Nota iniziale:
terza revisione dell'Aprile 2011.
Acqua
viva
Autore: ellephedre
Disclaimer: i
personaggi di
Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di
proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.
La carezza di un dito le sfiorò il viso,
destandola dal sonno.
Davanti agli occhi aperti ebbe un volto.
Nelle orecchie una voce infantile, la propria.
"Mamma"
Ami si svegliò, sopra di lei il soffitto
che era mondo reale.
«Mamma...» Sussurrò la parola
al
silenzio quieto della mattina.
Mamma.
Era stato il lieve mormorio di un altro tempo.
La madre della sua precedente esistenza - la
donna che le aveva donato la sua prima vita - era tornata nei suoi
sogni come un ricordo che metteva radici, impossibile da dimenticare.
Ami scostò il piumino e si
lasciò colpire dall'aria fredda della stanza. Un brivido la
percorse dai piedi nudi fino al collo scoperto. Si alzò,
trovando le ciabatte dove le aveva
lasciate la sera precedente. Percorse i pochi metri che la separavano
dalla porta strofinandosi le braccia, per darsi calore. Sarebbero
occorsi
solo pochi secondi e un po' d'acqua per risvegliarla nella mente e nel
corpo.
Entrò in bagno, il regno di piastrelle bianche e
azzurre
che le
dava sempre serenità. Vi era una fantasia di barche e mare
sulla
superficie lucida della parete. Viaggi, orizzonti
inesplorati, futuro.
Rimboccandosi le maniche, si sistemò di fronte al
lavandino.
Notò un'immagine davanti a sé, dove non aveva
ancora
guardato. Sollevò gli occhi.
Allo specchio Ami Mizuno la osservò di rimando.
Quello era stato il viso di un'altra persona. Ella si era fusa
in lei e
insieme erano diventate Sailor Mercury.
Ami Mizuno aveva capelli tanto scuri e lucenti da aver passato
il
limite del nero. Erano blu i fili corti che le adornavano la testa,
schiariti da un sole che aveva deciso che il colore della notte era
troppo cupo per lei. Una spiegazione romantica, a giustificare la
differenza con le chiome corvine dei suoi genitori.
Sailor Mercury aveva il colore dei capelli di sua madre. Un
poco
più scuri, una differenza quasi irrilevante. Il taglio degli
occhi era identico: grandi occhi dolci - le avevano detto le sue amiche
- con lunghe ciglia e palpebre vispe che non si sarebbero mai azzardate
a
pesarle sullo sguardo.
La sua bocca. Le era sempre piaciuta. La luce
artificiale faceva brillare il rosa scuro delle sue labbra come un
frutto maturo e delicato; il sole le donava la tonalità di
un
bel fiore in boccio. Ancora una volta, era la bocca di Mercury. Della
madre di lei.
L'angolo a cui piegò le labbra le fece nascere un
primo
dubbio.
Vi
era una piccola differenza nella curva calante. Eppure...
Sorrise allo specchio, a se stessa.
Lo aveva sempre saputo: non somigliava molto ai suoi
genitori,
all'uomo e alla donna del presente che, incontrandosi, l'avevano fatto
rinascere. Non le avevano trasmesso le loro fattezze, ma
avevano condiviso con lei esperienze, momenti, ricordi. Desideri
simili. L'amore per la medicina di sua madre e l'ammirazione per l'arte
di parole, suoni e immagini che la accomunava a suo padre.
«Tesoro!»
Si voltò verso la porta. Nel corridoio risuonarono
passi
rapidi, concitati.
Andò loro incontro, seguendoli fino all'inizio
delle scale.
Al piano di sotto stava sua madre, i piedi che cercavano le
scarpe
posate sull'ingresso e le mani già infilate nella giacca.
Aveva i capelli scompigliati.
Ami si permise un sorriso.
«La colazione è
pronta!» Fu un grido pacato,
amorevole, pensato per richiamare la sua attenzione.
«Sono qui, mamma.»
«Oh!»
La sorpresa si
trasformò in allegria: una mattina in cui si vedevano dava
seguito ad un giorno in cui era più facile non sentire la
reciproca mancanza.
«Oggi ho il turno di giorno.»
Amil lo aveva immaginato.
«E un'operazione importante alle
quattro. Te ne avevo parlato, ricordi?»
Sì, il trapianto.
Scese dalle scale.
«Tornerò tardi.»
Sua madre
tornò indietro e la incontrò a metà
strada. Le
rubò un piccolo bacio dalla guancia. «Passa una
buona
giornata, tesoro.»
«Anche tu, mamma.»
In pochi secondi la porta di casa si aprì e si
chiuse dietro
l'ultimo sorriso benevolo di sua madre.
Il silenzio tornò intero, a farle compagnia dandole
il
buongiorno.
Stiracchiandosi, Ami sbadigliò. Si diresse in
cucina e
usò l'acqua del rubinetto per darsi una passata fresca sul
viso.
Prese in mano la tazza sul tavolo ancor prima di sedersi. La
portò alla bocca e si lasciò corroborare le
membra dal
tè caldo.
La colazione di Ami Mizuno, preparata dalla madre di Ami
Mizuno, nella
casa di Ami Mizuno. Non vi era errore o interruzione in quella semplice
realtà.
Le cose sarebbero cambiate. Nel giro di qualche anno Sailor
Mercury
avrebbe dovuto presentarsi al
mondo e ai genitori che ancora non la conoscevano. Loro avrebbero visto
una
figlia che non li rispecchiava? Avrebbero riconosciuto nei tratti
dissimili dai propri una differenza troppo importante per essere
ignorata?
Se così fosse stato, a suo padre avrebbe mandato un
disegno
e a sua madre avrebbe regalato qualche parola semplice, sua. Sarebbe
bastato a farla riconoscere come Ami, la figlia di entrambi.
Lei era Ami Mizuno. Ed era Sailor Mercury.
Non erano entità separate, benché
avessero avuto
inizi
diversi che si erano congiunti in una sola vita appena tre anni
addietro. Lei poteva indossare l'uniforme scolastica o la divisa da
combattimento, ma era sempre se stessa: stessa mente, stesso animo.
