And we'll be good CAP 1
And
we'll be
good
Nonostante
Noah fosse scosso per quello che aveva passato, insistette ugualmente
per guidare. Ed io, seduta di fianco a lui, non potevo far altro che
guardarlo preoccupata. Il viaggio verso Richmond, Virginia, per
ritrovare sua madre ed i suoi fratelli era stato inutile, purtroppo.
Il vicinato in cui viveva e che, in teoria, era protetto da alte
mura, non aveva retto all’avvento del nuovo mondo. Una volta
scavalcati gli ostacoli, si era presentato davanti a noi uno scorcio
tranquillo, silenzioso. E ciò non aveva presagito nulla di
buono. Sembrava una delle tante città fantasma che già
troppe volte avevo incontrato, più che il tranquillo quartiere
di Shirewilt Estates. Avevo guardato Noah, che se ne stava al mio
fianco con la fronte corrugata dalla preoccupazione ed il corpo
rigido. «Credi che–», avevo provato a dire, ma
non mi aveva dato il tempo di completare la frase. «Andiamo.
Casa mia è poco distante dalle mura», aveva detto, con
un tono talmente spento che non avevo trovato la forza di
replicare. Rafforzando la presa attorno alla pistola, lo avevo
seguito, sperando con tutta me stessa che quella ispezione portasse a
qualcosa di buono per Noah. Le strade erano deserte e disseminate
di cadaveri, ma lui aveva continuato a stringere i denti nonostante
le lacrime che gli rigavano le guance scure, diretto verso casa
sua. Forse
sua madre e i suoi fratelli si sono salvati,
avevo pensato. Forse… Le
mie speranze si erano infrante definitivamente quando, entrati in
casa sua, la prima cosa che avevamo visto era stato proprio il corpo
di sua madre, riverso a terra e senza vita. «N-No…»,
aveva sussurrato Noah, guardando la scena davanti a lui con gli occhi
sbarrati e pieni di lacrime. Mi ero avvicinata con uno slancio,
stringendogli la mano e posandogli la fronte contro la spalla,
premendo per fargli avvertire la mia vicinanza. «Mi dispiace
tanto» erano state le uniche parole che erano riuscite a
vincere il nodo che avevo in gola. Era crollato per terra,
singhiozzando, prendendosi la testa tra le mani e accucciandosi su se
stesso. Ero rimasta in piedi in caso di necessità, pronta ad
attaccare, ma la mia mano non ci aveva messo molto a trovare la sua
spalla per stringerla. Gli occhi avevano iniziato a pizzicarmi, era
stato insopportabile vederlo così. Potevo capire come si
sentiva ad aver perso la sua famiglia, ma in realtà non potevo
comprendere fino in fondo il suo dolore. Lui non li vedeva da un
tempo troppo lungo, non era con loro quando il peggio era successo.
Aveva passato un anno lontano, senza sapere, aggrappato solo alla
speranza che fossero ancora vivi e alla paura che non fosse così.
Anche io avevo perso un padre, una madre ed il resto della mia
famiglia, ma ero stata talmente fortunata, a differenza di Noah, da
passare ogni minuto del mio tempo con loro, prima della fine. Solo di
Maggie non sapevo nulla, e pensarci fu inevitabile. Con cautela mi
ero avvicinata al corpo della madre e, vedendolo più da
vicino, avevo notato il cranio completamente sfondato, aperto, il
sangue incrostato e nero che scendeva fino alla spalla. Poco distante
c’era una stola, che usai per coprire il corpo in segno di
rispetto. «Riposa in pace», avevo sussurrato, conscia
del fatto che, ormai, stava riposando da tanto tempo. Avevo
rischiato di fare la stessa fine una volta entrata in quella che
doveva essere la camera dei fratellini di Noah. Uno dei gemelli mi
era piombato addosso dal nulla, pronto a mordere, la follia negli
occhi e la bramosia che smuoveva quel corpo morto che si esprimeva
nei versi tipici dei vaganti. Dallo spavento ero inciampata in un
giocattolo lasciato a terra, e mi ero ritrovata a dover resistere
all’irruenza del bambino, trattenendolo lontano da me per le
spalle. Noah, attirato dal mio urlo e dai ringhi era accorso in
mio aiuto, piantando la parte più appuntita della riproduzione
di una navicella spaziale nel cranio di suo fratello. Quella volta
era stato lui a coprire il cadavere con un lenzuolo, l’espressione
addolorata ma ferma, presente. «Finalmente può
riposare», gli avevo detto sorridendo, per confortarlo. Aveva
risposto al mio sorriso, aggiungendo: «Andiamo, è
pericoloso stare qui». Prima di lasciare quel quartiere,
avevamo cercato più provviste possibili sia in casa sua che in
quelle dei suoi vicini: quella zona, fortunatamente, era abbastanza
povera di erranti. Ne avevamo abbattuti cinque o sei, prima di
correre di nuovo al lato delle mura dietro al quale avevamo lasciato
il pick-up. Ed eccoci lì, di nuovo in fuga verso un posto
sicuro, di nuovo in viaggio senza una meta precisa. Eravamo stati
abbastanza fortunati con le provviste: diversi barattoli di cibo in
scatola, bottiglie d’acqua, vestiti puliti, carburante e acqua
per il motore. Il tutto raccolto in due grandi borse che ci avrebbero
permesso di stare tranquilli almeno per una settimana, prima di
cercare nuovi approvvigionamenti. «Il tuo vicino era
appassionato di armi, vedo», dissi, lanciando un’occhiata
al fucile d’assalto sistemato nel sedile posteriore, che godeva
della compagnia di un fucile a pompa, una pistola automatica e
diverse munizioni. Stiracchiò un sorriso. «Il signor
Spencer era leggermente fuori di testa e molto paranoico. Il classico
vicino che esce di casa imbracciando il fucile a canne mozze e
minacciandoti di morte perché gli hai sfondato la finestra col
pallone», replicò, tenendo gli occhi sulla
strada. Ridacchiai, abbassando il finestrino e godendomi l’aria
che stava iniziando a rinfrescare l’abitacolo. «Dove
credi che dovremmo andare adesso?», domandai poi, seria. Non
mi piaceva per niente l’idea di continuare a viaggiare soli,
nonostante fino a quel momento fossimo riusciti a cavarcela. Mi
sforzavo spesso di pensare “meglio in due che da sola”,
ma la verità era che, tutte le volte che non eravamo al sicuro
in macchina, avvertivo l’angoscia attanagliarmi lo
stomaco. Io... Io avevo paura. Guardavo i vaganti arrivare,
circondarci, e dovevo reprimere il terrore per rimanere lucida e
affrontarli, assieme a Noah. Mi sentivo sola, sentivo che io e Noah
eravamo soli. E mi mancava il mio gruppo, la mia famiglia; mi mancava
essere circondata da così tante persone sulle quali contare
per affetto, protezione, gioco di squadra. Io e Noah, inutile
negarlo, non eravamo fisicamente forti come molti di loro; non
eravamo combattenti esperti come Rick, Michonne, Glenn, Carol o
Daryl. Daryl… Solo
con lui, nonostante avessimo viaggiato in due, mi ero sentita
sempre
al
sicuro. Non solo perché conoscevo le sue innate capacità
di sopravvivenza, ma perché – contro ogni aspettativa –
il suo comportamento schivo, diretto e forte mi infondeva
sicurezza. Sapeva quello che faceva, e voleva dimostrarlo anche alle
persone che lo circondavano. Mi mancava Daryl. Mentre ero al
Grady avevo pensato spesso ai giorni passati da sola con lui, e
mentirei se dicessi che quei ricordi non avevano rappresentato per me
un rifugio dolce in cui nascondermi, quando le cose non andavano ed
il senso di prigionia si faceva sentire. Tutte le volte in cui mi ero
sentita sola avevo pensato al gruppo, ma ancora più spesso al
tempo che avevo trascorso con Daryl Dixon. Conoscendolo, sapevo
che si era messo alla mia ricerca, e quel pensiero mi destava
preoccupazione perché, se fosse arrivato all’ospedale,
avrebbe rischiato la vita inutilmente. Speravo che si fosse
ricongiunto con gli altri, e che non avessero trovato tracce per
raggiungermi. Era frustrante non sapere dove fossero, non sapere
se li avrei rivisti di nuovo.
