La neve e il Capitano

di Morgana_Sharabia
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Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà della Marvel. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

“BUCKY, NO!” Un urlo agghiacciante.  E la neve se lo prese.
Due volte l’aveva visto cadere. La prima era stata in un vicolo sudicio della loro città, quando un Bucky appena undicenne era circondato da ragazzi più grandi e più cattivi di loro.
La seconda era stata su quel dannato treno.  La neve si era presa la vittima sbagliata.
Fin da quando erano bambini, Steven, un elenco di malattie più numerose dei suoi anni, riusciva a trascinarsi in imprese belliche non ancora d’importanza nazionale. Fin da piccolo finiva sempre per cacciare l’amico fraterno in guai grossi quanto il ponte di Brooklyn.
E la neve c’era sempre, anche quel giorno.
“Ehi stupido! Questo non è posto per malati, mi infetti con la tua presenza, sparisci!”
Stava camminando sotto casa di Tracy, sperando di vederla spuntare dalla finestra del salotto, come faceva sempre. Quel pomeriggio dalla finestra uscì fuori la testa di Quince, il fratello sedicenne. Aveva i capelli rossi e le lentiggini, come la sorellina, ma nulla della sua bellezza. Steve sentì le risate di Paul ed Eric, i due amici inseparabili del rosso. Anche loro erano alti, grossi e cattivi. Steve fu così stupido da ignorare l’avvertimento. “Dov’è Tracy?”
Un minuto dopo, i tre erano davanti a lui, Steve dovette alzare la testa fino a farsi venire la cervicale, per vedere le loro facce brufolose.
“Hai detto qualcosa scarafaggio?” tuonò Eric, quello più alto dai capelli scuri. Era il figlio del professore di scienze e per questo si sentiva superiore.
Paul lo spinse a terra con un minimo sforzo, aggiungendo: “Ma dai, non vale nemmeno la pena di picchiarlo. Guarda com’è fragile! Non c’è gusto”
“Non sono fragile!” Rispose il bambino, impiegando un po’ di tempo per rialzarsi  perché scivolava sulla neve, e tentò di colpire il più vicino con un pugno, fermato subito da Quince.
“Adesso ti faccio vedere che cosa succede a chi cerca mia sorella!”
Lo avevano trascinato in un vicolo buio, ovviamente. Bidoni della spazzatura, topi, bottiglie di birra. Tutto coperto tristemente dalla neve. Non vi era altro. La via era nascosta fra due grossi edifici abbandonati, una vecchia scuola e una casa inabitata.
 In pratica non c’era modo di chiedere aiuto. Non che Steve avesse intenzione di farlo.
Iniziarono a pestarlo, calci e pugni. Steve reagiva con i suoi inutili sforzi. Era passato un quarto d’ora, quando udì una voce familiare azzannare il buio, risvegliandolo dallo svenimento.
“Ehi! Lasciatelo in pace! Davvero coraggiosi, prendersela con un bambino molto più piccolo di voi” Bucky era bellissimo nel suo coraggio. Gli occhi azzurri cercavano il suo Steve. Tremava come una foglia ma non se ne sarebbe andato senza l’amico malconcio. Era troppo coraggioso per nascondere la paura, era questa la sua forza.
“Sai Stevie, chi non ha paura di niente non è coraggioso, non conosce il coraggio. Ma chi ha paura di tutto, pensa di quanto coraggio ha bisogno!”* Aveva quella frase stampata in testa mentre lo guardava affrontare Quince, che era alto e largo il doppio di lui. Adesso l’aveva capita davvero.
Bucky era riuscito, scaraventando un bidone vuoto sui tre, ad allontanarli per pochi istanti, e ne approfittò per tirarlo su e spingerlo verso la strada “Vai, ti copro le spalle!” Lo aveva sempre fatto, sempre. Quel giorno ne avrebbe pagato le conseguenze.
“FORZA VAI, VA VIA!” Teschio rosso era fuggito.
L’inferno li separava. Bucky si era salvato per un pelo.
Era quasi caduto nella pentola ribollente sotto di loro.
“NO, NON TI LASCIO SOLO!”
Ma il fuoco non l’avrebbe preso, quella notte ad Azzano. Perché Bucky era destinato al gelo.
“Ti avverto Barnes, non impicciarti o te ne pentirai!”
Steve, piccolo e abbastanza impaurito, per una volta l’aveva ascoltato e aveva corso lottando contro l’asma e la neve, senza voltarsi fino all’uscita del vicolo.
 E si era fermato lì, ad aspettare che Bucky tornasse e gli urlasse “Che ci fai là? Corri, ci inseguono!’’ Ma Bucky non lo raggiunse.
 