Il problema era uno solo: la sua vita passata - bruscamente
interrotta
in tempi antichi - premeva per diventare la sua vita presente.
Era passato un anno da quando lo aveva saputo, un anno da
quando Mamoru
Chiba aveva rivelato ad Usagi Tsukino che Crystal Tokyo e il
Regno Argentato sarebbero tornati ad esistere in un periodo
approssimativamente
compreso tra i successivi cinque e dieci anni. Rei Hino - l'unica che
fra le
guerriere ad aver sempre avuto poteri di premonizione - aveva
percepito anche lei come vera quella rivelazione e, col passare del
tempo, era
riuscita a stimare con maggior precisione l'arco temporale
entro cui
sarebbe accaduto tutto quanto. Due anni.
Contro le labbra il tè le sembrò
improvvisamente
freddo.
L'intero mondo avrebbe saputo che lei era Sailor Mercury in un
periodo
compreso tra i successivi quattro e sei anni.
Si sentiva pronta per quel ruolo, almeno in parte.
Quando meno
se
lo
era aspettata, da oramai molti mesi, i propri sogni le
avevano portato immagini, suoni, particolari della sua vita passata.
Erano serviti a ricordarle alcuni fatti importanti, non ultimo
cosa
volesse dire assumere il ruolo
di
Sailor Mercury - la posizione che aveva ereditato da sua madre,
scomparsa da qualche
decennio quando il Regno della Luna era caduto.
No, pensò, non temeva di assumere un ruolo
caratterizzato da
grandi oneri.
Sarebbe stata in grado
di fare molto per il suo mondo e per le persone che lo abitavano.
L'enorme
responsabilità la spaventava almeno quanto la
entusiasmava e questo era sufficiente. Ciò per cui
si
sentiva molto meno pronta era tutto il resto.
Aveva combattuto contro alieni, mostri, entità
malefiche
inimmaginabili, eppure continuava ad andare a scuola, a voler diventare
un medico, a desiderare una vita normale. Si sentiva
normale,
una comune ragazza terrestre. Nella sostanza, perlomeno.
Era quella parte di lei a guardare con timore al tempo che
aveva davanti. Decenni.
Secoli. Un millennio intero, tanto sarebbe durata la sua
vita.
Le sue care amiche le sarebbero rimaste accanto fino alla fine
dei suoi
giorni. Ma i suoi genitori? Loro sarebbero morti tra circa mezzo
secolo, anno
più anno
meno, come ogni normale essere umano.
Non era normale sopravvivere ai propri genitori per oltre
novecento
anni. Eppure, era proprio quello il destino di una
guerriera
Sailor. Una guerriera trascorreva la maggior parte della propria vita
senza i propri
genitori. Nasceva
per prendere il posto del genitore da cui aveva ereditato il proprio
potere. Lo aveva ricordato una notte di un paio di settimane addietro.
In lei la sorpresa si era unita alla tristezza, una mestizia
malamente
attutita da una
consolatoria consapevolezza: una guerriera, paradossalmente,
trascorreva assieme ai
propri genitori un periodo più lungo rispetto ad un
qualsiasi essere umano. Si trattava anche di un secolo
intero in alcuni casi.
Era stato normale nell'antichità in cui era vissuta.
Aveva acquisito quelle informazioni sognando, ricordando il
momento
della propria... successione? Non poteva che chiamarla così.
Quel giorno lontano la sensazione che l'aveva pervasa era
stata di
gioia, di orgoglio. Quell'episodio non aveva rappresentato per lei
ciò che
significava ora, un passo in più verso la separazione da due
delle persone più care al suo cuore.
No, ricordò, allora non aveva minimamente temuto di
sopravvivere tanto a
lungo alla propria famiglia.
Ma ora? Tra secoli e secoli avrebbe ricordato il bene che
aveva voluto
a sua
madre, a suo padre? Avrebbe ricordato la loro voce, le loro parole, la
loro presenza?
Come se non fosse una situazione gravosa già da
sola, aveva
un
altro grande dubbio: avrebbe mai trovato qualcuno assieme a cui
trascorrere la propria
vita? Non era più la banale domanda che poteva porsi una
ragazza comune. Non ricordava nulla di quell'aspetto della sua
precedente esistenza.
Poteva solo ipotizzare. Ipotizzare che
nell'antichità lunare
l'aspettativa di
vita media delle persone normali somigliasse a quella di una
guerriera Sailor o, quantomeno,
andasse ben oltre quella presente. Forse era quella, pensò,
la
situazione che si sarebbe venuta a creare sulla
Terra una volta che il Regno Argentato
si fosse consolidato.
Era realista e non le piaceva nutrirsi di false
speranze. Sarebbero occorsi alcuni decenni - come minimo - prima che
l'umanità si adattasse nella società e
nella natura
ad un cambiamento tanto radicale quanto epocale. Comunque dubitava
che nell'antico regno la vita media
degli altri esseri umani fosse arrivata a sfiorare i mille
anni.
Unendo questa ipotesi a ciò che già
sapeva,
ovvero che
avrebbe avuto una figlia solo nell'ultimo periodo della sua vita,
arrivava a conclusioni che le piacevano poco: avrebbe incontrato
il padre di sua figlia, della sua erede, solo col passare dei secoli.
Avrebbe trascorso la
maggior parte della sua esistenza da sola, perché lui non
sarebbe
mai
riuscito a vivere quanto lei.
Non aveva senso quindi, non poteva essere proprio possibile,
che lei
lo
incontrasse a breve.
Se tutte le sue ipotesi si fossero dimostrate corrette,
ciò
che l'attendeva negli anni a venire, nei decenni futuri, era...
non conoscere l'amore. O conoscerlo e accettare che fosse destinato a
finire con la
sopravvenuta scomparsa di chi amava. Ancora più
semplicemente, con
la
fine della relazione: non sarebbe stato facile per
una coppia rimanere unita
se uno dei due fosse rimasto eternamente giovane.
Posò la tazza sul tavolo.
Non lasciò il
manico.
Stava considerando come più importante il problema
sbagliato. Non doveva preoccuparsi di una relazione già in
piedi, quando da
principio per lei sarebbe stato difficile intrecciare una
qualunque
relazione amorosa. Una volta che fosse diventata Sailor Mercury, ci
sarebbe
voluto del tempo
perché non venisse vista solo come una creatura
sovrannaturale, un essere da temere, per quanto rispettato.