«Tu
non ti rendi conto, tutti quelli che conosciamo sono morti!». «No,
questo non lo sai!». «Beh, è come se lo
fossero, perché tanto non li rivedrai mai più!».
Il
nostro discorso mi tornò in mente senza che potessi farci
nulla, e speravo davvero che Daryl si fosse sbagliato. Non volevo che
restasse da solo, non volevo. Volevo che in quel momento fosse con
gli altri, al sicuro, insieme a persone a cui teneva e che tenevano a
lui. Quel pensiero mi faceva felice e mi sarebbe bastato. Mi
bastava sapere che forse erano davvero di nuovo tutti insieme, poco
importava se non li avrei rivisti mai più. «Pensavo
di andare verso Washington», rispose dopo un po’ Noah,
ridestandomi dai miei pensieri. «Perché Washington?»,
domandai, incuriosita. «È la città più
grande che possiamo trovare da qui in avanti. Forse hanno resistito,
o forse possiamo incappare in qualche rifugio in cui trascorrere
l'inverno», ipotizzò. L’idea, in tutta
sincerità, mi allettava, ma una parte di me voleva ancora
cercare la mia famiglia. Una grande parte di me lo voleva. Io sapevo
che non erano morti, sapevo che prima o poi si sarebbero ricongiunti
e avrebbero ripreso ad intraprendere lo stesso cammino. Noah ed io
non eravamo in grado di resistere troppo a lungo vagabondando, da
soli, senza un posto sicuro in cui rifugiarci. Se a Washington
avessimo davvero trovato una zona sicura o qualcosa di simile,
avremmo potuto sistemarci e tornare indietro a cercare la mia
famiglia, magari portando dei rinforzi con noi. E avevo fede che,
prima o poi, ci saremmo riuniti a loro, in un modo o nell’altro. «Ci
sto», dissi, sorridendo. «Però dovremmo riposarci
per un giorno o due. È stato lungo il viaggio da Atlanta fino
a qui», osservai. Ci avevamo messo quasi una settimana ad
arrivare; se non avessimo dovuto preoccuparci di cercare provviste e
rifugi, ci avremmo impiegato poco meno di mezza giornata. «Appena
troviamo un posto sicuro», annuì Noah. Fuggiti dal
Grady, non eravamo riusciti a fermarci nemmeno per un secondo, per
paura che gli uomini di Dawn ci trovassero e ci riportassero alla
prigionia. Noah aveva sentito dire che la gente era stufa della
leadership di Dawn, e che presto avrebbero provato a rovesciarla.
Sperai che, a quel punto, ce l’avessero fatta davvero. «Quanto
ci vuole a raggiungere Washington, da qui?», domandai. «Senza
troppi intoppi, un paio d'ore». Annuii, pensierosa.
«Possiamo trovare un posto in cui passare la notte, per poi
ripartire domani mattina», proposi, contenta che Washington non
fosse poi tanto lontana. Se la macchina avesse retto, sarebbe andato
tutto bene. «Aspetta, ma non volevi tornare indietro a
cercare la tua famiglia?», domandò con apprensione. «Non
voglio importi cose che ti ostacolerebbero». Sorrisi,
intenerita dai suoi riguardi. «Loro sono forti, sono sicura che
stanno bene. E se sono riusciti a ritrovarsi, sono numerosi e al
sicuro. A differenza nostra, che siamo solo in due»,
affermai. Mi lanciò uno sguardo preoccupato. «Sei
sicura?». «Assolutamente sì. Se saremo tanto
fortunati da trovare ciò che cerchiamo, potremmo addirittura
andarli a cercare aiutati da altre persone. Mal che vada, due ore di
macchina non sono poi così tante per tornare indietro a
cercarli», risposi, sorridendo. Tolse per un secondo gli
occhi dalla strada, rivolgendomi un'espressione poco convinta che
trovò il mio sorriso – speravo – rassicurante: la
questione era chiusa. A metà pomeriggio, appena fuori
Richmond, incappammo in un vecchio motel abbandonato, che sembrava
abbastanza deserto. Nascondemmo il pick-up in un vecchio garage lì
vicino e ci incamminammo con cautela all'entrata del motel.
Perlustrammo il perimetro del cortile in cerca di qualche vagante, e
ne abbattemmo due senza difficoltà. Decidemmo di sistemarci in
una camera al pianoterra, così, se ci fosse stata la
necessità, saremmo riusciti a correre fino all'auto più
facilmente. Sistemammo due sedie davanti alla porta, unendole tra
loro con una corda alla quale avevamo appeso dei vecchi cerchioni e
barattoli che avevamo trovato mentre cercavamo provviste. Era un
trucco che utilizzavano sempre Daryl e gli altri per essere avvertiti
nel caso un vagante si fosse avvicinato troppo al nostro rifugio;
riprodurre quell'espediente senza di loro mi provocò un
piccolo tuffo al cuore. Sistemate le sedie, ci barricammo nella
stanza, posizionando la piccola scrivania contro la porta e oscurando
le finestre con i camici del Grady. Era da un po' che non
riposavamo su un letto, perciò non ci pensammo due volte a
coricarci sul matrimoniale con sbuffi di soddisfazione, senza però
lasciare andare le armi. Chiusi gli occhi, respirando
profondamente e sorridendo tra me e me. Rimanemmo in silenzio per non
so quanto, ma non c'era bisogno di parlare. Noah non si era fermato
un attimo da quando avevamo scoperto il terribile destino di sua
madre e dei suoi fratelli, perciò volevo dargli il tempo di
elaborare, per quanto possibile, quello che aveva passato. «Non
vergognarti», sussurrai, fissando il soffitto. «Cosa?»,
domandò, la voce piatta. «Se senti il bisogno di
piangere, sfogalo. Non vergognarti», chiarii, voltando la testa
alla mia destra, per guardarlo. Lui non rispose, fissandomi per
qualche secondo. Il suo sguardo era così addolorato, così
stanco... si voltò dall'altro lato, dandomi le spalle. Con gli
occhi al sicuro dai miei, scoppiò a piangere, singhiozzando
piano e stringendo le ginocchia al petto. Osservai la sua schiena e
le sue spalle sussultare e, lentamente, mi avvicinai a lui, poggiando
la testa sul suo cuscino e la fronte contro la sua spalla. Pianse
per molte ore, ininterrottamente; quando crollò, esausto, le
fessure che i nostri camici non erano riusciti a coprire facevano
entrare le luci soffuse del tramonto. Mi alzai dal letto, attenta a
non svegliarlo, e controllai la situazione nel parcheggio del motel:
sembrava tutto tranquillo. Sperai con tutte le mie forze che sarebbe
stato così anche durante la notte e la mattina dopo. Quando
Noah si risvegliò dopo un paio d'ore, consumammo la nostra
carne essiccata e bevemmo un po' d'acqua, con parsimonia. Non eravamo
sicuri che a Washington avremmo trovato quello che cercavamo, perciò
dovevamo far durare le nostre scorte il più
possibile. Fortunatamente nel piccolo bagno della stanza c'era