Passò una decina di minuti.
Steve fece l’unica cosa che si sentiva di fare. Avrebbe dovuto chiamare aiuto, chiamare papà e il signor Barnes. Udì chiaramente Bucky singhiozzare.
Rientrò nel vicolo e si accasciò dietro un cassonetto. Bucky era a terra, a faccia in giù nella neve. Paul ed Eric gli tenevano le braccia ferme. Quince era su di lui, tra le sue gambe spalancate. I pantaloni di Bucky erano calati sulle caviglie, macchiati di sangue. 
Una chiazza di sangue sulla neve.
“Quince, io.. non posso rischiare la reputazione, sono figlio di un banchiere!” Disse Paul.
“Eccolo, il solito codardo. Come vuoi tu. Almeno tienilo fermo, scalcia come una cavalla!”
Il piccolo Steve si coprì gli occhi e pianse in silenzio. Non ebbe la forza di muoversi. Per la prima volta non trovò il suo coraggio. L’orrore lo mangiava vivo, i suoni animaleschi dei tre adolescenti lo uccidevano. Anche Buck aveva smesso di lottare, stava semplicemente immobile, il viso contratto, bagnato di lacrime. L’unica consolazione era che Steve era salvo. Era andato a chiamare suo padre, ne era certo. Lo avrebbero salvato. Non accadde.
Steve si lanciò fuori dal portellone, se solo il treno avesse smesso di correre. Se solo Steve si fosse allungato ancora di più verso l’amico. Doveva cadere lui.
La neve tentò di prenderselo anche quella volta, sulle Alpi. Nevicava in quel vicolo.
Nevicava il giorno della sua morte.
Semplicemente, Quince gli scagliò un ultimo calcio e i tre scapparono. Lasciandolo là, seminudo, sanguinante, sottoshock.
Bucky era come morto dentro. Non sentiva nemmeno il terrore, solo il vuoto in cui era caduto. Si alzò i calzoni e ringraziò di avere la giacca lunga che gli copriva la chiazza di sangue. Zoppicò fino a casa a testa bassa, col labbro gonfio e un occhio nero.
Steve se n’era andato qualche minuto prima che i tre uscissero dal vicolo. Era corso a casa, tra le braccia della mamma, e aveva pianto, disperato. Schiacciato da un senso di colpa che non l’avrebbe lasciato mai veramente. Era troppo piccolo per poter capire, per potersi perdonare. Forse non l’avrebbe fatto mai.
Erano passati tre giorni senza che Bucky lanciasse i sassolini alla finestra di Steve. Erano passati tre giorni senza che i Barnes si facessero vedere in giro. La vergogna era ricaduta sulla famiglia di Bucky, la signora Helen aveva pianto tanto, con quegli occhi azzurri ormai slavati. Michael Buchanan, il papà di Bucky, aveva chiamato un medico, e poi era andato a casa dei tre ragazzi e aveva informato i genitori del pestaggio. Solo di quello. Doveva essere difesa la reputazione delle famiglie degli aguzzini, e soprattutto la famiglia Barnes.
Ovviamente i tre non avrebbero riferito niente a nessuno. Lo sguardo assassino del signor Barnes, accentuato da due occhiaie mostruose, diceva tutto. I tre tornarono a scuola qualche giorno dopo, quando le bastonate inflitte dai genitori non erano più visibili in viso. Bucky invece tornò dopo una settimana, perché era un obbligo ma prima di tutto un dovere, per un ragazzo per bene. Steve lo vide una mattina di Febbraio, quando suonò il campanello e la mamma di Steve, Sarah, lo abbracciò e lo baciò fino a fargli arrossire la punta delle orecchie. Negli occhi della donna non c’era compassione, non avrebbe mai osato offenderlo. C’era solo amore, tanto amore che per Bucky avrebbe provato sempre. Era suo figlio anche lui. Ovviamente Sarah sapeva cosa gli era accaduto, anche se Steve era troppo piccolo per dare un nome a quella violenza, e troppo spaventato per parlarne con la madre, lei aveva capito. Capiva sempre, quando si trattava dei suoi piccoli uomini. Gli aveva offerto la cioccolata calda. Sarebbero arrivati in ritardo a scuola, ma non aveva importanza. Steve gli saltò addosso e lo abbracciò, e vide che gli voleva ancora bene. Non era cambiato niente, gli aveva dato un bacio sulla guancia e Bucky aveva riso e poi gli aveva proposto di fare un pupazzo di neve, dopo la scuola. Steve non si era mai sentito così bene. Aveva avuto tanta paura. Di notte, abbracciato alla mamma, aveva sognato che il suo amico non lo voleva più, perché non aveva chiesto aiuto, perché era rimasto a guardare. Promise a se stesso che mai più sarebbe stato immobile davanti al terrore. Mai più, non l’avrebbe permesso.
“Non è stata colpa tua. Credevi nel tuo amico? Lo rispettavi? Lui era convinto che per te ne valesse la pena.” Gli avrebbero sussurrato delle labbra rosse qualche tempo dopo.
Sì, Bucky lo sapeva. Aveva visto una testolina bionda dietro il cassonetto, ed era morto di paura.  Per fortuna Steve aveva avuto il buonsenso di scappare, definitivamente, almeno quella volta.
Bucky guardava fuori dalla finestra, la tazza fumante nella manina, l’occhio destro ancora socchiuso. I loro sguardi si incrociarono, e si comunicarono tutto in pochi secondi.
-Mi dispiace, sono un codardo.-
-Non è stata colpa tua. Sei il mio fratellino.-
-Mi vuoi ancora bene Buck?-
-Ma certo. Io sarò con te fino alla fine.
E ci sarebbe stata anche la neve, alla fine.


* Citazione modificata del telefilm "La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!" di Sergio Sollima.
La scena nel vicolo è liberamente ispirata al libro "Il cacciatore di aquiloni" di Khaled Hosseini.

*Esce trionfante da un angolino* Bene bene! Se siete arrivati fin qui vuol dire che siete sopravvissuti al parto della mia mente malata. Quindi devo dei ringraziamenti a coloro che recensiscono, inseriscono nelle preferite o ricordate o semplicemente leggono. Grazie mille, spero di aver emozionato qualcuno, anche per un istante. Baci baci! Morgana.




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