E così...
Fissò gli occhi sul nulla.
Chissà tra quanto avrebbe conosciuto
l'amore.
Sentì l'aria che l'abbandonava in un sospiro di
resa.
Non provava un bisogno spasmodico di innamorarsi.
Non ancora,
almeno.
Non ancora, per fortuna.
Tuttavia, era triste pensare che per lei la
possibilità fosse diventata più remota
di un tempo.
Lasciò stare la tazza e iniziò a
mangiare le
fette di pane tostato abbandonate sul tavolo.
Non era da lei, pensò, essere così
negativa.
Riflettere troppo non le faceva
bene.
Inoltre aveva dentro di sé una convinzione
profonda,
più vera di qualunque problema: si sarebbe sistemato tutto
quanto. Era come sentire la voce di Usagi nella testa, nel cuore, che
glielo assicurava.
Forse
il suo atteggiamento ottimista l'aveva contagiata, ma da tempo
nutriva le stesse speranze.
Un giorno sarebbe andato tutto bene. Come o fra quanto ancora
non lo
sapeva, ma nel frattempo...
Avrebbe vissuto ogni singolo giorno come aveva sempre
fatto, al massimo delle proprie forze.
Lunedì.
Appena uscita da scuola corse alla biblioteca
comunale. Aveva
avuto un'idea su una teoria matematica di cui avevano
parlato a lezione in mattinata. Il concetto le era
già stato
ampiamente
noto, ma la
spiegazione che il professore aveva offerto sull'argomento aveva messo
in luce un aspetto
particolare della teoria. La sua testa aveva iniziato ad
elaborare possibilità
ancora prima che lei stessa si fosse resa conto di dove voleva
andare a parare.
La sua intuizione era tutt'altro che
semplice e
probabilmente si stava sbagliando, ma doveva consultare più
testi, mettere su carta le idee e anche tentare di modificare qualche
formula. Doveva provarci, esplorare l'idea. Quel giorno sarebbe stato
un primo passo solamente, ma bastava il
pensiero della ricerca a emozionarla.
Trovò una sedia vuota nella grande sala principale
della
biblioteca e posò
sul tavolo la pila di libri che aveva recuperato. Sorrise
di se stessa: aveva una mente talmente portata all'elaborazione di
ciò che
la
circondava che probabilmente neanche un millennio sarebbe bastato a
soddisfare la sua curiosità.
Si mise alacremente al lavoro.
Passarono i minuti, le ore. Le ombre divennero lunghe, fino a
quasi
sparire e mimetizzarsi con la luce al neon della sala.
Le sedie del tavolo di fronte
a lei strisciarono contro il pavimento, distraendola brevemente. Se ne
curò solo per un istante, concentrata sullo
studio della funzione che aveva creato.
«Guarda quel tipo.»
Udì con tanta chiarezza il bisbiglio che per un
attimo
lo pensò rivolto a lei. Scorse con la coda dell'occhio due
ragazze che confabulavano tra loro. Tornò a concentrarsi.
«Di chi parli? Oh... wow. È proprio
bello.»
«Sì, ma mi riferivo agli occhi, guarda
che
occhi!»
«Aspetta... Hai ragione, che colore strano! Devono
essere
lenti a
contatto.»
«Non credo. È solo straniero, guardalo
bene.»
«Shh... abbassa la voce!»
«Tanto non mi sente. E comunque è
straniero, non
capisce.
Vedi, sta persino leggendo in inglese.»
«Va bene, ma abbassa comunque la voce, siamo in
biblioteca.»
Già.
«Che noiosa, non c'è praticamente
nessuno.»
Seguì un brusio e il rumore di fondo smise di
disturbarla.
Il silenzio proseguì ed Ami riuscì a
focalizzare l'attenzione sul
proprio
foglio.
«Sai, credo che andrò a
presentarmi.»
Sospirò, rassegnata.
«Non ne avrai il coraggio!»
«Perché no?»
«Sono anni che corri dietro a Saiki e non glielo hai
mai
fatto sapere.»
«Perché devi ricordarmelo,
scusa?»
«Per non farti dire cose che non pensi di
fare.»
«Però vorrei farlo davvero questa volta.
Dai,
tirami fuori una
scusa per
andare a parlare con lui.»
Ami smise di ascoltare. Le voci delle ragazze si
facevano sempre più stridule o era solo una sua
impressione?
Trovava normale conversare un poco se si era
in
biblioteca con un'altra persona, ma a bassissima voce e per pochissimo
tempo. Altrimenti
fuori c'era il parco, dove si poteva urlare ai quattro venti
di ragazzi carini e di scuse per parlarci. Dimostrandole di non essere
d'accordo con lei, il parlottio
continuò imperterrito.
«Scusate.»
A interrompere la chiacchierata era stata una voce maschile.
Cadde un improvviso e innaturale
silenzio.
Ami alzò gli occhi.
«Parlo perfettamente giapponese» stava
dicendo un ragazzo alto, straniero, la mano appoggiata sul
tavolo ad agevolarlo nello stare chinato verso le sue ammiratrici. Non
le guardava con benevolenza. «Grazie dell'interesse, ma
sono qui per studiare. Vorrei farlo in silenzio.»
Nelle bocche aperte delle due ragazze sarebbe potuto passare
un treno
di mortificazione.
Una delle due annuì e iniziò a
raccogliere le proprio cose; l'amica si affrettò ad
imitarla.
Finalmente.
Come se l'avessero udita, un paio di occhi chiari si posarono
su di
lei.
Il momento si protrasse per due soli istanti, ma
furono
sufficienti a
far comprendere ad Ami cosa ci fosse stato da decantare in
lui.
Il ragazzo tornò alla propria sedia e a lei rimase
impresso il suo atteggiamento.
Povere ragazze. Se fosse successo a lei, sarebbe sprofondata
dalla
vergogna. Naturalmente al loro posto lei non avrebbe mai fatto simili
commenti ad
alta
voce, così vicina poi all'oggetto del
discorso. In fondo se l'erano quasi cercata.