ancora un po' di acqua corrente, perciò, dopocena, ne
approfittammo per rinfrescarci, a turno. Sistemammo le nostre borse
vicino alla porta, in modo che, la mattina dopo, fosse stato tutto
pronto per partire senza ulteriori indugi. La notte calò e
trascorse abbastanza tranquilla, anche se non riuscii a chiudere
occhio, se non molto tardi. Non sapevo se Noah fosse riuscito a
dormire, perché mi aveva dato le spalle tutta notte, perso nel
suo lutto. Alla mattina, dopo aver fatto una scarsa colazione,
guardammo fuori dalla finestra e scoprimmo che tre vaganti si erano
radunati nel cortile durante la notte: non erano molti, potevamo
cavarcela se avessimo agito con velocità e precisione. Provai
ad ignorare il nodo in gola causato dalla paura che quelle situazioni
mi mettevano, e mi sforzai di concentrarmi. Misi in spalla una
delle due borse e Noah prese l'altra, imbracciando il fucile che si
era portato dietro, mentre spiava i vaganti. «Se ci
sbrighiamo a raggiungere il pick-up, possiamo anche sparargli da
lontano», affermò, la voce intrisa di concentrazione e
fermezza. «Speriamo che il rumore non ne attiri altri»,
mormorai, guardando anche io fuori dalla finestra. «Se anche
dovesse succedere, saremmo già a bordo del pick-up»,
ribatté, sforzandosi di sorridere. Decidemmo di sparare ai
vaganti dalla finestra, liberare la zona e correre il più
velocemente possibile verso il pick-up. Una volta abbattuti,
aspettammo qualche secondo per vedere se ne sarebbero arrivati altri;
quando fummo certi di essere al sicuro, aprimmo con cautela la porta,
scavalcando la corda tra le sedie cercando di non farla muovere. Ci
osservammo intorno e, guardinghi, corremmo verso il capannone dentro
al quale avevamo nascosto il pick-up. Sul tetto di quella piccola
costruzione erano cresciuti muschio e rampicanti, che funsero da
perfetta copertura al nostro mezzo; ci eravamo curati persino di
sporcarlo per farlo sembrare fuori uso, nel caso qualcuno avesse
cercato di prenderlo. «Sali a bordo, Beth», disse
Noah, sottovoce ma concitato. Strappò velocemente i rampicanti
dal tetto, in modo che fosse più facile uscire da lì,
ma improvvisamente un vagante fu alle sue spalle, trascinandolo per
terra. Afferrai il coltello che mi portavo sempre appresso e lo
estrassi dal fodero, scendendo in fretta dal posto del guidatore.
Noah era a terra che tentava di mantenere le fauci del non-morto
accasciato sopra di lui lontano dal suo collo, prendendolo per le
spalle. Piantai il coltello nel cranio del vagante, e Noah spinse via
la carcassa con un verso strozzato. Gli presi la mano per aiutarlo
a rialzarsi. «Tutto okay?». Lui guardò il
cadavere ai suoi piedi, respirando pesantemente. «Sì,
grazie mille», rispose, cercando di tranquillizzarsi. Con un
movimento secco del braccio, tagliai di netto metà della
“tenda” che i rampicanti formavano, occupandomi poi del
resto. Rinfoderai il coltello e salii di nuovo al posto di guida,
mettendo in moto e partendo alla volta di Washington. «Sei
sicura che vuoi guidare tu?», domandò Noah con tono
spento. «Tu hai guidato molto più di me, dovresti
rilassarti un po'», lo rassicurai, sorridendo. Per qualche
secondo non disse nulla, ma non me ne preoccupai. Avevo notato che
era diventato più silenzioso da quando eravamo stati a
Richmond, ma era comprensibile. «Tu ce la faresti anche
senza di me», disse, all'improvviso. Nella sua voce ero
riuscita ad udire un misto di ammirazione e frustrazione. Gli
lanciai uno sguardo veloce, per mantenere gli occhi sulla strada.
«Non dire sciocchezze, Noah. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra»,
ribattei, accorata. Gli sfuggì una risata amara. «Non
è vero. Tu sei forte, Beth, molto più forte di me. Se
mi lasci da solo per mezzo minuto vengo aggredito da uno di quegli
esseri», disse, con disgusto. «Sai quante volte mi
sono distratta io, mettendo in pericolo me e...», mi bloccai,
il nome di Daryl sulle mie labbra e il suo ricordo a pesarmi sul
cuore. «...chi era con me? Tante. Non devi sottovalutarti, così
come non devi sopravvalutare me». «Però vuoi lo
stesso andare a Washington, perché credi che io e te qua fuori
non ce la faremmo. Non sei al sicuro con me, Beth. Non sono riuscito
a proteggere mia madre ed i miei fratelli, figurati se riuscirei a
tenere al sicuro te!», disse con rabbia. «Per questo vuoi
arrivare là il prima possibile e trovare aiuto in qualcun
altro. Hai le ore contate assieme a me». Accostai con un
gesto rabbioso ed uno stridore di ruote, tirando il freno a mano e mi
voltai di scatto verso di lui. «Smetta di dire queste
cose!», esclamai alterata, incontrando finalmente il suo
sguardo. «Perché?!», domandò concitato,
allargando le braccia. «Perché sono tutte cazzate,
Noah!» Rimase interdetto dal mio eccesso d'ira, fissandomi
incerto e con gli occhi spalancati. In effetti, per lui che mi aveva
conosciuta come la dolce e gentile Beth, doveva essere stato strano
sentirmi parlare in quel modo. «Quello che hai trovato a
Richmond ti ha sconvolto, lo capisco. Ma sbagli ad insinuare di
essere tu il responsabile di quello che è successo a tua madre
e ai tuoi fratelli, perché non è così. È
Dawn che ti ha rinchiuso in quel maledetto ospedale per un anno, è
colpa sua se non sei riuscito a tornare prima. È colpa di Dawn
se non ho potuto ricongiungermi col mio gruppo. Non è colpa
tua, e nemmeno mia, se siamo stati separati dalle nostre famiglie –
sentii gli occhi riempirsi di lacrime e un nodo stretto stringermi la
gola – non è colpa nostra se qualcuno che amavamo è
morto. Entrambi abbiamo perso qualcosa di importante ed entrambi
abbiamo bisogno l'una dell'altro per andare avanti. Insieme
siamo
forti, okay? E invece che pensare a quello che non hai fatto, pensa a
quello che hai fatto: non saremmo qui, non saremmo liberi,
se non fosse stato per il tuo piano!». Presi una pausa per
respirare e calmarmi, ignorando le lacrime che erano scese a bagnarmi
le guance; mi passai il dorso della mano sul viso per
asciugarle. Noah era ancora immobile a fissarmi, anche se gli
occhi gli erano diventati lucidi; una lacrima gli rigò il
volto quando sbatté le palpebre. «Stai già
soffrendo abbastanza, non peggiorare le cose addossandoti colpe che
non hai», dissi, piano, guardandolo negli occhi. Le mie
parole sembrarono colpirlo così tanto che non trovò
