. Tutto ciò che era venuto
dopo era stata una conseguenza più o meno indiretta di quel
sentimento che brillava come una gigante blu. E, ogni volta che si
guardavano dopo tutti quegli anni passati lontano, ricordavano quel
giorno, quando tutto era cominciato, su un prato di erba rossa. E ora
il Dottore, con il TARDIS lasciato alla deriva nello spazio,
lì dove un tempo c’era stato Gallifrey, si
chiedeva il perché di quella bugia. Eppure lei sapeva che
gli avrebbe spezzato i cuori, che così facendo
l’avrebbe distrutto pezzo per pezzo, eppure non se
n’era curata.
“La
tua ultima vittoria, Maestro, perché tu hai sempre cercato
di essere un passo avanti a me. E questa volta ci sei
riuscito”, continuava a parlare di lui al maschile,
perfettamente conscio del fatto che per lui sarebbe sempre stato un
ragazzo dai capelli neri e gli occhi di ghiaccio, quello con cui era
cresciuto. Perché ogni volta che posava lo sguardo su di lui
lo rivedeva da giovane, quando entrambi andavano ancora
all’Accademia e lui era un ragazzo con poca voglia di passar
gli anni sui libri e con un’incredibile passione per i
terrestri. A quel tempo capiva veramente poco di quel sentimento che
veniva chiamato amore, troppo ansioso di vedere posti nuovi e correre,
correre fino a sentire i polmoni bruciare, correre fino a lasciar
volare via i propri pensieri con il vento che gli accarezzava il viso.
Correre con lui. Lo amava con tutto se stesso e non lo sapeva nemmeno,
sapeva solo che quando lo aveva al suo fianco si sentiva bene, era
felice e tutto gli sembrava apposto, come se stare l’uno al
fianco dell’altro fosse l’unica cosa importante.
Erano due facce della stessa medaglia, la luce e il buio, sempre in
equilibrio sull’orlo dell’abisso, consapevoli che
una sola parola sbagliata li avrebbe fatti cadere
inesorabilmente giù, portando con loro tutti quegli anni di
perfezione assoluta, che si sarebbero trasformati in polvere
trasportata dal vento, un eco lontano di un passato irraggiungibile.
Perché quei ricordi erano lì, sempre presenti e
vivi, che gli ricordavano il suo primo amore e il suo fallimento. Gli
aveva promesso una vita piena di felicità, ma non aveva
fatto altro che accelerare l’avanzata
dell’oscurità che aveva preso possesso dei suoi
cuori, li aveva consumati, trasformando tutti i meravigliosi sentimenti
dentro di lui in rabbia, sete di conquiste e pazzia. Ancora il Dottore
si chiedeva come i Signori del Tempo avessero potuto fargli questo,
trasformare un ragazzino senza colpe in un pazzo assassino.
Perché era questo ciò che gli avevano fatto. Solo
per salvarsi, sapendo bene che lui non avrebbe mai permesso, che li
avrebbe fermati a qualunque costo.
E a quel
punto, quando i suoi pensieri andarono a quella rigenerazione, a quella
versione del Maestro che si era sacrificato per lui, per la sua amata
terra, non poté far altro che pensare all’Anno Che
Non Era Mai Stato.
Si
lasciò cadere sul pavimento, la schiena appoggiata alla
consolle, gli occhi chiusi e qualche lacrima che cercava di uscire.
Ancora non si era permesso di piangere per la sua morte, quasi certo
che sarebbe tornata con qualche altro dei suoi stratagemmi una volta
scoperto il suo inganno, ma ancora non l’aveva vista, e aveva
paura che non l’avrebbe mai più fatto. E faceva
male. Così male che pensava di non reggere ancora. Il sapore
di lei ancora sulle labbra, in ricordo di quei meravigliosi baci che si
erano scambiati, il battito dei suoi due cuori ancora nelle
orecchie e sotto le sue dita. Appoggiò la testa alla
consolle e si lasciò trasportare dei ricordi, fino ad andare
in un’altra vita...
