14.23

di madelifje
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Titolo: 14.23
Autore: idkrugens sul forum - madelifje 
Fandom:
Doctor Who
Carte pescate: Fiori: 5♣ e 8♣, 3fiches❂, Doppia coppia
Tipologia + numero di parole: OS 2.065 parole 
Personaggi:
Ten, Donna Noble, Rose Tyler, Jack Harkness
Genere: Angst, Romantico, Introspettivo
Rating: arancione
Avvertimenti: Missing Moment 4 stagione
Introduzione: "Sulla Terra si dice che ciò che succede a Las Vegas deve restare a Las Vegas.
Chissà, magari vale lo stesso anche per il pianeta Gamble."

Note dell'autore: Non saprei bene come definirla, questa storia. Nel bando del concorso si parlava di storie sul poker ma che non avessero il gioco come tema portante. Diciamo che mi sono basata molto su questo punto, perché mi era venuta fin da subito questa idea ed ero davvero curiosa di portarla avanti. Spero che vi piaccia e che ci capiate qualcosa ahaha non voglio aggiungere altro per non fare spoiler  

 
 

14.23


I’ll give you everything I have. 
I’ll teach you everything I know. 
I promise I’ll do better. 
I will always hold you close, 
But I will learn to let you go.
[Sleeping at last - Light] 
 


C’è la neve.
“Tanto non attacca” hai detto poco fa, quando i primi fiocchi sono caduti dal cielo.
“Attacca, attacca” è stata la risposta.
Tanto per cambiare, aveva ragione lei.
State correndo per le strade innevate, scivolando, pestandovi i piedi, scontrandovi e stando così vicini che mancherebbe davvero tanto così per, ma poi ricominciate a correre. Non sapete neanche perché. Dopotutto, avete letteralmente tutto il tempo del mondo.
Lei ti tiene l’avambraccio. Non ha paura di scivolare – questa ragazza non ha paura di niente – però la sua mano è lì, ed è così calda, ed è così bello, e non ti sei mai sentito così disgustosamente felice in tutta la tua lunga vita.
Vi fermate in una piazzetta. Non c’è in giro nessuno, solo voi e un solitario lampione che illumina questa gelida notte parigina. Vi fermate uno di fronte all’altra. Lei ha il naso arrossato dal freddo e la bocca increspata in un sorriso. Ti sta guardando. C’è così tanto in quegli occhi scuri che sai che le doneresti il mondo, se solo potessi. Di fatto non puoi, ma stasera ci vuoi andare vicino.
“Ti porto all’Opera.”
“Adesso?! Ma non abbiamo neanche i biglietti!”
“In tutto questo tempo non hai imparato niente?”
“Ho imparato, Dottore. Mal che vada, ci butteranno fuori.”
“Allora allons-y!”
Allons-y!”
“Sai, vorrei incontrare qualcuno che si chiama Alonso-”
“…Solo per poter dire ‘allons-y, Alonso!’”
“Vedi che qualcosa hai imparato?”
 
 
 
 
«Ed eccoci qua!»
La bocca le si spalancò così tanto, che il Dottore si chiese come avesse fatto a non slogarsi la mandibola.
Era facile far felice Donna Noble.
Correva l’anno 3789 sul pianeta Gamble e una strana coppia aliena era appena stata catapultata nel bel mezzo di una nottata afosa.
(In realtà erano le dieci di mattina, ma su quel bizzarro pianeta era sempre notte)
Davanti a loro si estendeva un’immensa distesa di palazzi altissimi con grandi insegne luminose, che invitavano i turisti a entrare e, soprattutto, giocare. A giudicare dalla folla, doveva essere l'ora di punta. Da ogni angolo provenivano musiche esotiche, che si mescolavano ai profumi della cucina di Gamble e alla miriade di voci dissonanti. A Donna brillavano gli occhi e il Dottore era sempre più fiero di se stesso per averla portata lì.
«Ti accompagno nel casinò più grande del pianeta? Siamo nella Las Vegas aliena, non possiamo non giocare.»
«E chi ha detto che non voglio giocare? Fammi strada, Dottore.» Donna lo prese a braccetto e si tuffarono nelle strade di Gamble con fare solenne. Faceva freddo, in quella giornata illuminata da due lune, e il respiro della viaggiatrice si condensava in piccole nuvolette ogni volta che lei si lasciava sfuggire un'esclamazione ammirata. Passarono davanti a bar a forma di boccale di birra, piccoli casinò, teatri da cui provenivano musiche particolari e hotel alieni di lusso. Gli unici mezzi di trasporto sembravano essere automobili e tram anni '30, con occasionali carrozze guidate da alieni dalla pelle violacea. Donna non faceva altro che indicare e lanciare gridolini. Il Dottore si sarebbe anche fermato per rispondere a tutte le sue domande, se solo non avesse avuto una meta ben precisa. Sarebbe stata una bella serata. Si sarebbero divertiti, in quel mondo lontano, senza pensare a niente.
Il Royal Flush Casinò si ergeva su una piccola collinetta. La facciata era costituita da mezza roulette russa, con tanto di pallina bianca fluorescente sul numero 29. Donna rimase in estasi per una manciata di secondi, poi si voltò verso il Dottore e gli chiese perché diamine non fossero ancora entrati.
 