nemmeno la forza di rispondere o replicare: si sporse verso di me e
mi abbracciò, stretta. «Non so se ringraziarti o
chiederti scusa», sussurrò, stringendo la
presa. Ridacchiai, scostandomi da lui. «Se proprio devo,
accetto il grazie». Lui mi rispose con un sorriso e si
rimise al suo posto, sospirando. Guardai nello specchietto
retrovisore, e notai che alcuni erranti si stavano avvicinando al
nostro pick-up. «Abbiamo compagnia; meglio andare»,
dichiarai. La successiva ora e mezza di viaggio scivolò
tranquilla e senza particolari intoppi. Noah sembrava riprendersi
lentamente di minuto in minuto, e lo provò il fatto che
conversammo come due ragazzi normali: mi parlò della sua vita
prima, di storie divertenti che coinvolgevano suo padre e i suoi
fratelli, di come era Noah nel mondo che conoscevamo; anche io gli
parlai di me, della fattoria, della mia famiglia e anche di come
avevo conosciuto il gruppo di Rick. Non so che espressione avessi in
faccia quando iniziai a raccontargli di loro,
ma qualcosa che vide nel mio sguardo lo spinse a cambiare subito
argomento. Come uno scherzo di pessimo gusto fatto da qualcuno con
un senso dell'umorismo orribile, il nostro pick-up iniziò a
tossire e ad arrancare qualche miglia prima di Washington, in una
zona fitta di boschi e zone rurali. Tanto per cambiare. «Merda,
abbiamo trovato ricche scorte di carburante e ovviamente la batteria
se ne va a puttane», berciò Noah, richiudendo il cofano
con un colpo secco; vi appoggiò le braccia e si guardò
intorno. «Non c'è neppure qualche macchina attorno, per
vedere se possiamo sostituirla». Il pensiero di non avere
un mezzo di trasporto con cui cercare un riparo e riprendere a
viaggiare a piedi mi fece ingarbugliare lo stomaco. «Proviamo
comunque ad andare avanti, ci siamo quasi», proposi, cercando
di nascondere l'ansia. «Non possiamo arrenderci ora». E
non ci arrendemmo: portammo sulla nostra schiena i pesanti borsoni in
cui trasportavamo provviste e le armi armi di scorta per un numero
imprecisato di chilometri. Per tre lunghissimi giorni vagammo per i
boschi, in costante pericolo, scappando di giorno e non chiudendo
occhio la notte, sempre in allerta, senza sapere se la strada fosse
quella giusta. Eravamo stanchi, demoralizzati e le provviste
cominciavano a scarseggiare. Fu in un vecchio fienile che Aaron ed
Eric ci trovarono. Si avvicinarono piano, senza far rumore, come
si fa nei confronti di animali che potrebbero spaventarsi. Quando
fecero capolino dall'ingresso della struttura, io e Noah scattammo in
piedi nello stesso momento, puntando contro di loro la pistola ed il
fucile in un gesto automatico. La sensazione di essere in trappola
mi offuscò la mente per i primi secondi, a tal punto che non
mi resi subito conto che i due sconosciuti non avevano, a loro volta,
tirato fuori le armi: si erano semplicemente limitati ad alzare le
braccia, con cautela, in segno di resa. «Salve»,
esordì uno dei due, con un sorriso. L'altro, anche se più
nervosamente, lo imitò. «State indietro», li
minacciò Noah, avvicinandosi di un passo allo sconosciuto.
Guardai il mio amico con apprensione, poi il mio sguardo gravitò
nuovamente sui due uomini di fronte a noi. L'uomo continuò
a sorridere, abbassando le mani. «Tu devi essere Noah,
vero?». Noah strabuzzò gli occhi, aumentato la presa
attorno all'impugnatura del fucile. «Come sai il mio nome?»,
domandò, accorato. «Chi siete?! Cosa diavolo
volete?!». «Io sono Aaron», si presentò,
conciliante. «E lui è Eric», proseguì,
indicando l'interessato con un cenno del capo. «Non vogliamo
farvi del male, vogliamo soltanto aiutarvi». «Certo»,
commentai con scetticismo sprezzante. «Ci credi tanto
sprovveduti?». «Niente affatto, Beth», replicò
Aaron con un sorriso. Un brivido mi risalì lungo la spina
dorsale e sussultai, inquieta. «Siete tutt'altro che
sprovveduti e abbiamo avuto modo di vederlo, in questi giorni». «Ci
hanno spiato», mormorò Noah, incredulo. «Sì»,
ammise Eric, «Ma non è come pensate. Non abbiamo cattive
intenzioni, tutt'altro: vogliamo solo aiutarvi», ripeté.
«Se avessimo voluto attaccarvi lo avremmo già fatto,
non credete? Vi avremmo presi alla sprovvista, puntandovi addosso
un'arma come state facendo voi», disse Aaron, senza smettere di
sorridere e cercando di essere il più convincente
possibile. «Siamo amici», aggiunse Eric. In quel
momento mi sorpresi ad elaborare un pensiero che fece capolino nella
mia testa in modo improvviso ed inaspettato: cosa
farebbe Daryl? Non
dovetti pensarci su molto: avrebbe intimato loro di andarsene e, se
fossero stati tanto stupidi da non ascoltarlo, li avrebbe uccisi lì
dove si trovavano. La
nostra sicurezza prima di tutto, sempre: mai fidarsi delle altre
persone, in un mondo del genere. Mi
sembrò quasi di sentire la sua voce avvertirmi ed ordinarmi di
non fare stronzate, di non fidarmi di loro, per quanto potessero
essere quasi rassicuranti i loro volti e i loro atteggiamenti.
Potevano volerci fregare e quella poteva essere tutta una finta bene
architettata... o forse no. Dopotutto, non era stato Daryl stesso
ad ammettere che stava iniziando a credere che esistessero ancora
brave persone?
«Perché
hai cambiato idea?». Silenzio, ed uno sguardo talmente
intenso che le parole non erano servite. «Oh».
Al
ricordo, il cuore mi si strinse in una morsa, che cercai di ignorare;
studiai di nuovo Aaron ed Eric, apertamente, senza dire nulla. Loro
sembravano brave persone, decisamente. Eppure, per una volta,
decisi di riflettere prima, e mi sforzai di trovare un equilibrio tra
la mia indole, troppo ingenua e ottimista, e quella di Daryl,
sospettosa e diffidente. Sorrisi ad Aaron ed Eric. «Immagino
che non sia bello parlare a due persone che ti puntano una pistola in
faccia», proferii. Aaron ridacchiò. «Avete
tutte le ragioni di farlo, non ci si può fidare degli altri in
un mondo come questo. Nemmeno io lo farei. E comunque, ci siamo
abituati». Mai
fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere. «Vi
ascolteremo», dissi, guardando l'uomo negli occhi. «Beth!»,
mi redarguì Noah, guardandomi scioccato. Gli lanciai uno
sguardo di rassicurazione. «Ad una condizione: dovete posare a
terra tutto ciò che avete, armi comprese». «I
vestiti possiamo tenerli?», domandò Eric,
sorridendo. Una risata spontanea mi salì alle labbra.