Un solo
giorno era trascorso da quando Martha si era teletrasportata, un giorno
che era sembrato un’eternità.
“Allora!”,
esclamò il Maestro, da solo con il Dottore nella sala
principale, “Ora io e te ce ne andiamo in un
posto!”, gli disse con fare misterioso, dopo aver preso il
controllo della carrozzella dove l’aveva messo. Si sentiva in
sua balia, come non lo era da anni, e questo lo disorientava. Il
Maestro aveva sempre amato avere il controllo, e anche questa sua
rigenerazione non lo smentiva. Perché anche quando sei un
Signore del Tempo e puoi rigenerarti, alcune cose del tuo carattere
rimangono uguali. Così come lui era sempre volto ad aiutare
le persone, e si faceva in quattro pur di non arrendersi, allo stesso
modo il Maestro era sempre quello che tramava alle spalle degli altri e
che voleva avere la situazione sotto controllo.
I due
fecero un percorso strano, verso un’ala della portaerei
Valiant che il Dottore non aveva mai visto. Si fermarono solo quando
giunsero davanti ad una porta di metallo che era sigillata con una
serratura ad impronte digitali. “Dietro questa porta
custodisco un segreto, e vorrei condividerlo con qualcuno”,
il Maestro prese il cacciavite laser dalla tasca e lo puntò
sul Dottore, “ma preferirei farlo con la versione
più giovane di te.”, detto questo, gli
puntò il cacciavite contro, premette un pulsante e gli tolse
quegli anni in più che gli aveva dato.
Il
Dottore si alzò dalla sedia a rotelle, ma prima che potesse
emettere un fiato, il Maestro gli mise al polso due grossi e pesanti
bracciali di metallo. “Perché?”, chiese
solo il Dottore con tono sconvolto.
“Un
modo per impedirti di scappare”, disse giocando con il suo
cacciavite, “Mettiamo, ad esempio, che tu decida di scappare,
io farei semplicemente così”, premette un pulsante
del cacciavite e il Dottore si piegò subito in due dal
dolore, cercando di togliersi quei cosi, i quali gli avevano appena
dato una fortissima scarica elettrica, “e ti prendi la
scossa, in questo modo tutti i tuoi tentativi di fuga sono stroncati
sul nascere.” Il Maestro mise la mano sulla serratura,
facendola scattare. Quando la porta si aprì, ciò
che era celato al suo interno scosse il Dottore così
profondamente da farlo rimanere senza fiato e fargli accelerare i
battiti cardiaci: davanti a lui si estendeva a perdita
d’occhio un prato di erba rossa come il fuoco, immersa in una
stabile immobilità, e per un attimo il Dottore credette che
ad ingannare i suoi occhi fosse un ologramma, creato proprio per
confondergli le idee. Eppure, guardando l’erba, gli sembrava
vera, perfetta persino in quella particolare tonalità di
rosso che caratterizzava il suo amato pianeta natio. Fece qualche
passo, senza nemmeno accorgersi che la porta di metallo si era chiusa
alle loro spalle, e si lasciò cadere sul prato; non appena le
sue mani sfiorarono con delicatezza quei morbidi steli i suoi sensi gli
rivelarono che quello non era affatto un ologramma. L’arte e la scienza
dei Signori del Tempo, più grande all’interno,
pensò il Dottore, per una volta a corto di parole. Sentiva
gli occhi pizzicare, le lacrime che rischiavano di assalirlo,
perché anche questa volta il suo migliore amico aveva
trovato il modo di distruggerlo sul piano emotivo senza veramente far
nulla; questo era il grande potere che il Maestro aveva su di lui.
“Ho
nascosto questa stanza, non è presente nemmeno nei progetti
originali”, la voce del Maestro interruppe il silenzio
assordante ce c’era in quel luogo. Il Dottore si diede un
contegno e lo guardò negli occhi, rivedendo per un attimo
quel sentimento che avevano condiviso balenargli nello sguardo, per poi
sparire di nuovo, celato dietro una maschera di indifferenza. Il
Dottore non ebbe nemmeno bisogno di chiedere perché?
