Prologo
Principi
Vista
dall'alto, la grande città sembra un caleidoscopico paradiso
di asfalto, case e giardini. E, camminandoci dentro, è davvero
così.
Le
larghe strade di asfalto di allungano in tutte le direzioni, in una
fitta rete dove le automobili sfrecciano in tutte le direzioni,
brillanti come diamanti grazie alle carrozzerie lucide.
Il
sole e i lampioni ai lati delle case garantiscono tanta luce che pare
non debba mai calare la notte. Grazie a questo, i grandi palazzi del
centro, trionfi di cemento armato e vetro che nella loro altezza
sembrano voler sfidare il cielo, splendono come cavalieri in
armatura: epici eroi che, con la forza del lavoro, della politica e
della burocrazia, garantiscono l'ordine nella vita dei cittadini.
Ma
sotto i grandi palazzi, dietro le strade illuminate e le famiglie
felici, un altro tipo di ambiente si sviluppava: in una eterna
penombra dovuta alle decine di piani dei palazzi intorno a loro, la
parte più disagiata della popolazione dava libero sfogo ai
loro istinti.
Nonostante
le strade sporche dalle cartacce e sacchetti buttati a terra alla
rinfusa, vagabondi e senzatetto restavano seduti su pannelli di
cartone, imbacuccati in coperte di flanella mentre battevano i denti
e guardavano con occhi supplichi i passanti; nelle piccole case tra
un palazzo e l'altro, una lanterna rossa appesa alla parete lasciava
ben intendere che genere di attività si stesse svolgendo al
suo interno; oscenità scritte sulle pareti e un notevole
viavai e passamani di buste, siringhe e denaro lasciavano ben
intendere quale clima si respirasse dietro alla facciata di ordine
che il centro città dava.
In
mezzo a questo degrado, una figura massiccia e imponente avanzava,
con le mani intrecciate dietro la schiena, respirando a pieni polmoni
quell’ambiente che, per lui, sapeva di casa.
Lui,
un armadio di due metri per più di un quintale di peso che
rispondeva al nome di Alastor Sullivan, era il classico soggetto che
la gente evita come la peste. Grosso come un bue e poco più
sveglio, si guadagnava da vivere usando la sua forza erculea per
sistemare alcuni affari «ostici» per conto di una delle
famiglia malavitose del posto.
La
famiglia Sullivan esercitava un rigido controllo su una parte della
città e si era perso il conto di ossa che avevano fatto
spezzare e denti fatti ingoiaRe per estorcere denaro o minacciare. E
una buona parte di queste spedizioni punitive erano affidate ad un
solo uomo: Alastor. Il nipote del padrino.
Era
ironico vederli assieme, poiché il capofamiglia, Lucius
Sullivan, in piedi non arrivava nemmeno al petto del suo scagnozzo,
eppure il rispetto tra i due era tangibile nell’aria, ogni
volta che i due si incontravano.
Rispetto,
non affetto. Non bisogna mai mischiare gli affetti con gli
affari e Alastor, almeno in apparenza, sembrava avesse accettato
questo fatto.
Il
suo ambiente era quello, una strada, tanta criminalità intorno
e un’alta probabilità di farsi passare quel prurito
fastidioso alle mani che sentiva spesso.
Sì,
perché se c’era qualcosa che Alastor soffriva era quel
dannato prurito che affliggeva quelle mani grandi come badili, più
simili a zampe come pelle, piuttosto che veri e propri arti umani. Se
c’era qualche spedizione da compiere per conto dello zio,
poteva farselo bastare per una giornata, ma quando gli affari sono
stabili… insomma, c’è bisogno di qualcos’altro.
Aveva
provato a farsi passare questo sfogo andando in palestra, ma il solo
fatto di dover seguire delle regole per mettere fuori gioco qualcuno
gli levava tutto il divertimento. Al quarto incontro perso perché,
a quanto sembrava, non potevi prendere un uomo per la cintura e
lanciarlo come un pacco postale fuori dal ring, Alastor aveva capito
che quello non era il suo posto.