Chissà quanto a
lungo avrebbero ricordato quel momento di
imbarazzo, di vergogna.
Sorrise. Non era stata un'esperienza
piacevole per quelle due, ma quel piccolo errore
di immaturità sarebbe stato ricordato con una risata negli
anni a venire. Incontrare un ragazzo, sognare di uscirci, giocare con
le
amiche a
parlare di lui...
Lei non doveva preoccuparsene più. Si era
tormentata al
pensiero
di dover superare i suoi imbarazzi nel momento in cui un
ragazzo
l'avrebbe avvicinata, ma oramai le sembravano preoccupazioni... tenere.
Belle persino, legate com'erano a sogni innocenti.
Il risveglio delle due ragazze era stato brusco, ma per loro
quella era solo
un'occasione andata male in una vita che avrebbe offerto a entrambe
molte
opportunità di quel tipo.
Un giorno tutte e due avrebbero incontrato qualcuno di
importante.
Sarebbe successo persino a quel ragazzo: in futuro i suoi
strani occhi verde-azzurro avrebbero guardato una sola persona con
amore, trovando dolci comportamenti sciocchi che nel presente gli
apparivano irritanti. Non sarebbe stato male se la prescelta
fosse riuscita a farlo
penare un po' prima di capitolare: a lui avrebbe fatto veramente tanto
bene.
Ami Si mangiò le labbra, per non ridere.
Anche in
lei esisteva un po' di solidarietà femminile.
Ridacchiò in silenzio e tornò a
concentrarsi
sull'elaborazione della sua funzione.
Martedì.
All'uscita da scuola decise di svagarsi un
po' e seguire Usagi. Vado
a fare una sorpresa a Mamo-chan,
le aveva detto lei ed Ami si era accodata volentieri.
L'università di Tokyo, la Todai, era la migliore del paese,
forse dell'Asia intera. Am aveva sognato di entrarci sin da quando era
bambina; al coronamento di quel sogno mancava poco più di un
anno, sedici mesi da far passare con trepidazione. Le visite al campus
erano un'ottima occasione per mitigare l'attesa.
«Usagi?»
Mamoru le scorse in mezzo alla gente.
«Mamo-chan!» Usagi
si precipitò verso di lui, quasi saltandogli in braccio.
«Visto
che sono venuta a trovarti?»
Ami restò indietro di qualche passo.
Usagi era luminosa quando stava con Mamoru.
L'intensità
del suo sentimento catturava lo sguardo come la luce stessa.
Per Mamoru valeva la stessa cosa e, nonostante lo
conoscesse da anni, Ami non si era ancora abituata al modo in cui
l'espressione di lui cambiava nel vedere Usagi, diventando
più mite e al contempo intensa.
Usagi e Mamoru erano una coppia destinata a stare insieme per
un millennio,
finché morte non li avesse separati. Erano materiale da
favola - eppure così reali da non suscitare in lei
alcuna
invidia
per il loro destino. Quello che avevano - amore, felicità
-
era tutto ciò per
cui
lei si era ripromessa di combattere.
«È una bella sorpresa»
commentò infine
Mamoru, girandosi
verso di lei. «Ciao, Ami.»
«Ciao.»
Usagi si era attaccata al braccio di Mamoru.
«Allora rimani qui?»
«Sì, do un'occhiata agli
edifici.»
Mamoru e Usagi la salutarono, andando via. Ami si
appoggiò contro il
tronco di un albero.
Era quasi novembre e il cappotto che aveva indossato
nascondeva la sua
divisa scolastica. Non attirava l'attenzione tra gli studenti
universitari e poteva starsene tranquilla in mezzo a loro.
Guardò da lontano il complesso di edifici che
ospitava la
facoltà di medicina.
A quel sogno non avrebbe rinunciato. La sua
vita sarebbe stata totalmente rivoluzionata nel giro di qualche anno,
ma voleva studiare medicina, più di tutto. Non sarebbe mai
diventata medico - non con il peso del
ruolo che avrebbe assunto - ma magari avrebbe potuto fare ricerca
quando la situazione si fosse stabilizzata.
Lo aveva detto anche Usagi, no? Non c'era alcun bisogno che
lei e le
altre rinunciassero alle loro aspirazioni. Non ancora, almeno.
Osservò gli studenti che le
passavano accanto.
Poter studiare ad alti livelli, circondati da persone che
facevano
altrettanto, sarebbe stato molto soddisfacente. Magari, una volta che
fosse diventata una matricola, avrebbe
potuto tentare di battere qualche record laureandosi
molto in fretta, così da avere il tempo di fare un
minimo di pratica
prima che-
Lo aveva scorto solo con la coda dell'occhio, ma lo riconobbe
immediatamente.
Il ragazzo del giorno prima.
Stessa faccia seria,
stessi capelli castano chiaro - quasi biondi sotto la luce del sole.
Lui girò la testa verso di lei. Non le
prestò
più
attenzione del giorno precedente e, senza fermarsi, continuò
per
la propria strada.
Le venne da ridere.
Un detto come 'il mondo è
piccolo' assumeva finalmente un senso anche nel suo caso.
Decise di fare il giro dell'università e visitare
anche
altri spazi.
Mercoledì.
Dopo la scuola corse a comprare un libro.
Era il giorno di uscita del nuovo romanzo di uno dei suoi
scrittori
preferiti,
un autore americano. Era stata fortunata e aveva trovato un negozio in
cui il volume era disponibile
già nella data di uscita della versione in lingua originale.
Lo
scovò su uno scaffale in bella vista, la copertina tanto
attesa che spiccava tra le altre. Senza perdere tempo
lo
portò alla cassa. La lunga fila non la scoraggiò:
avrebbe avuto tutto il tempo di gustarsi le prime pagine.
Leggere era meraviglioso. Era come vivere vite diverse,
sognare senza
limiti. Niente
avrebbe mai potuto toglierle quel piacere unico e
indispensabile.
«Il suo resto e lo scontrino.»
«Grazie.»
Bastò una parola per farle riconoscere il timbro
della voce.
Dalla cima della fila spuntò il ragazzo del giorno
precedente e di quello prima ancora. Lui la notò e - per la
prima volta - si fermò a guardarla.