«Certo. Ma il mio amico dovrà comunque perquisirvi»,
ribattei in tono tranquillo. «Niente in contrario»,
ribatté Aaron. Dentro di me rimase la paura che ci fosse
qualcuno, fuori dal capanno, pronti ad intervenire in caso di
bisogno. Sperai che fossero solo loro due e che non fossero in
maggioranza. Si tolsero gli zaini e li posarono per terra, per poi
dare una spinta col piede in modo che rotolassero a metà tra
noi e loro, il tutto tenendo le mani alzate. Con un cenno, diedi
a Noah il benestare per iniziare a perquisirli: lo fece, ma non trovò
nulla di sospetto addosso ai due uomini, che non smisero di sorridere
nemmeno per un istante. Noah si allontanò da loro e tornò
al mio fianco, puntando di nuovo il fucile contro di loro. «Sembrano
a posto», mi disse, poco convinto. Lanciai ai due un ultimo
sguardo, prima di abbassare la pistola. «Vi dispiace se tengo
lo stesso in mano la pistola?», domandai, retorica. «Per
sicurezza». «Assolutamente no», rispose Aaron.
Forse era la prima volta che gli veniva data la possibilità di
parlare senza vedersi puntare addosso qualcosa. «Bene»,
dissi, cercando di rilassarmi. «Volete accomodarvi?»,
chiesi, indicando la postazione vicino al fuoco con cui io e Noah
cercavamo di combattere il freddo autunnale. Ci sedemmo in
cerchio, come in un normale falò. Noah continuava a mostrarsi
sulla difensiva, rigido ma pronto a reagire in caso di bisogno.
«Allora, avete detto che volete aiutarci. Come?»,
domandai, senza troppi giri di parole. «Avete un
accampamento?», intervenne il mio compagno. Aaron scosse la
testa, più rilassato rispetto a quando era entrato. «No,
viviamo in una vera e propria comunità, una piccola città
eco-sostenibile protetta da mura di acciaio, che vive della risorsa
più importante che possiede: le persone che la abitano». Come
al Grady,
mi venne spontaneo pensare; mi irrigidii all'istante. «Siamo
appena fuggiti da un posto del genere», dissi in tono piatto.
Sentii lo sguardo di Noah su di me, e non ebbi bisogno di guardarlo
per capire che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. «Costretti
a vivere lì dentro senza possibilità di andarcene
finché chi comandava non lo avesse deciso di sua spontanea
volontà», aggiunsi, con tono disgustato e a pugni
serrati. «È di questo che stiamo parlando?». «No,
Beth. La zona sicura di Alexandria non è niente di tutto
questo», intervenne Eric, scuotendo la testa e parlando con
tono rassicurante. «Nessuno è costretto a rimanere ad
Alexandria, al contrario: chi non dà il proprio contributo
alla comunità viene, ehm, sollecitato
ad andarsene. È una regola, una condizione per rimanere al
sicuro, ma di certo chi arriva e decide di stabilirsi non ha debiti
da saldare. Viverci - e accettare le condizioni - è una
scelta, non un obbligo». «Proprio così»,
commentò Aaron, guardando prima Eric e poi noi. «Alexandria
è una comunità che funziona», continuò,
con il tono che si usava per descrivere una terra promessa. «Ognuno
degli abitanti ha un compito, un lavoro da svolgere che gli viene
assegnato in base alle proprie competenze e capacità; in
cambio gli viene data una casa, acqua corrente, elettricità,
cibo e tutto quello che serve per vivere dignitosamente. Tutto questo
al sicuro dal caos che vige qua fuori». «Noah, per
favore, guarda nello zaino di Aaron: dovrebbe esserci una busta con
delle foto all'interno», disse Eric, indicando la sacca alle
sue spalle. «Le foto vi faranno capire che non stiamo
mentendo». «Il vostro compito è cercare nuove
persone da accogliere?», domandai ad Aaron, mentre Noah si
alzava con cautela per prendere le foto. «Esatto. Abbiamo
iniziato ad osservarvi un paio di giorni fa, e ci siete subito
sembrate due brave persone», rispose con convinzione. «È
come se foste abituati a vivere qua fuori, come se sapeste come
comportarvi di fronte ad ogni evenienza: sarebbe una risorsa enorme,
per noi, avervi sotto la nostra protezione. Avremmo molto da imparare
da voi». Noah, che aveva già cominciato a sfogliare
le foto, si fece più vicino per farle osservare anche a me. In
quelle piccole immagini, che erano tutte in bianco e nero, c'era
tutto ciò che Aaron ed Eric avevano decantato: mura alte e,
all'apparenza, solide; case fotografate dall'esterno e che sembravano
grandi ed accoglienti; una cisterna d'acqua enorme; una torre alta
dalla quale si riusciva a vegliare su tutta la zona sicura; dei
pannelli solari che garantivano una risorsa energetica praticamente
inesauribile; una dispensa collettiva enorme e ben fornita, così
come lo era il deposito di armi. La zona sicura di Alexandria
sembrava la concretizzazione di tutto ciò che io e Noah
eravamo andati a cercare a Washington. «Cosa ne pensi?»,
domandai a Noah in un sussurro, fingendo che Aaron ed Eric non
fossero lì davanti a noi. «Sembrano dire la verità»,
rispose, pensieroso. «Se rimaniamo qua fuori, moriremo. Se
invece proviamo a fidarci, potremmo cadere in una trappola e morire
comunque o...». «Essere fortunati e trovare un posto
sicuro in cui vivere», terminai, abbassando lo sguardo sulle
foto. «Sei disposto a correre questo rischio?». Dopo
qualche secondo, rispose con un'unica parola: «sì». Il
mio sguardo corse prima a lui, poi ad Aaron ed Eric – che
avevano assistito a quello scambio di opinioni senza proferir parola
– ed infine alle foto che tenevo in mano: quella che ritraeva
le mura era la prima del plico. «Anche io».
~
Ci
rimettemmo in viaggio non appena presa la decisione di fidarci, anche
se rimanemmo comunque tesi e in allerta fino ai cancelli di
Alexandria. Durante il viaggio non parlammo molto con Aaron, che
guidava tranquillamente il SUV con il quale lui ed Eric – alla
guida dell'altra auto – andavano in giro a reclutare le
persone. Non so a cosa stesse pensando Noah che, in silenzio, se ne
stava al mio fianco sul sedile posteriore, guardando fuori dal
finestrino. Per quel che mi riguardava, non feci altro che sperare
tra me e me di non aver fatto una cazzata a fidarmi, tutto il tempo.