Perché hai fatto tutto questo?, la risposta
l’aveva già intuita. Anche chiedere come? sarebbe
stato inutile, come forse qualsiasi vera parola scambiata con la voce.
Gli si avvicinò, più di quanto avesse mai fatto
da quando avevano deciso che tutto doveva finire, e lo portò
giù, su quell’erba rossa che, quando era mossa dal
vento, sembrava magma incandescente. Il Maestro, Harold Saxon, il Primo
Ministro inglese, si sciolse tra le sue braccia. Non disse nemmeno una
parola mentre si faceva portare sull’erba. Ogni parola era
futile.
Ed eccoli
lì, nella stessa posizione che assumevano da giovani, come
se tutto ciò che c’era stato prima, che li aveva
divisi fosse stato cancellato in nome di qualcosa di più
grande. Seguendo l’istinto i due Signori del Tempo si
avvicinarono, fino a quando le loro fronti non si toccarono, e i loro
pensieri non divennero condivisi. Nessuno dei due si sorprese quando si
accorse che l’altro stava pensando a quel giorno, quel giorno
in cui tutto era cambiato.
Due
ragazzi, forse addirittura adulti per alcune culture, ma ancora dei
bambini per la loro secolare razza, correvano su di un prato di erba
rossa. Andavano incontro ad uno dei due soli del pianeta, che andava
tramontando, facendo scendere la notte sui Gallifrey. Entrambi erano
ormai senza fiato, e uno dei due, con i capelli neri e gli occhi di
puro ghiaccio, si fermò.
“Basta
Theta, non riesco a starti dietro.” Disse,
buttandosi per terra. Ebbe un morbido atterraggio, i fili d'erba gli
solleticavano il collo lasciato scoperto dalla tunica rossa che
indossava.
“Questo
perché nessuno mi batte nella corsa Koschei, nemmeno
tu.” Disse l'altro, battendosi una mano sul petto e
passandosi l’altra tra i folti capelli biondi, un sorriso
comparve sul suo volto, facendolo sembrare ancora più
bambino di quanto non fosse in realtà. Gli occhi
marroni pieni di curiosità e voglia di vivere
erano spalancati sul mondo.
“Sai
in cos'altro non ti batte nessuno?”
“In
cosa?”, Theta era certo che l'amico gli avrebbe risposto in
maniera sarcastica, lo conosceva fin troppo bene.
“In
quanto ad ego. Superi persino me, e non è cosa da
poco.”
“Molto
divertente, davvero, Kosh.”
L'altro
rise di quel suo tono scocciato. E mentre lo faceva, sicuramente nella
sua testa folle, governata dal rumore dei tamburi, non
sarebbe neanche passata per l'anticamera del cervello l'idea che Theta
si potesse vendicare, cosa che effettivamente fece. Si buttò
sopra di lui e gli mozzò il respiro; ma la cosa
più brutta fu che cominciò a fargli il solletico.
“Sei
insopportabile, veramente infantile!”
Riuscì a dire Koschei tra le risate, non senza fatica.
Quando
entrambi rimasero senza fiato, il Dottore si
sdraiò accanto a lui, con il petto che si alzava e abbassava
al ritmo forsennato dei suoi due cuori.
I
due erano veramente vicini, sdraiati su un fianco con le mani
quasi unite e le fronti in contatto per lasciare aperto il legame
telepatico. Per i Signori del Tempo era normale entrare nella mente
degli altri, passeggiare attraverso i ricordi di altre specie, ma se a
connettersi erano due Signori del Tempo era tutta un'altra storia.
Comunicavano, scambiavano pensieri e immagini. Molte persone
erano restie a far entrare nella propria mente qualcuno che non fosse
la persona che amavano, perché comunicare in quel
modo era talmente intimo che solo con una persona amata era
giustificabile. Koschei e Theta, invece, non avevano mai avuto problemi
di questo tipo, comunicavano così da neanche loro sapevano
quanto. Ormai era routine.
I
due ragazzi avevano stampato in volto lo stesso sorriso felice e
spensierato. O almeno, questo era ciò che
succedeva di solito; quel giorno Koschei aveva lo sguardo perso nel
vuoto, ricolmo di tristezza.