Ami era sicura di essere sbigottita quanto lui, ma non
altrettanto divertita.
Il ragazzo sollevò in una mano il libro
acquistato, un gesto che le sembrò un saluto. Il motivo le
fu
chiaro solo quando scorse la copertina:
era il suo libro, quello che stava per comprare anche lei.
Lui sparì tra gli scaffali della libreria, diretto
verso l'uscita.
Lentamente, Ami venne invasa da una piccola
risata. Tornò ad aprire le pagine nel punto in cui
aveva tenuto il
segno,
ma continuò a voler ridere.
In fondo non la divertiva proprio la mancanza di silenzio
che aveva in testa? Se le sue amiche fossero state presenti,
intorno a lei vi
sarebbe stato tutto tranne che quiete.
Era come sentire le loro voci.
Oh, se al suo
posto ci fosse stata Minako, l'avrebbe già vista in
strada,
in piena rincorsa. Minako non si sarebbe lasciata
sfuggire una preda del genere, non
dopo tante succose
occasioni. Rei neppure, a pensarci bene; senza essere troppo
allusiva, anche lei avrebbe trovato
un modo per iniziare una conversazione casuale. Makoto... Makoto
avrebbe già
detto che quel ragazzo
assomigliava al senpai che era stato il suo primo amore. Somigliavano
tutti in un modo o nell'altro all'ormai leggendario senpai.
Le sue amiche sarebbero state spontanee nelle loro reazioni e
in
fondo lo era anche lei. Lei al massimo
guardava, tutt'al più considerava brevemente la
possibilità di qualcosa per cui non avrebbe certo
preso l'iniziativa. Ora aveva anche ottimi motivi per non prenderla mai.
Già, ricordò. Per lei tutte quelle
coincidenze non erano che un
enorme
spreco.
Eccola lì, che continuava ad incontrare l'esemplare
di sesso
maschile più bello che avesse mai visto dal vivo...
Arrossì. Tentò di frenarsi ma peggiorò
la situazione.
Si scosse. Insomma, eccola, mentre
continuava ad incontrare un ragazzo che frequentava
l'università
dei
suoi sogni, interessato allo studio, che leggeva i suoi stessi libri
e... non le serviva più incontrarlo.
Incupendosi, aggrottò la fronte e tornò
a leggere.
Giovedì.
Di pomeriggio uscì con le ragazze a fare shopping.
Non era la sua attività preferita, ma era sempre
divertente
girare per negozi assieme a loro. Finiva col provare maglioni dei
colori preferiti da Minako, minigonne consigliate da Makoto, camicette
scelte da Rei e accessori che Usagi non faceva che metterle in mano.
Quel giorno - come sempre quando usciva con loro - terminò
l'escursione nel quartiere commerciale con due nuovi acquisti, un
maglioncino azzurro e una bella gonna. Aveva smesso di tormentarsi per
averli presi nell'esatto momento in cui li aveva pagati. Non aveva
bisogno di nuovi vestiti, ma quelli le stavano davvero bene.
Seduta davanti ad una spremuta d'arancia, li rimirò
nei
sacchetti.
«Ami.»
«Hm?»
Appoggiata coi gomiti sul tavolo del locale in cui si erano
fermate,
Usagi le indicò l'entrata con un dito.
«Là
c'è
un
ragazzo che ti sta guardando.»
Ami si voltò immediatamente.
Era lui, sempre lo stesso ragazzo di quei giorni, in procinto
di andare via.
Dietro i suoi occhi Ami intravide una riflessione che si
sciolse in un
sorriso aperto. Lui la salutò con una mano alta.
Lei ricambiò senza pensarci e lo osservò
uscire
dal locale.
Quando tornò a girarsi verso il tavolo, scorse di
sfuggita
l'espressione esterrefatta di Minako. Guardò Rei per capire
ma non trovò aiuto, solo una sorpresa ancora più
grande. Makoto e Usagi erano nella stessa condizione.
«Cosa c'è?»
Makoto sbatté le palpebre. «Ami... Dove
hai
conosciuto quel tipo?»
«Non lo conosco. Ci siamo visti per caso
qualche
volta.»
«Visti?»
Il tono di Rei andò oltre la curiosità.
«Non ci ho neanche mai parlato.»
«Però ti ha salutata.»
Minako
aveva incrociato le braccia.
«Solo per essere gentile.»
Minako riportò in bocca la
cannuccia del drink analcolico. «Sai solo tu come fai a
rimanere tanto tranquilla.»
«In che senso?»
Rei roteò gli occhi verso il soffitto.
«Eppure sembrava
guarita
quando c'erano i Three Lights.»
Cosa c'entravano loro ora?
Usagi ridacchiò. «Ami, stanno solo
cercando di dire che
quel
ragazzo era veramente carino. Quasi
quanto Mamo-chan.»
Minako torturò la cannuccia.
«Per te sono tutti secondi a Mamo-chan.»
«Ehi, solo io posso chiamarlo
così!»
Makoto e Rei si unirono alla risatina di Minako ed Ami ne
approfittò
per tornare a sorseggiare la sua spremuta.
Non aveva voglia di parlare di ragazzi. Di quello in
particolare.
Un colpo al tavolo la fece sussultare: Minako vi aveva
sbattuto sopra
i pugni.
«Ami, riprenditi! Quando
una ragazza si trova davanti uno straniero bello come quello, almeno un
po' si
sconvolge.»
Scusate.
Il timbro grave della voce di lui le
risuonò
nella mente. «Parla
giapponese.»
Gli occhi di Minako divennero fessure. «Non avevi
detto di
non averci
mai parlato?»
Il tono accusatorio la fece sorridere. «L'ho solo
sentito
parlare.»
Minako abbandonò la testa contro il tavolo.
«Ci
rinuncio. Lei non lo cerca neanche e se ne becca uno così,
mentre noi che passiamo a setaccio la
città non troviamo uno straccio di fidanzato.»
«Non siamo fidanzati.»
«Sappi solo che se dovesse succedere...»
Minako le mostrò un dito ammonitore, «dovrei
eliminarti, Ami. Sarebbe
chiaro che sei concorrenza pericolosa.»
Le uscì una risata. Minako le faceva quell'effetto.