Mi sorpresi nuovamente a pensare a Daryl, a come si sarebbe
comportato lui e, soprattutto, cosa avrebbe detto se mi avesse vista
correre un rischio tanto grande riponendo la mia fiducia in persone
che non conoscevo. Sarebbe stato molto vicino a uccidermi, o forse
non lo avrebbe fatto semplicemente per non negarmi il piacere di
sentirlo inveire contro di me per la mia avventatezza. Immaginare il
suo volto distorto dalla furia, però, mi fece sorridere; avrei
anche accettato un'ora di insulti pur di averlo accanto a me, pur di
vedere con i miei occhi che era vivo e che stava bene. Una piccola
parte di me si domandò per quale strana ragione il mio
pensiero corresse così spesso a lui, ma non ebbi il tempo di
trovare una giustificazione o una risposta, perché la voce di
Aaron mi distolse dai miei pensieri. «Siamo arrivati»,
annunciò, voltandosi verso di noi per sorriderci. Scendemmo
dall'auto con cautela, le nostre borse ancora in spalla e le armi ben
salde tra le dita. Gli alti cancelli della zona sicura di
Alexandria interrompevano bruscamente la strada che avevamo percorso
in auto, ed era protetta ai lati dalla boscaglia che la contornava;
anche dall'esterno si notava la stessa torre di guarda che avevo
scorso sfogliando il plico di foto. Aaron ed Eric si fecero
riconoscere dall'uomo che stava di guardia al cancello d'ingresso,
che era costituito da una solida grata che lasciava intravedere
l'interno e da una lastra di acciaio che, invece, serviva ad oscurare
la città a vaganti e umani. «Nuove reclute?»,
domandò lo sconosciuto, con un ghigno. «Nicholas»,
salutò Aaron con un cenno del capo, avnzando verso di lui
mentre le barriere erano aperte. «Visitatori», lo
corresse. «Ma io spero ardentemente che decidano di rimanere»,
aggiunse, voltandosi verso me e Noah, facendoci l'occhiolino. Mi
venne da sorridere, spontaneamente. Ci avvicinammo all'uomo che
ancora imbracciavamo le pistole, quando con la mano fece fece segno
di fermarci. «Bellezza, devo chiederti di lasciarmi tutte le
armi che hai», disse, guardandomi dalla testa ai piedi con un
sorriso sghembo e lo sguardo viscido. «Anche a te, ragazzino»,
aggiunse poi con scherno, guardando di sfuggita Noah. Chi
distribuiva i compiti tra gli abitanti di Alexandria doveva essere
straordinariamente bravo a comprendere chi fosse più tagliato
per un certo ruolo di altri: se fosse stato Nicholas a trovarci in
mezzo al bosco, non l'avrei mai seguito. Cercai di ignorare il
disgusto per concentrarmi sulla sua richiesta, che aveva scatenato il
panico dentro di me: cosa?! Dovevamo entrare in quel posto
disarmati?! Guardai Aaron con gli occhi spalancati, in attesa di una
spiegazione. «Beth, fidati di me. Le armi non ti servono
qui dentro», spiegò, col tono che si riserva ai bambini.
«Sono le nostre armi», intervenne Noah, alterato,
sporgendosi in avanti. «E rimarranno vostre: potrete
usufruirne se andrete la fuori, in ogni momento; ma qua dentro non
servono», replicò, in tono gentile ma fermo. Come ci
aveva ridotto quel modo, se non riuscivamo a pensare di vivere senza
imbracciare un'arma? Ignorando la parte di me che si opponeva a
fidarmi di Aaron, allungai a Nicholas il borsone dentro il quale
avevamo raccolto tutte le armi in nostro possesso: ignorai
deliberatamente il ghigno vittorioso dell'uomo. Aaron ci sorrise,
come se fosse orgoglioso di noi e mi mise una mano sulla spalla.
«Venite, vi porto da Deanna». «Chi è
Deanna?», domandò Noah, mentre Aaron iniziava a
incamminarsi. «La leader - se così si può
definire - di questa comunità». Mi fu impossibile
evitare di pensare a Dawn e, scambiandomi una veloce occhiata con
Noah, capii che nemmeno lui ci riuscì. «La signora
Monroe si occupa di assegnare i ruoli a chi vive qua dentro, e riesce
a trovare il lavoro più adatto semplicemente parlando,
chiedendo ad ognuno la propria storia. È straordinaria, non
potremmo avere di meglio», continuò Aaron, senza
nascondere l'ammirazione ed il rispetto che provava per la
donna. Aaron mi condusseda lei, da sola, e appena entrata in casa
sua mi guardai attorno, girovagando per il vasto salotto: poche volte
nella mia vita avevo visto case così eleganti e belle. Era la
classica casa di città, così diversa da quella in cui
ero cresciuta io. «Ciao Beth, piacere di conoscerti»,
disse Deanna con voce soave, incurante del fatto che stessi
curiosando in giro. Mi voltai di scatto, trasalendo dalla sorpresa.
«Salve, signora Monroe», risposi in un mormorio,
rimettendo a posto il libro che tenevo tra le mani. La osservai,
ripensando alle parole di ammirazione che Aaron le aveva riservato:
effettivamente, Deanna Monroe dava subito l'impressione di essere una
donna tutta d'un pezzo, il volto rassicurante e l'atteggiamento
deciso. «Chiamami Deanna», ribatté, gentile,
per poi sedersi su uno dei due sofà e indicandomi l'altro.
«Prego, siediti». Titubante seguii il suo consiglio,
accomodandomi sul bordo del divano e stringendo le ginocchia tra le
mani. «Ti dispiace se filmo il nostro incontro?»,
domandò, e solo allora notai la telecamera ben sistemata sul
cavalletto alle sue spalle. Scossi la testa. «Allora, Beth,
parlami un po' di te», mi sollecitò sorridendo, dopo
aver capito che non avrei fatto il primo passo per iniziare la
conversazione. «Da dove arrivate tu e Noah?». «Da
Atlanta», risposi, nervosa. Il suo sguardo attento e carico di
aspettative mi metteva a disagio. «Avevate un gruppo?»,
domandò, interessata. «No. Cioé, non proprio»,
mi corressi. «Io avevo un gruppo, ma poi siamo stati divisi ed
io ho finito per ritrovarmi a vivere nella comunità dove
avevano imprigionato anche Noah». Deanna
alzò le sopracciglia. «Imprigionato?». Annuii,
abbassando lo sguardo. «Dawn, la leader, aveva il controllo
sull'ospedale in cui vivevamo. Per come la vedeva lei, averci salvato
la vita ci aveva messi nella condizione di esserle debitori. Avevamo
un debito da saldare, lavorando nella comunità ed eseguendo
ciò che ci veniva chiesto. Saremmo dovuti rimanere lì
finché lei non avesse deciso di liberarci da quell'obbligo»,
spiegai, senza nascondere il disgusto. «Poi cos'è
successo?», domandò Deanna, sporgendosi
inconsapevolmente verso di me. «Siamo scappati»,
risposi, lapidaria. I suoi occhi mi studiavano, pieni di
ammirazione. «E siete riusciti ad arrivare fino a qui. Due
ragazzi così giovani... Incredibile. Come avete fatto?». «Il
mio gruppo...», esitai un attimo, avvertento un groppo in gola.
«Loro mi hanno insegnato a sopravvivere là
fuori». «Siete stati fuori per tutto questo tempo?»,
chiese di nuovo, lo sguardo ancora più sorpreso di prima.
«Quasi dall'inizio, ma è una storia lunga»,
tagliai corto. Non avevo voglia di ripensare a quando eravamo ancora
tutti insieme, tutti vivi. Papà... «Lei
invece?», domandai, per evitare che approfondisse la questione,
più che per un interesse sincero. «Come è
arrivata qui? Chi ha creato tutto questo?». Se si
accorse del mio intento di sviare il discorso, non lo diede a vedere.