“Che
hai oggi Kosh?”
“Niente
Theta, non preoccuparti.”, facile più a
dirsi che a farsi, pensò Theta, che invece era ancora
più preoccupato.
“Certo,
ora che mi hai detto di stare tranquillo mi sono messo l'anima in
pace, come no.”, gli disse, con la voce che
traboccava di sarcasmo.
Koschei
sospirò e si girò dall'altro lato. Non poteva
sopportare ancora quella conversazione, perché se c'era
qualcosa che aveva imparato in tutti quegli anni, era che Theta, il
Dottore, otteneva sempre quello che voleva. E
proprio non poteva dirgli cosa gli stesse passando per la mente.
È mai possibile, pensò il giovane
Gallifreyano, che io provi qualcosa per quello che dovrebbe
essere il mio migliore amico? Io mi sono innamorato di Theta... ma non
potrò mai dirglielo. E forse il ragazzo che aveva scelto
come suo nome "il Maestro" avrebbe potuto continuare a fare
elucubrazioni di quel tipo, se il rumore, il rullo di tamburi, che
sentiva nella sua testa non avesse cominciato ad essere più
forte, facendogli male, oscurando ogni suo razionale pensiero. Koschei
si portò le mani alla testa, un dolore lancinante
gli mozzava il respiro, e alcune lacrime minacciavano di uscire dai
suoi occhi offuscati dalla follia.
Theta,
che come nome aveva scelto "il Dottore", lo strinse tra le braccia come
era solito fare in quelle situazioni, aspettando che
passasse. Se era preoccupato non lo diede a vedere, si
limitò a chiudere gli occhi con un sospiro. Lo strinse
ancora più forte per sentirlo vicino, perché
quelli erano gli unici momenti in cui il suo amico, schivo e che
detestava i contatti di affetto gratuiti, era fragile e aveva bisogno
di quel contatto. Non voleva approfittare di quella sua debolezza,
eppure non poteva proprio farne a meno. Il Dottore amava sentirlo
vicino, sentire i loro corpi che combaciavano, le farfalle che vagavano
nel suo stomaco in subbuglio. Sapeva bene che cosa era ciò
che sentiva, ma non ne parlava mai.
Il
Maestro, dopo qualche minuto, si rilassò tra le sue braccia:
i tamburi avevano ricominciato a suonare a una velocità
normale nella sua testa. Li sentiva da quando aveva guardato nello
Scisma Incontrollato, risuonavano nella sua mente,
non smettevano mai, scandivano il ritmo della sua vita. E ancora lui
non sapeva cosa gli avrebbero causato: una vita schiavo
dell'oscurità che albergava dentro di lui. Quei tamburi
preannunciavano tempi di guerra, sofferenza, morte.
I
due ragazzi rimasero stretti in quell'abbraccio che diceva tutto e
niente, ai confini di quello che era il loro universo privato.
'È
il momento' pensò il Dottore 'ora o mai più'. Si
prese di coraggio e premette le labbra sulle sue. Dentro di lui
scoppiarono i fuochi d’artificio, e cominciò a
sentire le gambe deboli: se fosse stato in piedi sarebbe certamente
caduto. Il suo primo bacio, il primo bacio di tutte le sue vite. E
l'aveva donato a colui che doveva essere il suo migliore amico.
Il
Maestro, dal canto suo, rimase paralizzato per qualche attimo
prima di capire bene cosa stava succedendo. E quando se ne rese
conto, il suo istinto, qualcosa di animalesco
dentro di lui, gli disse di approfondire quel bacio. E lo fece. Se
prima di quel giorno qualcuno gli avesse detto che avrebbe
donato il suo primo bacio a Theta probabilmente gli avrebbe riso in
faccia, piegandosi a metà per non far vedere quanto fosse
arrossito. E se quel qualcuno gli avesse anche detto che a fare il
primo passo sarebbe stato proprio l'altro era certo che sarebbe svenuto
dalle risate. Perchè Theta era quello che, non
riuscendo a baciare una ragazza, la mollava per poi chiudersi in stanza
a costruire un nuovo cacciavite sonico. E di certo non era un tipo che
faceva la prima mossa, eppure eccoli qua, che si donavano completamente
l’uno all’altro.