La sua allegria, il suo
entusiasmo... lei sognava ancora di trovare
l'amore.
Era bello vedere quel tipo di sogni riflessi negli occhi di
qualcuno a
cui voleva bene. In sé erano vita, speranza.
Ami non
voleva distruggerli. Parlando dei
suoi timori con le altre lo avrebbe fatto. Se loro non si erano mai
preoccupate del futuro, non aveva senso rovinare la loro
felicità.
Volle rassicurare Minako. «Non ti
preoccupare.»
Venerdì.
Dopo le lezioni scelse di fare un giro per il parco prima di
tornare a
casa.
Il parco era pace. Lei adorava la pace, la meraviglia della
natura che,
nella sua infinita complessità, trovava un equilibrio
costante,
un'armonia, un ordine.
Passando sopra un piccolo ponte, si fermò a
contemplare
alcune anatre che, tranquille, nuotavano nel laghetto sottostante.
I colori delle loro penne erano simili, anche se con
gradazioni e
dimensioni delle macchie lievemente differenti. Forse se si
fossero potuti
intabulare quei dati sarebbero venute fuori le gradazioni di
colore più diffuse con relative misurazioni. Era probabile
che i dati fossero distribuiti secondo una curva... normale?
Riportò alla mente un
passaggio di teoria statistica e si
rese conto che una distribuzione T di student avrebbe fatto
maggiormente al caso suo.
Venne distratta da una figura che correva, che si avvicinava.
Non riuscì a credere ai suoi occhi.
Il ragazzo di quei giorni, in tuta da jogging, stava avanzando
verso di lei. Lui la notò e si stampò in faccia
un'espressione stupita, l'ennesima.
Ami si attese di nuovo un saluto divertito, ma questa volta
lui non passò
oltre. Rallentò invece, fino a fermarsi a pochi passi da
lei. La osservò con quello strano paio di occhi chiari, un
contorno
scuro attorno a iridi azzurre che
sfociavano nel verde. Mare tropicale, assolate spiagge da cartolina.
«Sai...» Lui
accarezzò con un sorriso la parola. «Forse
se ci
presentiamo smetteremo di incontrarci.»
Le sfuggiva la logica dell'affermazione. E non le piaceva
quella vicinanza tra loro, quell'incontro.
Come se gli avesse
chiesto di chiarire, lui continuò. «Sono cinque
giorni di seguito che
ci incontriamo. Tu non stai seguendo me né io sto
seguendo te. Se il caso ha deciso che dobbiamo conoscerci, tanto
vale accontentarlo.»
«Il caso è un insieme non ordinato di
eventi. Non credo c'entri.» Alle sue stesse orecchie la
risposta
trasudò acidità.
Stranamente, a lui sembrò interessare.
«Mi chiamo Alexander Foster.»
Che bisogno aveva di presentarsi?
Non le lasciava neppure scelta: non ricambiare col proprio
nome sarebbe
stato maleducato. «Ami Mizuno.»
Lui annuì e... non disse altro. Nulla.
Lentamente, lo scorrere dei secondi cominciò a
farsi pesante.
Sembrava una sfida sottile, un invito a parlare per prima. Per
farsi
avanti?
Sarebbe rimasto deluso.
Gli uscì un sorriso consapevole. «Non lo
chiedi?»
Hm?
«Perché parlo giapponese.»
«Suppongo che tu sia cresciuto qui, lo parli bene.
Comunque
è
una domanda personale.»
«È vero. Però mi viene posta
con una certa requenza da
completi
estranei.»
Come se a tutti dovesse interessare conoscere la sua vita
privata. Ami
preferì evitare di commentare e scelse la stessa soluzione
che aveva adottato lui: il silenzio.
Affinché cogliesse il messaggio, lasciò
vagare lo
sguardo, sperando che presto se ne andasse.
Trascorsero lunghi istanti, ma lui persistette a restare fermo
su un lato
del
suo campo visivo, immobile, in un posa che non trasmetteva un grammo di
disagio. Iniziò a percepirlo lei: era sotto osservazione,
valutata. Una qualunque reazione diversa dall'indifferenza sarebbe
parsa una debolezza perciò, per distrarsi e mantenere la
calma, focalizzò l'attenzione sulla distesa d'acqua
dietro di lui. Era blu scuro, con una soffusa tonalità
grigia. Acque
invernali, spente. Belle.
La pervase una sensazione di quiete. L'acqua
era proprio il suo elemento.
«You
are quite
the strangest girl...»
Tornò alla realtà. Che bisogno
c'era di parlare in inglese? «Ti capisco bene. Non
è gentile.»
Nella sorpresa di lui non vi fu neppure un pizzico di
vergogna.
«Già, il libro era in lingua
originale.» Piegò le labbra in un sorriso da cui
era sparito il desiderio di giocare.
«Quello che ho detto non
voleva avere un'accezione negativa. Pensavo che sei molto strana solo
perché non riesco a definirti e normalmente...»
fece una pausa, «non mi
è
difficile. Comunque scusa.»
Lei si limitò ad annuire, cercando di non prestare
attenzione alla serietà del suo tono.
Lui studiò la sua espressione per un altro lungo
momento. «Allora... è stato un
piacere conoscerti, Mizuno-san.»
«Sì»
fu l'unica cosa che le uscì dalla bocca.
Lui riprese a correre e in pochi secondi fu lontano.
Lei rimase immobile.
Era come se fosse appena terminata una strana commedia.
Avrebbe voluto trovarla divertente, ma non le riuscì.
Non ha senso,
pensò. Non
aveva alcun senso che continuasse ad incontrare quel ragazzo. Non che
la
sua irritazione fosse più logica: lui si
era solo presentato, non le aveva certo fatto chissà
quale avance. Non c'era alcuna ragione per collegare quei loro incontri
alla
possibilità di ...
Già, ammise a se stessa. L'unica ragione risiedeva
nella sua testa: lui le
piaceva.
Le piaceva a quel livello superficiale che portava le persone
a voler
conoscere meglio l'oggetto del loro interesse. Non era solo il suo
aspetto. C'era qualcosa nel modo in cui si poneva, nel
modo in cui parlava, che... che...