Mi raccontò invece che era stata un membro del congresso
dell'Ohio che era stata rieletta. Quando era scoppiata la crisi, lei
e la sua famiglia stavano cercando di tornare in Ohio, ma
l'esercito li aveva fermati e condotti verso la zona che, già
al tempo, era conosciuta come Alexandria Safe Zone. C'era, inoltre,
un enorme centro commerciale in costruzione, vicino ad Alexandria, e
lei e la sua famiglia avevano utilizzato i materiali del cantiere per
costruire le mura attorno alla comunità. Man mano che il tempo
passava, erano diventati sempre più numerosi: una comunità
in piena regola, eco-sostenibile e autosufficiente. «Perciò
siete qui dentro dall'inizio», conclusi quando finì di
parlare. «Esattamente, Beth», asserì, lo
sguardo deciso. «Per questo tu e Noah sareste un'enorme risorsa
per noi». «Noi non... Noi ce la caviamo, ma di certo
non bene come la mia famiglia», ribattei, con la voce che si
spezzò a fine frase. «Dove sono loro? In quanti
eravate?». Avvertii gli occhi gonfiarsi di lacrime e guardai
da un'altra parte, mordendomi un labbro. «Credo
che siano ancora in Georgia... All'inizio non arrivavamo a venti
persone, poi ci siamo stabiliti in una prigione e, essendo un luogo
ben protetto, abbiamo iniziato ad accogliere altri sopravvissuti. Li
andavamo a cercare, un po' come fanno Aaron ed Eric. Poi la prigione
è andata distrutta e da lì ci siamo dispersi. Adesso
non so quanti siano ancora vivi». «La
prigione è andata distrutta? Come?». «La follia
di un solo uomo può provocare danni enormi», risposi,
atona. «Siamo come entrati in guerra con un'altra
comunità, capeggiata da un omicida che si faceva chiamare
Governatore. E' lui che ha iniziato tutto, è lui che si è
presentato ai cancelli della prigione e li ha distrutti»,
raccontai, udendo ancora nelle orecchie il rumore delle esplosioni,
delle urla e degli spari; avvertendo la stessa paura di quella volta
scuotermi le membra, mentre le immagini del Governatore che
decapitava brutalmente mio padre mi riempirono i pensieri,
dolorose. «E per salvarvi,
siete stati costretti a scappare ma non siete riusciti farlo
insieme», concluse Deanna, gli occhi pieni di
compassione. «Sì», mormorai. «Capisco.
Mi dispiace moltissimo per quello che hai passato»,
disse con sincerità. Se
sapessi davvero tutta la storia, ti dispiacerebbe di più,
pensai fra me e me. «Per
quel che riguarda il resto del tuo gruppo, se fossimo certi del fatto
che si trovano più vicini, potremmo andare a cercarli».
Il mio sguardo guizzò sul viso di Deanna, speranzoso. «Ma,
ora come ora, non riusciamo a compiere un viaggio così lungo.
Un giorno, forse, ne saremo in grado», aggiunse subito dopo,
attenta alla mia reazione. Mi irrigidii, delusa. «Un
giorno potrebbe
essere troppo tardi», ribattei, in tono piatto. «Beth,
capisci che non posso mobilitare i miei uomini per cercare qualcosa
che non siamo sicuri di trovare, vero?», domandò con
fermezza. «Anche Eric ed Aaron non sono sicuri di trovare
persone da salvare, quando escono da quel cancello», mi
infervorai. «In questo caso ne abbiamo la certezza: io so che
sono vivi». «Eric e Aaron non sono mai andati così
lontano. È un viaggio lungo e rischioso, bisogna ponderare
bene una decisione del genere», ribatté Deanna, cercando
di farmi ragionare. «Prenditi
il tuo tempo per ambientarti qui, Beth. Se sono sopravvissuti fino ad
ora, saranno in grado di continuare a farlo. Poi, quando sarà
il momento giusto, ci mobiliteremo per andarli a cercare»,
disse, prendendo a guardarmi con uno sguardo che cercava di
trasmettere tutta la sicurezza possibile, le labbra piegate in un
sorriso. La
guardai per qualche momento, non sapendo bene cosa dire. Poteva dire
la verità, come poteva dire una bugia, ma in entrambi i casi
lo avrei scoperto solo rimanendo lì ed integrandomi nella
comunità. Avrei potuto rifiutare l'offerta e tornarmene là
fuori, in quel mondo impazzito; oppure avrei potuto attendere e
cercare, col tempo, di convincere Deanna o Aaron ad aiutarmi, il
tutto rimanendo al sicuro e conducendo una vita normale. Avrei avuto
più possibilità di rimanere viva per cercarli se fossi
rimasta al sicuro dietro le mura di Alexandria, lo sapevo. E
Deanna aveva ragione: ce l'avrebbero fatta in ogni caso. Mi fidavo di
loro, delle loro capacità, della loro forza, del loro
prendersi cura l'uno degli altri. «Okay», dissi,
espirando rumorosamente e appoggiando la schiena contro lo schienale
del divano. «Rimarremo qui, ma non mi dimenticherò della
mia famiglia», l'avvertii, con tono tranquillo ma fermo. Deanna
continuò a tenere i suoi occhi allacciati ai miei, sorridendo
soddisfatta. «Sarebbe grave il contrario», ribatté.
«Non potrei essere più
felice
della tua decisione». Mi limitai a sorriderle in risposta,
senza trovare nulla da dire. Dentro di me, speravo che Noah fosse
d'accordo. «Giusto per capire a quale compito sarà
meglio assegnarti, cosa ti piaceva fare prima? In cosa eri brava?
Stavi studiando per specializzarti in qualcosa di particolare?»,
domandò, interessata. Ci pensai su un attimo. «Non
saprei», risposi, scuotendo la testa. «Quando tutto
questo è iniziato io ero ancora al liceo. Passavo le giornate
nella fattoria della mia famiglia», iniziai a raccontare,
fissando il vuoto e perdendomi nei ricordi. «Aiutavo mia
madre nelle faccende, davo una mano a svolgere le mansioni della
fattoria. Aiutavo mio padre, che era un veterinario e mi insegnava le
basi della medicina. Avevamo un vecchio pianoforte, mia madre aveva
cominciato a darmi lezioni... Mi piaceva suonarlo la sera, quando
papà smetteva di lavorare. E amavo cantare», sussurrai,
alla fine di quel discorso sconnesso e confuso. Deanna capì
cosa mi provocava ricordare la mia vecchia vita, e non mi fece
ulteriori domande. Mi ringraziò per il tempo che le avevo
dedicato e mi riaccompagnò da Aaron, mentre era il turno di
Noah per colloquiare con la leader di Alexandria. Seguii Aaron fino
ad una villetta che era più piccola rispetto alle altre che
avevo visto quando avevo camminato per la via principale, ma
altrettanto bella. Aveva un giardino, un patio e sembrava di
costruzione recente per quanto tenuta bene. «Questa sarà
la tua nuova casa», annunciò Aaron, con un sorriso.
«Quella lì vicina invece è destinata a Noah»,
aggiunse, indicando la villetta a destra della mia con un cenno del
capo. «Sono bellissime», sussurrai, facendo correre lo
sguardo sulla porta, sulle finestre e sugli elementi architettonici
che le caratterizzavano. «Sei sicuro che siano regalate?»,
domandai, voltandomi verso di lui con un'occhiata esageratamente
sconcertata. Scoppiò a ridere alla vista dei miei occhi
spalancati. «Sicurissimo, è regalata ed è tua».
