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L’aria aveva odore di cenere, in quella notte umida.
Qualcosa le pizzicava le gambe. Non abbassò lo sguardo, non si mosse.
Il buio avrebbe lavato via tutto.
Uno sguardo vuoto sulla superficie d’acqua malata. Lei non sentiva nulla. Il
cuore non batteva più veloce del normale, né tantomeno si era fermato.
Eppure aveva un morto tra le braccia.
Aveva un morto tra le braccia e il suo cuore continuava a pulsare.
Tum.
Tum.
Tum.
Lei non gli aveva promesso nulla.
Credeva che lui avesse capito.
No. Non era vero. Lei sapeva che non avrebbe capito. Lo aveva terminato lo
stesso, però. Senza sporcarsi le mani.
Cos’altro avrebbe potuto fare? Era la sua natura.
Lo aveva ucciso quattro volte.
La prima quando l’aveva baciata.
Per lei era solo un modo come un altro per esprimere il suo disgusto nei
confronti del mondo.
Un po’ del suo veleno doveva essergli finito dentro, perché non si spiegava in
altro modo la sua improvvisa malattia.
Aveva le pupille opache, le occhiaie verdi e continuava a dirle che toccarla per
lui era come respirare. Attraverso la sua pelle bianca, diceva. Attraverso tutti
quei suoi pori invisibili.
Lei che era una pianta carnivora si cibava delle sue carni lentamente, in modo
che non si accorgesse di soffrire.
Non c’era un motivo vero che la spingesse a fare del male. La sua era più una
dipendenza congenita. Era sbocciata in un liquido amniotico malvagio. Lei
doveva fare del male. Non aveva altra funzione, altra capacità.
La seconda volta che lo aveva ucciso voleva ballare con lei.
Lei non ballava. Non c’era nulla di bello che potesse fiorire dal suo corpo.
Nulla che non fosse contaminato, sporco, corrotto. Nulla. La danza era fatta per
gli altri. Gli altri ballavano leggeri, lei ingoiava sangue usato.
L’aveva trascinato a combattere lotte cruente tra cigni finti e campi di luci
artificiali, dove raccoglievano scorie. Rose lisergiche, boccioli ammalati di
tumore. Inseguendo farfalle meccaniche gli aveva insegnato a ripudiare la forza
vitale che gli scorreva nelle vene, stringendogliele fino a farlo diventare blu.
“Sei bella” le aveva detto una volta. All’orizzonte le prime luci dell’alba, che le
facevano bruciare gli occhi.
“Come sono bella?” aveva domandato, chiedendosi chi fosse quello
stramaledetto stronzo che incendiava i cieli ogni mattina.
“Come le madonne bulimiche. Come le madonne anoressiche dei cimiteri” aveva
risposto, sfregando le labbra metalliche contro il suo ventre.
“Dev’essere un piromane”
“Siamo tutti piromani”
Lui si addormentava sempre all’improvviso, costringendola a trascinarlo in
macchina, a guardargli quel viso pallido una volta in più, alla luce del giorno.
Lo odiava profondamente. E per lei l’odio non era altro che l’unica forma di
amore di cui disponeva.
La terza volta che lo aveva ucciso stavano aspettando il tramonto.
Seduti sul ponte, incerti se buttarsi giù per davvero o per finta, come tutti
gli altri giorni. Lei aveva provato a farlo scivolare, ma poi lui aveva pianto
con quei suoi fottuti occhi di criptonite. Si era arresa all’evidenza. Lo odiava
troppo per ammazzarlo sul serio.
“Ma quando arriva, il tramonto?” gli aveva chiesto, aspettandosi una risposta
attendibile.
“Il tramonto non arriva mai” aveva detto lui, senza guardarla.
“E allora andiamo via da qui” gli aveva tirato i capelli, facendogli inclinare
un po’ la testa di lato. Aveva delle orecchie piccolissime.
“Dove dovremmo andare?” lui si faceva maltrattare come una bambola di pezza,
senza protestare, e aveva sempre quella dolcezza intensa nello sguardo, che le
faceva venire gli attacchi isterici.
“Dove voglio io” esclamava, urlando “Andiamo a vedere i colori delle ciminiere.
Potremmo avere un elicottero immaginario. Lanciarci, schiantarci al suolo.
Andiamo a finire sui telegiornali, con le foto in bianco e nero”.
Aveva sempre il fiatone, quando urlava. E i polmoni che fischiavano.
“Andiamo a dare fuoco ai tramonti. Non arrivano mai”.
Lui non ribatteva. Le posava una mano sul capo e le accarezzava quei capelli
ruvidi, come fanno le mamme con i bambini. E lei lo detestava ogni giorno un po’
di più.
L’ultima volta era di notte. Quella notte di merda, in quella città dove la
gente non sa mai come ti chiami, dove non si chiedono perché hai deciso di
morire attraversando la strada.
Lui non si reggeva neanche in piedi, sembrava consumarsi ad ogni passo. Le
arrancava affianco e lei faceva apposta a correre, per sentirlo ansimare e
implorare di aspettarlo. Le piaceva ascoltare quella sofferenza continua, sempre
più profonda e distruttiva.
Si fermò a metà del loro ponte preferito, sporgendosi di quel tanto da aver
paura di cadere giù. Lui la raggiunse strisciando i piedi sul marciapiede, come
uno storpio. Si aggrappò al cornicione socchiudendo gli occhi. Aveva del sudore
freddo che gli bagnava la fronte.
“Ma io cosa sono, eh?” fece lei, disinteressata al suo malessere “Cosa sono?
Potrebbero arrestarmi, per quello che sono? In un’altra epoca mi avrebbero
bruciata sul rogo. Sarebbe stata una fine atroce”.
Nessuna risposta.
“Dimmi, tu” lo spinse, facendolo cadere ginocchi a terra. Un gemito sommesso e
forse anche qualche lacrima “Cos’è che sono io?”.
Si abbassò, sedendosi sulla superficie lurida e bagnata. Qualcuno ci aveva
pisciato sopra, a quelle mattonelle.
Aprì gli occhi. La guardò come si guardano gli angeli. Una cosa che non era mai
riuscita a spiegarsi davvero.
“Con me non devi essere niente” mormorò. Un rantolo.
E poi qualcosa brillò nel buio. La velocità di un battito di ciglia.
Lo odiava. Lo odiava, aveva continuato a ripetersi. E lui si era infilato un
coltello nel corpo.
Le si accasciò addosso, maleodorante come una carcassa abbandonata sul ciglio
della strada. Era il profumo più bello del mondo. Contro la sua gonna corta
smise di respirare, e le fece scivolare il sangue caldo tra le cosce, quale
pegno del suo amore.
Lei osservò il fiume dalla fessura nella pietra.
L’aria aveva odore di cenere, in quella notte umida.
Qualcosa le pizzicava le gambe. Non abbassò lo sguardo, non si mosse.
Il buio avrebbe lavato via tutto.
Chissà se lui avrebbe ricordato qualcosa di loro, in un futuro prossimo e
impensabile. Se lo chiese, sperando di affogare lentamente in un’ondata di
disperazione che non arrivò mai.
I morti non ricordavano.
I morti erano morti.
Come lei.
Tum.
Tum.
Tum.
Note: Ispirata da “Piromani”, Le Luci Della Centrale Elettrica.
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