C’era qualcosa di sbagliato in lui. La malinconia gli era piombata addosso nel momento stesso in cui aveva varcato il maestoso ingresso del casinò e, da quel momento in poi, non c’era più stato verso di mandarla via. Così aveva violato una delle sue regole d'oro e si era concesso un bicchiere di rumrum. Dalla sua postazione all’angolo bar – questi alieni che sapevano fare dei drink come si deve – riusciva a vedere Donna alla roulette. Forse avrebbe dovuto darle meno soldi. Ogni volta che vinceva si voltava verso di lui per esultare, con i pollici sollevati, e il Dottore forzava un sorriso, mimando un brindisi con il bicchiere in mano. Cosa gli stava succedendo? Era conosciuto per essere una persona allegra, lui. Aveva organizzato quella serata apposta. Donna voleva andare a Las Vegas, lui le aveva offerto di meglio.

(In realtà sapeva benissimo quale fosse il problema. Fare finta di niente era il migliore meccanismo di difesa che gli venisse in mente)

«Che mi venga un colpo se questo non è il Dottore!»
Uno dei suoi due cuori mancò un battito. Ruotò di centottanta gradi e spalancò gli occhi alla vista di Jack Harkness, in carne e cappotto grigio, che gli faceva cenno con la mano. Il Capitano aggiunse una sedia al tavolo del Dottore.
Tra tutte le persone che si sarebbe aspettato di incontrare…
E proprio stasera, maledizione!
«Della serie ‘chi non muore si rivede’, eh?» Il Dottore alzò gli occhi al cielo a quella battuta pessima e diede una pacca sulla spalla al suo amico. Jack Harkness, roba da non credere.
Si fecero portare qualcosa da bere, offriva Jack.
«Cosa ci fai qui?»
«Mah, in realtà aspetto il momento giusto per presentarmi al barista» il Dottore rise, «e allo stesso tempo approfitto degli ottimi drink di Gamble. Tu?»
«Il solito, sai.» Ammiccò a Donna, la quale scelse proprio quel momento per lanciare un grido di gioia.
Gli occhi inquisitori di Jack studiarono Donna per qualche istante, per poi soffermarsi molto più a lungo sul Dottore. Non servì scavare troppo in profondità, non lui e non quella sera. Continuarono a fissarsi negli occhi fino a quando il Capitano non trovò il coraggio di aprire la bocca e domandare «Quanto tempo?»
«Oggi sono due anni.» Dirlo a voce alta era peggio che ricevere dieci coltellate.
Due anni che sembravano cento; e parlava con cognizione di causa, lui, sapeva perfettamente quanto durasse un secolo. Il pensiero di averne davanti ancora così tanti senza di lei gli faceva mancare il respiro. Se c'era qualcuno in grado di anche solo intuire come si sentisse, quello era il Capitano. Infatti Jack non si sprecò in inutili discorsi confortanti e si alzò, afferrandolo per un braccio. Avevano un assoluto bisogno di poker, dichiarò.
 
 
 