Qualunque cosa fosse, non aveva
senso esplorarla. Era meglio per tutti che non succedesse mai niente
tra loro.
Non aveva senso neppure considerare cosa fosse meglio fare:
siccome non
esisteva alcun
fato, lei non avrebbe mai più incontrato quel tipo.
Lanciò un'ultima occhiata alle anatre e si
allontanò dal ponte, con calma.
Sabato.
A mezzogiorno andò all'ospedale a pranzare
assieme
a sua
madre.
Durante quella settimana si erano viste poco.
Riflettendoci, era una situazione
frequente. Era stata lei stessa a proporre
quell'incontro, nel tentativo di rimediare a quella
mancanza. La proposta aveva strappato un sorriso a sua madre; per via
degli
impegni di entrambe, non pranzavano quasi mai insieme.
Sì, si disse Ami. Era ora di iniziare a trascorrere
più tempo con la sua cara mamma. E avrebbe
scritto a suo padre, magari sarebbe andata a trovarlo -
per stare qualche giorno anche con lui - durante le vacanze
che
sarebbero
venute.
Era un buon piano.
Uscendo dall'ufficio di sua madre decise di approfittare della
bellezza del parco che circondava l'ospedale. Era una
piccola oasi ben curata, pensata per il riposo della mente e del corpo.
Accanto alla panchina a cui si avvicinò ne trovò
un'altra molto più
piccola e buffa, a
misura di bambino. In preda a un
istinto
giocoso, vi si sedette sopra. Accucciata, si
sentì a suo modo un gigante. La sediolina di
legno le impediva di piegare le gambe e le permetteva di toccare il
terreno con le mani, eppure... era divertente stare lì,
quasi come se avesse la metà dei suoi anni.
Tirò fuori dallo zainetto il libro che si era
portata
dietro. Aveva terminato in un solo giorno la lettura del romanzo
acquistato quello stesso mercoledì, ed era stata costretta a
mettere in borsa un evergreen della sua biblioteca, un testo che non si
sarebbe mai stancata di leggere.
Sul marciapiede risuonò un rumore di passi.
Ne udì tre - solo tre - ma seppe comunque chi era.
Non lo guardò, ma le gambe di lui si fermarono
davanti ai
suoi occhi.
«Non è possibile»
lo sentì dire.
La risata quasi la offese.
Il suo silenzio doveva aver comunicato il suo disappunto,
perché lui tossicchiò, a disagio.
Ami sollevò gli occhi. Lui era uguale al giorno
prima - ovvero una specie di tortura costruita
su
misura per lei, pensata per tormentarla col pensiero di una tentazione
irraggiungibile, amara proprio per quella ragione.
Il ragazzo lanciò un'occhiata verso la struttura
dell'ospedale. «Non sei fuori dal pronto soccorso
perché qualcuno che
conosci
si è fatto male, vero?»
«No. Mia madre lavora qui, sono venuta
a trovarla.» Avrebbe dato meno
spiegazioni se lui non le fosse parso preoccupato.
«Io sono qui
perché un mio conoscente si è
rotto un
braccio. Gli stavo tenendo compagnia.»
Il commento più indicato le sembrò un
cenno
affermativo del capo, noncurante.
Lui inclinò la testa e concentrò lo
sguardo su di
lei. «Vieni spesso a
pranzare in questo posto?»
Che domanda era? «No, mai.»
«Allora oggi ci siamo incontrati in luoghi che non
frequentiamo
in nessun altro momento. È la sesta volta di seguito... Pare
che il
caso cominci ad
assumere un ordine.»
Il riferimento alle sue parole del giorno prima era palese.
«Non c'è nessun ordine.»
Il tono piccato non lo scoraggiò.
«Probabilmente no, tuttavia, giusto per coprire ogni
possibilità... Sono al primo anno di fisica alla
Todai.»
Eh?
«Se ora mi dici anche tu dove studi, potremo
eliminare la
variabile casuale dai nostri incontri. È un
ragionamento privo di basi sensate, ma, se avremo qualche strumento
per
ritrovarci, non servirà più il caso per farci
incontrare.
Diventerà una nostra decisione.»
Decidere di incontrarlo nuovamente? Lei voleva tutto il
contrario.
Lui la studiò. «Intendevo dire che
potremmo anche
decidere di non incontrarci
mai più.»
«Sono al secondo anno, istituto Azabu.»
Per un
momento si pentì di aver risposto tanto in fretta, ma la
possibilità
di porre fine alla conversazione ke era parsa improvvisamente vicina.
Lui
- Alexander - annuì di nuovo. Rilasciò uno
sbuffo, per metà divertito, per metà rassegnato e
si chinò un poco.
«Visto che è l'ultima volta che ci
vediamo,
vorrei
saperlo: detesti l'idea di incontrarmi di nuovo, è chiaro.
È per qualcosa che ho
fatto?»
Ami si vergognò come una ladra. Lui
non aveva nessuna colpa dei suoi pensieri: fargli capire che non
vedeva l'ora di sbarazzarsi della sua presenza era estremamente
sgarbato. Non aveva mai
trattato così male una persona. Prima di lui,
d'altronde, non le era mai capitato di
desiderare - anche solo un poco - una cosa che non avrebbe mai
potuto avere. Non prima di qualche secolo, almeno.
«Volevo scusarmi, se era stato
così.» Il ragazzo sembrava rassegnato.
«Ma se
non vuoi
rispondere, non ha importanza.»
Ami si
decise a riprendere un minimo di controllo. Inspirò aria
pulita e un po' di buon senso. «Scusami per
averti
trattato male.
Non dipendeva da te.»
No, lui non
aveva proprio colpa se, oramai, l'unica cosa che lei era in grado di
mostrare ad un ragazzo che le interessava era quanto le desse
fastidio
averlo intorno.
«È un periodo...» Le
mancò la forza per terminare. Si dedicò
a guardare l'erba e inspirò
profondamente, sconsolatamente, nel tentativo di mandare
via la
sensazione da cui veniva invasa ogni volta che lo
vedeva. Rammarico.
Con la coda dell'occhio vide la gamba di lui che si muoveva -
non per andare via, ma per avvicinarsi di un passo.
Cercò di raccogliere il coraggio di salutarlo, ma
quello che vide nei suoi occhi le provocò una stretta al
cuore.
