"Quando
si è soli nel corpo e nello
spirito si ha bisogno di solitudine, e la solitudine causa altra
solitudine."
Francis
Scott Fitzgerald
La sigaretta che
stavo fumando fino ad un attimo fa si sta divorando da sola,
là, sul
posacenere. Si consuma poco a poco, lenta, lasciandosi dietro pezzi di
cenere
scura e ancora calda, rigurgitando quel suo fumo che s’avvita
verso l’alto, in
una spirale d’ovatta.
L’ho
abbandonata
a se stessa perché hanno suonato alla porta.
Una, due, tre
volte.
So già
chi è
ancor prima di controllare la mia agenda, ancor prima di ciabattare
fino
all’entrata e rispondere al citofono.
Una, due, tre
volte.
Sei in totale,
come da prassi.
La mia casa
è in
subbuglio, un ricettacolo di giornali di psicologia e giardinaggio
sparsi e
ormai datati, un ammonticchio di vestiti da lavare, di riccioli di
polvere nera
sotto mobili, dietro le porte. Ma i miei pazienti lo sanno. Sono
abituati a
vedermi così, trasandato, nel mio studio privato disfatto,
in cima alle scale a
chiocciola, in quella stanzetta che dà sul terrazzo.
Ce
ne hai messo di tempo, mi dice lui entrando.
Si guarda
attorno, storce il naso.
C’è
puzza di sigaretta, mi dice con rimprovero.
Sempre la solita
storia.
Gli rispondo che
ora la spengo, gli chiedo se nel mentre posso offrirgli qualcosa, un
succo
d’arancia, un bicchiere d’acqua, un
caffè forte.
Glen
Grant non ne hai?
Non si è
ancora
tagliato i capelli, li tiene unti e legati all’indietro con
una fascetta. La
barba è sfatta e indossa ancora la stessa casacca sdrucita
della scorsa seduta.
Gli dico di no,
di Glen Grant non ne compro più.
O
forse l’hai appena finito.
Sorride. Una
sfilza di denti marci, gialli, con una strana patina sopra.
Lo faccio
accomodare di sopra indicandogli la scala, ricambiandogli il sorriso
con
circostanza.
Dopo
di te, ribatte.
Ho lasciato la
portafinestra aperta nello studio. Sta arrivando il temporale, un vento
forte
mi ha sollevato tutti i fascicoli e sparso i fogli alla rinfusa,
svuotato i
portapenne dalle matite.
Un
cimitero di matite, commenta lui senza darsi pena di
calpestarle. Con chi hai fatto a botte?
Si crede
simpatico, ha queste manie di protagonismo che ogni tanto fatico a
sopportare.
Gli dico che
donna Carmen è tornata in Venezuela perché la
madre non sta bene, che è per
questo che è tutto sottosopra. E subito dopo mi chiedo
perché io stia a
giustificarmi con lui.
In
effetti donna Carmen sa raccogliere le
matite molto bene, è giusto che lo faccia lei.
Gli sorrido di
nuovo, socchiudendo gli occhi, fingendomi divertito. Poi mi accomodo
sulla
poltrona in pelle, di fronte a quella dove è seduto lui, e
accavallando le
gambe apro l’agenda, scrivo nome e data.
Gli chiedo come
sta oggi.
Lui si gratta la
barba, sotto il mento, e si agita sul posto osservando a destra e a
sinistra,
smuovendo la puzza da scarsa igiene che si porta appresso.
Per
cosa usavi questa stanza prima?
Penso che gli
aumenterò le dosi di Leponex.
È
tutta rosa, hai notato che è tutta
rosa?
Lo appunto
sull’agenda.
Da
quando in qua uno studio è rosa?
Sembra piuttosto la stanza di una bambina.
Lo sottolineo
tre volte.
Ma
non c’avevi una figlia, tu?
Faccio un solco
talmente calcato da bucare il foglio e finire a due giorni dopo.
Gli chiedo
nuovamente come sta oggi.
Ma lui si alza,
non ce la fa proprio a stare seduto. Va in giro per lo studio, osserva
i quadri
appesi, le foto di famiglia in quelle cornici pacchiane. Ne raddrizza
una, la
più sbagliata.
T’oh,
questa qua. La indica, ci batte il suo dito sudicio
contro. Questa qua non è tua
figlia?
Gli chiedo, lo
supplico di tornare a noi, alla sua seduta, non la mia.
T’assomiglia,
è per forza tua figlia.
Gli dico di
evitare di venire, di pagarmi, se tanto poi non vuole parlare di
sé. Cerco di
mantenere il tono calmo, di non far vedere che sto sudando.
E
qui c’è tua moglie. Si gira verso di
me. Dov’è finita tua
moglie?
Devo alzarmi,
è
ora che lo faccia. In due falcate sono da lui con una voglia
irrefrenabile di
mettergli le mani addosso, di disincrostarlo dalla mia vita. Ma lui
continua a
tamburellare le fotografie, con insistenza, ad attirare maledettamente
la mia
attenzione su di loro.
Allora le
guardo, ma senza vederci nulla. Ci sono solo delle cornici vuote, una
parete di
foto bianche, anonime, sfocate.
Non
sei manco andato al loro funerale.
A quel punto io
urlo, gli urlo tutto addosso. Ormai si finisce sempre così
con lui, ormai non
so più cosa voglia dire professionalità.
Gli urlo di
tacere, che non sa nulla, che non è nessuno.
È
tanto più facile ubriacarsi, spararsi
robaccia nelle vene.
Lui, dal canto suo, è calmissimo. Lo
so,
perché lo faccio anch’io.
Gli ordino di
andarsene, la seduta è finita. Scatto alla scrivania,
scarabocchio sopra una
ricetta e gliela schiaffo sul petto. Via, deve andare via.
Lui
l’appallottola e me la tira addosso.
Niente
potrà riportarle indietro,
impedirti di alzare il gomito la sera del compleanno della piccola,
fare un
incidente mortale. Niente ti ridarà il tuo lavoro, la tua
sanità mentale.
Quando afferro
il tavolino e glielo rivolto contro lui è già
sparito. Di nuovo. Quando scivolo
piano al suolo, tra quel cimitero di matite, stretto nella mia casacca
lurida,
sto già piangendo.
Voglio essere
lasciato solo, solo con le mie voci, le mie sensazioni, le mie
pasticche.
Voglio la mia
solitudine, voglio marcirci dentro.
Raccatto il
foglio della ricetta e lo srotolo.
C’è
ancora una bottiglia di Glen Grant
sotto il letto, dice.
La vita che
stavo vivendo fino ad un attimo fa si sta divorando da sola,
là, sul pavimento.
Si consuma poco a poco, lenta, lasciandosi dietro pezzi di carne
putrida e
ancora calda, rigurgitando quella sua anima che s’avvita
verso l’alto, in una
spirale d’ovatta.
L’ho
abbandonata
a se stessa perché me lo merito.
Perché sono un
assassino.
Note di Slappola:
Questa storia ha partecipato
al contest di _Vintage_, "Ombre
del passato - Quando dimenticare è impossibile", classificandosi prima.
Inoltre partecipa al
contest di Amahy e Chloe
R Pendagon, "V'è
un piacere nello... scrivere", da cui ho preso spunto per
stendere la trama.
Grazie a chiunque
leggerà e recensirà :3
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