 
“Come accidenti fai?”
“A fare cosa?”
“A usare la carta olografica senza scoppiare a ridere in faccia a nessuno.”
“Anni e anni di pratica. Anzi, secoli.” Sta per ribattere, ma le appoggi un dito sulle labbra per invitarla al silenzio. La vostra salita è quasi giunta al termine e una parola di troppo basterebbe a farvi buttare fuori a calci. Apri una vecchia porta in legno dopo l’ultimo piano di camerini e iniziate l’arrampicata sulle strette rampe di scale in cemento. Siete consapevoli di dover essere più silenziosi della neve che sta cadendo su Parigi, perfino i vostri respiri sembrano assordanti. Tutta questa segretezza non fa che rendere la serata ancora più speciale. Ventotto gradini e sbucate esattamente sopra al palco. Gli occhi scuri di lei si allargano. Ne valeva la pena, vero?
L’orchestra dell’Opera sta suonando una sinfonia. Forse è la parte dei violoncelli, forse è Parigi, forse è la neve, forse è la compagnia di lei, o magari il suo profumo. Sta di fatto che non ti sentivi così vicino alla felicità da secoli e questo istante è così maledettamente perfetto da farti venire i brividi. Rimanete in silenzio, appoggiati alla balaustra; inizialmente siete gomito contro gomito, poi le spalle si sfiorano, il tuo braccio scivola giù verso i suoi fianchi e la testa di lei si incastra alla perfezione nell’incavo del tuo collo. Profuma di limone.
L'orchestra fa un ritornello.
Il tuo orologio interiore, per una volta, ha smesso di ticchettare e vorresti restare così per tutta l’eternità.
La senti sospirare.
“Che ne dici?” sussurri.
“Che non voglio smettere mai.”
La baci proprio mentre il pubblico scoppia in un fragoroso applauso.
 
 
 
 
Jack Harkness stava bluffando, il Dottore avrebbe potuto giurarci.
Non poteva avere in mano delle carte così belle. Diamine, lui aveva una scala colore. Eppure Jack se la rideva, osservando gli avversari con quell’aria di superiorità che al Dottore, in fondo, era mancata davvero.
Ormai erano rimasti solo in tre: loro due e un siluriano dall’espressione indecifrabile.
Un’altra sera, su un altro pianeta, insieme ad altre persone, il Dottore avrebbe lasciato. Non si sarebbe azzardato a rischiare – per cosa, poi? – dando retta alla parte più istintiva di sé. Un’altra sera, appunto. Jack aveva ragione, il poker gli serviva. Aveva bisogno di osare, di provare un qualsiasi tipo di emozione e di compiere una mossa ai limiti della sconsideratezza sapendo che, alle conseguenze, ci avrebbe pensato solo dopo.
Ammucchiò tutte le fiches che gli erano rimaste e le fece scivolare verso il piatto. Il siluriano sbatté rapidamente le palpebre e lasciò. Jack  imprecò, mentre chiamava. Il Dottore sorrise.
C’era un silenzio assordante.
Scoprirono le carte.
Il Capitano Jack Harkness aveva in mano un poker di cinque.
 
 
 
 
In un camerino dell’Opera di Parigi nel 1908, seriamente?
Sì.
Non sei molto consapevole di ciò che ti succede intorno. Non ti interessa nemmeno. La sollevi e la appoggi sul tavolo, dopo aver buttato a terra tutto ciò che c’era sopra. Ti bacia il collo, mentre tu la aiuti a togliere la giacca e la maglietta azzurra. Senti le sue mani sulla tua schiena nuda, scendono giù fino alla vita dei pantaloni, trovano i bottoni, li slacciano. Vi sdraiate lentamente su quel tavolo scomodissimo, facendo attenzione che la distanza tra i vostri corpi non sia mai troppa, poi tu sei sopra di lei e i vostri nasi si sfiorano. Sta sorridendo. Inizi a muoverti lentamente contro il suo corpo, fino a quando senti la stretta sulla tua schiena farsi più forte e lei ti accoglie dentro di sé. L’intensità di questo momento per un attimo ti paralizza, perché non pensavi che sarebbe mai successo davvero. L’hai sognato tante di quelle volte…
Lei però ti bacia l’orecchio e ti sussurra dolcemente di non fermarti. Non te lo fai ripetere due volte. Da quell'istante in poi, ci siete solo voi due.
 
Non sai bene quanto sia passato – "Starà ancora nevicando?" Che strano, proprio tu hai perso la cognizione del tempo – sei consapevole solo di lei sdraiata vicino a te e del suo braccio avvolto intorno al tuo torace. La cosa più intelligente da fare sarebbe andare via. Arriverà qualcuno, prima o poi, e quasi sicuramente avrà da ridire nel trovarvi così. Hai bloccato la porta con il cacciavite sonico, ma presto o tardi dovrete uscire. Lo sapete entrambi, ma non vi azzardate a fare la prima mossa per non rompere l’incantesimo. Perché ci sono almeno un migliaio di ragioni che rendono tutto questo sbagliato e tu lo sai, devi, cercare di tornare alla normalità. Dovresti. L'orologio interiore si è riattivato e adesso sembra il timer di una bomba. Presto finirà tutto. Ti fa male lo stomaco. Vuoi piangere. Non puoi. Vuoi prenderla e scappare via, rifugiarvi in un remoto angolo dell'universo e guardare la nascita di una stella. Tutto, ma non...
Ancora due minuti. Resta, ti prego.
C’è movimento alla tua sinistra. Ti volti e la vedi girata sul fianco, con il mento contro la tua spalla. In questo preciso momento capisci di doverglielo dire, prima che finisca tutto. Glielo devi, per ringraziarla di tutta quell'immensità che ormai è diventata per te. Perché tanto tre misere parole non saranno mai abbastanza. Perché tre parole devono essere così importanti?
“Rose Tyler, io ti-”
 