Amore. Si
amavano così tanto che dopo quel gesto niente
cambiò, tutto rimase uguale, e allo stesso tempo
cambiò inesorabilmente. Tutti quei baci rubati, notti che
sarebbero rimaste sempre nei loro cuori, bloccate nei ricordi di quel
periodo meraviglioso che avevano passato insieme. Quando la
felicità era qualcosa che si assaporava nell’aria,
e che si dava per scontata. Adesso, invece, era tutto diverso, ed
entrambi lo sapevano bene.
“Sembrava
tutto così facile”, disse il Dottore,
interrompendo il silenzio.
Il
Maestro gli fece uno di quei sorrisi malinconici, per sostituirlo
subito dopo con un ghigno. “Ma lo è anche
adesso”, e unì le loro labbra, spinto da quel
desiderio crescente che bruciava come fuoco nel suo petto. Il Dottore
si lasciò trasportare, sapendo che poi ne avrebbe sofferto,
perché il senso di colpa l’avrebbe colpito come
una frusta dritto in viso. Per una volta aveva gettato la maschera,
rivelando di nuovo quel lato di lui dolce e fragile.
Si
separano dopo un tempo inquantificabile, ore, minuti, secondi. Niente
aveva più importanza. Erano di nuovo in quel loro
meraviglioso universo privato. Non esisteva più la guerra,
la sofferenza, la morte, i tamburi. Solo il Maestro e il Dottore,
sempre e per sempre. Non si sarebbero mai lasciati, nemmeno se a
dividerli ci fosse stato un campo di battaglia colmo di sangue e corpi,
sarebbero comunque rimasti connessi da un filo. Ed entrambi
ne erano coscienti.
“Non
ci provare.”, gli disse il Maestro, avendo sentito uno dei
suoi pensieri. “Anche se mi implorerai non
smetterò di fare quello che sto facendo”,
sussurrò tagliente nel suo orecchio.
“E
allora perché tutto questo?”
“Per
capire se qualcosa è rimasto.”
Il
Dottore si separò da lui, interrompendo anche il contatto
tra le loro menti.
Allora il
Maestro sorrise con cattiveria e si alzò, sistemandosi
meglio la giacca. “Alzati.” Ordinò
perentorio. Quando il Dottore lo guardò alzando un
sopracciglio con fare scettico, premette il pulsante del cacciavite,
dandogli di nuovo la scossa.
Violenza,
sempre violenza e dolore. Non gli aveva portato altro da quando lo
aveva perso, da quando era impazzito davvero, eppure lo amava ancora,
forse non avrebbe smesso mai. Era una delle tante cose che si
rimproverava: di essere sempre convinto che chiunque aveva la
possibilità di redimersi. Era sempre stato un inguaribile
ottimista.
Lo
portò ogni giorno in quella stanza, momenti rubati dove
dimenticavano tutto, e farlo, anche solo per poco, li faceva sentire
più leggeri. Ma, appena varcata di nuovo quella soglia, il
Maestro lo faceva di nuovo invecchiare e tornavano ad essere i nemici
che tutti conoscevano. Continuarono così fino a quel giorno,
quando il Dottore tornò ad essere di nuovo solo. Si era
sentito come se un altro pezzo di sé se ne andasse per non
tornare più. Di nuovo. Soffriva, ancora, e ancora. Forse non
avrebbe smesso mai di farlo.
Il
pensieri del Dottore vennero interrotti dal suono di qualcuno che
bussava alla porta del suo TARDIS. Non sapeva chi potesse essere a
bussare in mezzo allo spazio profondo, ma gliene fu immensamente grato.
Se avesse continuato a rivangare il passato sarebbe impazzito
definitivamente. E ciò che vide una volta aperte le porte,
gli fece pensare che forse era già successo.
Perché
Babbo Natale non esiste...!
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