Certo,
era un atteggiamento rischioso e tutti i tagli e cicatrici che si
potevano vedere sul suo volto e sul petto lasciavano intendere come
la sua cortesia nel limitarsi a lasciare occhi neri e fratture
multiple dietro di se veniva spesso ricambiata con una quantità
di piombo pari al suo peso.
Non
che gli dispiacesse, ovvio. Era giusto lasciare qualcosa con cui
compensare il divario di forze tra loro due.
Nonostante
tutto, c’erano una regola o due che affollavano la testa,
principi che seguiva diligentemente: era più bestia che uomo,
questo lo ammetteva anche lui, ma anche le bestie hanno i loro
principi!
Forse.
Nel
dubbio, lui gli aveva.
Quella
sera in particolare, mentre avanzava tra i rifiuti di un vicolo
perpendicolare alla via principale, avrebbe dovuto rispettare uno di
quei due principi.
Prima
di svoltare, udì un rumore inconfondibile: passi rapidi, gente
che si butta a lato per non farsi travolgere e un pesante ansimare
sommerso dalle risate di alcuni aguzzini. Qualcuno che scappava, Dio
sapeva da cosa e perché. Dal suono che facevano i suoi passi,
il fuggiasco doveva avere indosso delle scarpe con i tacchi alti:
forse era una prostituta che scappava da clienti troppo violenti.
Almeno,
in quel neurone che rimbalzava nel cranio di Alastor, se qualcuno
indossava i tacchi doveva essere una donna. Niente mezze misure.
Sfortunatamente
per gli aguzzini, uno di questi principi che regolavano la vita di
Alastor era che le donne non si potevano toccare neppure con un
fiore: per quanto poteva saperne, potevano essere la madre di
qualcuno… ed era meglio non dire cosa lui aveva fatto al cane
che aveva avuto l’ardire di alzare una mano su sua madre.
Si
può solo dire che alzò una mano, perché
l’altra stanno ancora cercando di levargliela dalla bocca.
Alastor
rimase in attesa, nascosto dietro l’angolo in attesa che la
donna in pericolo gli passasse davanti, così da poterlo
lasciare divertire con gli assalitori.
Passò
avanti a lui una ragazzina dai lunghi capelli scuri e vestita di
stracci. Nonostante le scarpe, le sue gambe innaturalmente lunghe le
davano una grande velocità.
Ma
questo non gli importava molto, così come le ragioni dietro la
sua fuga: forse doveva dei soldi a quei tizi, forse si era spinta
troppo in là con gli insulti…
Non
appena la donna superò Alastor, lui sbucò dal vicolo
con il braccio teso, prendendo in pieno collo il primo degli
inseguitori. Questo, una volta colpito, fece una capriola a mezz’aria
prima di atterrare sgraziatamente di schiena sull’asfalto del
vicolo, emettendo in tutto questo tempo solo un gridolino soffocato.
Il
secondo, senza ancora accorgersi di cosa stesse succedendo, ricevette
un diretto sul volto che percepì come se avesse corso contro
un muro e finì con il fare compagnia all'altro già per
terra.
Il
terzo, infine, fece appena in tempo ad accorgersi che due suoi
compagni si erano scontrati contro un muro che aveva girato l’angolo,
prima di trovarsi afferrato per la faccia e sbattuto contro la
parete. Se la faccia non va alla parete, la parete va alla faccia.
Terminata
l’opera, Alastor rimase in piedi, osservando i tre tizi che
tentennavano ad alzarsi mentre si massaggiavano il grosso livido sul
muso. Si trattava di teppisti estremamente stereotipati: fisico esile
e slanciato, occhialoni da sole, naso aquilino, piercing sulle labbra
e le narici, una fantasiosa cresta sul capo altrimenti rasato e un
linguaggio da strada così abusato da aver perso ogni
credibilità e tono di minaccia.
Quando
questi riuscirono finalmente a rialzarsi, trovarono Alastor a
guardargli in cagnesco massaggiandosi le nocche.
Ricordandosi
improvvisamente di non avere a disposizione un fucile anticarro, o
almeno una falange romana per difendersi dall'energumeno, il trio si
diede alla fuga correndo di gran carriera nella direzione opposta a
dov'erano venuti.