 
 
 
«Complimenti!» Jack alzò gli occhi al cielo, mentre il Dottore dava le fiches vinte a un gambliano. Non sapevano che fine avesse fatto Donna, ma ci avrebbero pensato solo dopo aver ritirato la vincita. Soldi che il gambliano, tuttavia, non sembrava avere intenzione di consegnare.
«Non vorrei sembrare scortese» iniziò Jack, «ma il mio amico non ha vinto quella partita solo per la gloria.»
L’alieno – che avrebbe anche potuto sembrare umano, se non fosse stato per i capelli verdi e i grandi occhi viola – lanciò loro un’occhiata apparentemente vacua, poi scoppiò a ridere.
«Ah, umani» borbottò tra sé. «Venga con me, signor "Dottore", venga.» Questi obbedì, col Capitano al seguito. Oltrepassarono una tenda di velluto, percorsero un corridoio buio e si trovarono in una stanza piena di poltroncine, come quelle che si trovano nei cinema terrestri.
Il gambliano gli indicò quella che portava il numero 47. «Ecco qua. Lei ha vinto in totale due ore e mezza.»
«Due ore e mezza?»
L’alieno sospirò. «Due ore e mezza per godersi ciò che desidera di più nell’universo. Nel Royal Flush Casinò non si vincono beni materiali. Se voleva del denaro, è finito nel posto sbagliato.»
Ciò che desidero di più nell’universo. Un uomo di novecento anni ne aveva tanti, di desideri. Una vita normale? Morire? Un nuovo cacciavite sonico? Viaggiare con un qualcuno di nome Alonso? Oppure…
«Si distenda, Dottore, e chiuda gli occhi. Verrò a svegliarla alle 14.23.»
 
 
 
 
Inizialmente il buio. Poi del metallo freddo sotto i palmi delle mani, alcune chiazze colorate indistinte e una voce. La sua. “Dove si va, Dottore?”
Metti a fuoco la cabina del TARDIS e Rose Tyler che, appoggiata a una ringhiera, aspetta una tua risposta. Avrai anche un cervello da genio e due cuori, ma ci metti comunque qualche secondo per collegare; e, quando lo fai, non sai se scoppiare a piangere o abbracciarla. Ma tu non piangi.
Deglutisci quel groppo che ti si è formato in gola e sorridi. “Potremmo assistere alla nascita di un pianeta, alla scoperta dell’America o al disastro di Atlantide. Dicono che la distruzione di Pompei sia assolutamente imperdibile. Oppure…” Pende dalle tue labbra. Le piace tutto questo, le piace tantissimo. Possibile che, solo in questo momento, tu ti stia rendendo conto di quanto piaccia anche a te? Proprio adesso?
Ci volevano quasi nove secoli per farti apprezzare finalmente i tuoi viaggi, per farti infrangere tutta quella montagna di regole che hai creato tu stesso. Ci voleva lei.
E non potrai mai ringraziarla (o amarla) abbastanza.
“Rose Tyler, sei mai stata a Parigi?”
14.23.
A cosa serve essere il Signore del Tempo, quando non puoi neanche far durare in eterno queste due ore e mezza?
 
 
 
«Com’è andata?»
Jack aveva un debole per le domande ovvie. Sapeva già tutto, il maledetto, glielo si leggeva in faccia. Il Dottore pensò a tutte le bugie che avrebbe potuto raccontare. Poteva anche ignorarlo e andare semplicemente a cercare Donna. Invece scelse un’altra via.
Afferrò Jack Harkness, il suo punto fisso nel tempo, per la collottola e lo baciò.
«Immagino che debba rimanere fra noi» commentò il Capitano, una volta superato lo shock. Interpretò il silenzio del Dottore come una conferma e posò di nuovo le sue labbra immortali su quelle del Signore del Tempo.
Erano le 14.31.
 
 




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