Poi il suo sguardo si fece tenero e si avvicinò a me,
appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non riesco
minimamente ad immaginare quello che tu e Noah possiate aver passato
là fuori. Capisco che questa realtà vi disorienti e che
facciate fatica a rilassarvi, ma adesso potete. Siete al sicuro,
Beth, davvero. Qui dentro non si tratta di sopravvivere, si tratta di
vivere. E voi ne avete il completo diritto». Il suo
tono di voce era talmente dolce, sincero e rassicurante che le
lacrime salirono agli occhi senza che potessi farci niente. Vivere,
finalmente, non solo sopravvivere. Se da una parte mi sembrava di
scappare dai problemi e da quella che era la realtà del mondo
fuori da quelle mura, dall'altra vedevo finalmente un nuovo inizio
dopo mesi e mesi di stenti e sofferenze. Se solo gli altri fossero
stati lì con me... Maggie, Glenn, Carl, Judith, Rick,
Michonne, Bob, Sasha, Tyreese, Carol, Daryl: i loro volti
cominciarono a susseguirsi nella mia mente ed il mio cuore si strinse
in una morsa dolorosa. «Vorrei che anche la mia famiglia
ricominciasse a vivere, Aaron», mormorai, la voce spezzata. Lui
si fece vicino a me, coinvolgendomi in una sorta di goffo abbraccio.
«Ci occuperemo anche di quello, Beth. Te lo prometto».
________________________________________________________
Angolo
autrice.
Allooora,
salve a tutte/i! Sono l'ennesima nuova leva nel fandom Bethyl -
come autrice più che altro, visto che di fanfiction su TWD ne
leggo/seguo parecchie - e, sì, ho deciso di uscire allo
scoperto con una storia che mi vortica in testa da un bel po'. Da
come avrete capito, è una "what if" con la quale
vorrei salvare la vita a Beth e regalarle un happy ending con
Daryl. Perché li amo smodatamente, e non si meritano per
niente quello che gli autori hanno avuto in serbo per loro nel
telefilm originale. Ci tengo molto a dare una versione alternativa
della storia, e ci tengo soprattutto che sia coerente e credibile:
sono molto attiva su Tumblr, e ogni tre per due incappo nei post del
Team Delusional (così si fanno chiamare il gruppo di fan della
Bethyl che credono che Beth sia ancora viva nonostante la 5x08), che
mettono in piedi mille teorie ricche di indizi secondo i quali il
colpo alla testa di Dawn non sia stato mortale per lei. Per quanto mi
piacerebbe che il Team Delusional avesse ragione, mi riesce molto
difficile crederlo. Mentre aspetto di essere contraddetta su tutta la
linea dalla sesta stagione - magari! -, pasticcio un po' per conto
mio con i miei due piccioncini preferiti :) Per cui sì, per
qualche fortunata ragione Noah e Beth sono riusciti a scappare con le
loro forze e ad allontanarsi il più possibile da quella
stronza di Dawn, alé alé! Posso capire se il fatto
che Beth non sia tornata indietro a cercare Daryl e gli altri possa
stonare un po', ma ho provato a immaginare come si sarebbe
sentita a viaggiare in coppia con qualcuno non forte quanto Daryl
(Noah ha passato quasi tutto il capitolo a piangere, per dirvi
ahahah) o qualcun altro del gruppo. Io sarei morta di paura. Tornare
indietro avrebbe comportato maggiori rischi, senza contare il fatto
che non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a cercare la sua
famiglia. Dovevano
andare avanti. Questo
capitolo è lunghissimo, mi rendo conto, e probabilmente
piuttosto noioso (vista la mancanza del nostro arciere o di colpi di
scena), ma sarà l'ultimo così pesante. Dovevo
inquadrare bene le situazioni e dare una base a tutto ciò che
succederà nei prossimi capitoli e nel resto della storia. Lo
dico già da ora: non offrirò una versione tutta mia
della sesta stagione, semplicemente perché non ho in mente
niente di geniale o idee belle con le quali arricchire la trama
originale. Questa storia si occuperà semplicemente del
rapporto tra Beth e Daryl, episodi che trattano loro come coppia e
molto spesso saranno pure discordanti tra loro (forse non seguirò
nemmeno un ordine cronologico, chissà). Credo sarà una
longfiction/raccolta di slice of life dei nostri amorini.
Semplicemente ho dovuto dividere la parte iniziale da cui parte la
mia versione alternativa perché già solo questo
capitolo è lungo DICIOTTO PAGINE. Mi scuso già da ora
per eventuali episodi di latte alle ginocchia! Per aiutarvi a
capire quanto tempo passa, mi sono scervellata sulla wikia di The
Walking Dead e sono riuscita a elaborare una piccola linea temporale
che dovrebbe aiutarvi a far quandrare meglio l'arco di tempo in cui
si colloca tutto questo (e cosa succede lontano da Beth e Noah):
gg
504
→ la
prigione viene distrutta gg
504-507 →
Beth
e Daryl viaggiano assieme gg
507
→ Beth
scompare gg
510
→ Beth
e Noah scappano (4 gg per arrivare a Richmond) gg
511
→ il
gruppo si riunisce dopo Terminus gg
513
→ cercano
Beth ma non la trovano gg
514
→ il
gruppo si muove verso Washington/
Beth e Noah sono a Richmond/
Sostano nel motel gg
515
→ arrivano
a Washington gg
516 →
Beth
e Noah vagabondeggiano gg
518
→ Aaron
li trova/Arrivano ad Alexandria (Il
gruppo dovrebbe arrivare più o meno dopo un mese rispetto a
Beth e Noah)
Vi
lascio inoltre il link al video che ho montato assieme, visto che un
AU del genere su youtube non l'ho mai trovato:
https://www.youtube.com/watch?v=bEl1UtvtjnU Potrebbe
contenere spoilers, ma lo so sia io che voi che tanto questi due
finiranno insieme, ahahah! Inoltre ci sono degli elementi di questa
storia che non sono riuscita ad inserire nel video, perciò
sono collegati, sì, ma non più di tanto :) Potete
anche visitare il mio tumblr che è tuuutto dedicato a loro,
nel caso voleste chiedermi qualcosa riguardo la storia o per
qualsiasi altro motivo! Potremmo anche seguirci a vicenda, non mi
stanco mai di vedere post sempre nuovi su Bethyl :F ecco il link:
http://itsbethylness.tumblr.com/
e
http://itsbethylness.tumblr.com/tagged/bethylness-fanart
se
volete vedere i disegni associati alla mia storia e alla Bethyl in
generale. Sì,
sono ossessionata.
Qui invece scrivo tutto quello che riguarda solo la mia storia: http://blakieefp.tumblr.com/ E
nulla, credo di avervi trattenuto anche troppo: prometto che è
la prima e ultima volta. Domani partirò per le
vacanze e credo che starò via un paio di settimane, dopodiché
mi rimetterò a scrivere e a completare il secondo capitolo,
che è già a buon punto! Grazie mille a chiunque
vorrà lasciarmi il suo parere, o anche a chi leggerà
silenziosamente.
Un bacio! Blakie
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