Rimasto
solo, Alastor udì qualcuno cadere. Voltandosi, riconobbe la
donna che stava scappando: uno dei tacchi le si era rotto ed era
rovinosamente inciampata su di una pila di sacchi dell’immondizia.
Senza
aggiungere una parola, lui la raggiunse con passo pesante.
La
ragazza lo guardò, indecisa se essere spaventata o no: ai suoi
occhi apparve un omone semplicemente enorme, il volto squadrato pieno
di tagli e cicatrici, i capelli scuri che cadevano lisci lungo il
volto e il fisico possente, sembrava un blocco di granito animato da
qualche incantesimo.
Lentamente,
le labbra di Alastor si piegarono in un timido sorriso. Si stava
sforzando di apparire affabile, questo era evidente, eppure sul suo
volto quel gesto appariva più come uno spasmo che un gesto di
galanteria.
Finalmente
poteva guardarla meglio: quello che gli era parso un vestito di
stracci era una giacca di jeans dalle maniche strappate come andava
di moda, una canottiera e un paio di lunghi jeans bordeaux tenuti
legati in vita da una coppia di cinture. I capelli, lunghissimi e
scuri con fantasiose mesches azzurre, erano raccolti in due
interminabili code poste ai lati della testa che scendevano dietro le
sue spalle. Era una ragazza dal fisico estremamente slanciato ma
atletico, eppure di fianco ad Alastor appariva come un fringuello.
I
suoi occhi erano viola ed enormi, Alastor ci si poté
specchiare non appena i loro sguardi si incrociarono.
Senza
aggiungere una parola, lui allungò una mano per aiutarla ad
alzarsi. Aiuto che questa ragazza accettò, non senza qualche
titubanza.
Alla
fine, quando ritornò in piedi, Alastor parlò con voce
grave e tonante «Di solito, in queste occasioni, si
ringrazia.»
La
donna, ritrovato apparentemente il proprio spirito ribelle, sbuffò
guardandolo dritto negli occhi. Quel commento così diretto
l’aveva piuttosto infastidita «Cosa ti aspetti, che
mi prostri ai tuoi piedi?»
«Mi
accontenterò di un grazie.»
rispose Alastor, indifferente all'insulto e facendo spallucce.
La
ragazza, ritrovato l'equilibrio poco dopo, lasciò la presa
sulla mano di Alastor e agitò le mani sui pantaloni per levare
lo sporco depositato dopo la caduta, aggiungendo «Devi
scusarmi. Sono un po’ scossa… il fatto è che sono
in una brutta situazione. Molto brutta…»
Alastor
affondò le mani nelle tasche della giacca con il cappuccio,
osservando «Non ho molto da fare, questa sera.»
La
ragazza rise, ritornando in piedi «Oh, credimi, è una di
quelle situazioni che non si risolvono in una serata…»
«Perché
allora non cominci con il dirmi il tuo problema?»
Infastidita
dall'avere a che fare con uno sconosciuto così insistente, la
ragazza incrociò le braccia al petto e si piegò verso
la sua faccia, domandando «Posso chiederti
per quale motivo vuoi tanto aiutarmi?»
«Perché
l’ho appena fatto. Ma, se sei così nei guai come dici,
presto ritorneranno. E non mi piace lasciare qualcosa a metà:
se si inizia qualcosa è giusto finirlo.»
La
ragazza rimase per qualche istante perplessa. La semplicità
con cui l'omone avanti a se parlava era tale che istintivamente
avrebbe voluto chiedergli da quale fattoria venisse, ma alla fine
annuì, sospirando mentre andava a massaggiarsi la testa «E
va bene… odio dirlo, ma un aiuto è proprio
quello di cui ho bisogno, in questo momento.»
«Ora
ragioniamo.» commentò Alastor, annuendo soddisfatto,
prima di presentarsi «E comunque, il mio nome è Alastor
Sullivan. E tu sei…»
«Aria.»
Rispose la ragazza «Mi chiamo Aria Blaze.»
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