Pietà. Compassione.
Ora era questo
che provocava negli altri, solo a guardarla? Se solo lui avesse saputo
quanto era gravoso il futuro che l'aspettava, l'avrebbe compatita
ancora di più.
Incontrò la verità in quel modo.
Lei... si compativa. Da sola.
Fu un singolo momento di incredibile chiarezza - non voluto,
pesante,
opprimente. Minacciò di scoppiarle nel petto e tutto
quello che lei riuscì a fare fu rimettere il libro nella
borsa, agitandosi.
Doveva andare via da lì.
Le arrivò alle orecchie il suono di uno strappo.
Prima che fosse riuscita ad alzarsi, si ritrovò il
ragazzo
di
fronte, inginocchiato a due passi di distanza. Lui le stava offrendo
una...
margherita?
«Non c'era niente di meglio in giro, ma è
sempre
un fiore.»
Glielo porse, sfiorandole il dorso delle dita coi petali.
«Per te.»
La sua mano si girò da sola. Il fiore le
finì sul palmo, bianco e leggero, sottile. Prezioso.
Il vento minacciò di farlo volare via ed Ami lo
chiuse nel
pugno.
Non era altro che un fiore strappato all'erba,
solo una
margherita
di campo. Eppure... Lo accarezzò coi polpastrelli. Eppure
era
fonte di un piacevole calore. Era la volontà di una
persona di
farla stare meglio, di aiutarla.
Che cosa carina.
Prese
la margherita tra il pollice e l'indice, facendola roteare su se
stessa.
Il primo fiore che avesse mai ricevuto in dono, regalato da un
ragazzo
che le piaceva.
Che cosa scioccamente romantica.
Il suo cuore iniziò a battere un po'
più forte e fu
così... bello. Era talmente bello sapere che poteva
succedere anche a lei. Quella sensazione poteva appartenerle
già nel presente, non
solo in un futuro
lontano decenni, o secoli. Per quell'avvenire non era cambiato niente,
ma dal nulla, in un giorno
qualunque, le era capitato di provare una sensazione tanto dolce
ed era meraviglioso.
In quel momento il fiore le sembrò
il miglior regalo che avesse mai ricevuto.
«Grazie.» Riuscì a staccare lo
sguardo
dalla margherita.
Nel viso di lui incontrò un'espressione strana,
molto intensa.
Nel suo stomaco volarono farfalle.
Il ragazzo si tese e si alzò.
«È solo un
fiore. Ma se
è bastato a farti stare meglio, allora hai la forza di
superare qualunque problema tu stia avendo.» Lui
provò a scrollare le spalle, un movimento che non
terminò. «Devo andare. Continua a
stare allegra, Ami Mizuno, ti si addice davvero.»
Da quel giorno Ami smise di incontrarlo.
Domenica non lo vide.
Lunedì neanche.
Martedì no.
Mercoledì neppure.
Giovedì uscì per quasi tutto il giorno -
non per
poterlo incontrare, no. Ottenne come unico risultato quello di tornare
a casa tardi.
Poi... smise.
Smise di voltare la testa ogni volta che le sembrava di
intravedere una capigliatura più chiara.
Incontrare quel ragazzo era stato ciò di cui aveva
bisogno.
Fino al giorno in cui avevano parlato non si era
accorta
di essersi nascosta una verità importante: non aveva mai
compreso realmente cosa le facessero provare le conclusioni
a cui era arrivata sul proprio futuro. Si era rifiutata di
esplorare le
sensazioni che avevano iniziato a risiedere dentro di lei. In parte
inconsciamente, in parte no.
In fondo non era bello sapere che, se
fosse stato
il destino di qualcun altro,
lei stessa avrebbe provato genuina compassione per quella sorte.
Compassione.
Pietà.
Aveva provato quei sentimenti pensando all'avvenire che
l'attendeva.
Aveva sbagliato. Era sbagliato focalizzarsi su cose
che potevano non accadere.
Forse sarebbero accadute. Molto
probabilmente sì. Ma nel frattempo, in un giorno qualunque,
poteva succederle...
qualunque cosa. Incontrare quel ragazzo era servito a ricordarle
quell'unico ma
importante fatto:
c'era speranza ogni giorno. La speranza di cose inaspettate.
Rivederlo, tuttavia, non sarebbe stata una di queste. Se ne
convinse
col passare dei giorni.
Va bene
così.
Per il giovedì successivo la sua vita era tornata
alla
normalità.
Almeno fino a quando non lo rivide di nuovo, in
piedi, davanti all'ingresso della
sua
scuola.
CONTINUA ...
Nuove note:
spero che la storia sia piaciuta a chi la sta leggendo, sia per la
prima volta che dopo la revisione.
Questa coppia mi è particolarmente gradita tra
quelle che ho
inventato, essendo Alexander il primo personaggio originale da me
concepito. Ogni parola su di lui e questa fanfiction perciò
sono sempre graditissime!
Elle
Note della prima stesura, le lascio soprattutto per ricordo.
- alla faccia della one-shot :) Probabilmente sarà
una
storia in tre parti. Non ce la facevo davvero a farci stare tutto in un
solo capitolo, per quanto lungo. Credo che ciò abbia molto a
che fare col nuovo personaggio che ho creato: penso che sia necessario
dare un buon background, far capire il carattere di un personaggio
perchè i lettori lo capiscano/comprendano davvero. Non
volevo farlo in un paragrafo, magari dicendo cose di lui che invece
avrei potuto più efficacemente mostrare; ma questo appunto
richiede più spazio
- anche questa storia, come già 'L'indole del
fuoco', si
inserisce nella linea che ho creato con 'Oltre le stellÈ. Ma
non
è necessario aver letto quella storia per capire, dato che
le informazioni necessarie le ripeto qui.
- la trama dietro questa storia dedicata ad Ami rispecchia un
po' di
più la versione manga della storia di Sailor Moon: nel manga
non c'è stata nessuna glaciazione e il regno di cui Usagi
è sovrana è durato appunto per molti secoli.
Nella versione manga Chibiusa ha in effetti più di novecento
anni, quindi non è una bambina normale.
- senpai (significato): compagno di scuola più
grande