Skyfall

di TheHeartIsALonelyHunter
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In fondo, si disse Ally, avrebbe potuto andarle peggio.
Il ragazzo che Robbie le aveva rifilato non era affatto male, doveva ammetterlo: alto, più di lei (cosa che non a tutti riusciva), occhi di un castano così ambrato da sembrare caramello fuso, capelli abbastanza spettinati da non farlo assomigliare ad un modello delle riviste patinate di gossip che scorgeva con somma costernazione tra le mani di sua madre, ogni tanto, ma anche abbastanza curati da non farlo sembrare un rozzo cavernicolo.
Michael Corner, se n’era resa conto nell’istante in cui aveva fatto il suo ingresso nella Sala Grande al braccio del ritto e sorridente Corvonero, era uno di quei ragazzi che, appena le ragazze si erano viste tolta la possibilità di “introdursi in società” (così una Grifondoro aveva definito quell’evento, come se il Ballo del Ceppo fosse per lei ciò che il Ballo delle Debuttanti era per i Babbani) affiancate da uno dei Campioni o da Draco Malfoy, era stato classificato immediatamente ‘partito interessante’. E Ally non poteva certo biasimarle per quello: nonostante non raggiungesse la bellezza algida del Serpeverde o l’aura di prestigio e potere che aveva Krum e che perfino Potter era riuscito a raggiungere (per non parlare poi dell’incredibile fascino di Cedric di cui Ally non sarebbe mai riuscita a descrivere appieno la potenza e l’entità), il suo accompagnatore era decisamente un bel ragazzo.
Bello e tra l’altro gentile.
Le si era presentato con un tono di voce tanto basso e flautato e accompagnando le parole ad un inchino tanto servizievole che per un istante la ragazza aveva stentato a credere che proprio lui fosse il suo accompagnatore (il SUO accompagnatore, l’accompagnatore di quella frana di Allison Frost).
Durante il ballo era stato tanto paziente da sopportare ogni suo sbaglio e accettare le sue scuse mugugnate tra il rossore delle sue gote e la sua testa che continuava a darle della stupida. Aveva un accento particolare, si era ritrovata a pensare, così profondamente inglese da sembrare quasi una parodia mal riuscita di Sherlock Holmes.
La cena? Anche in quell’ambito Michael si era dimostrato perfetto, assolutamente perfetto: aveva insistito per servirla, si era premurato di iniziare lui la conversazione, aveva tentato di metterla a suo agio come meglio poteva…
Ally si stava davvero chiedendo dove Robbie avesse trovato un simile gentleman: suo fratello le era sempre sembrato più interessato ai libri che alle persone, e le poche che degnava della sua amicizia erano pignole e asettiche quanto lui.
Michael invece non sembrava affatto pignolo. Né tanto meno asettico.
Ally non ritrovava nulla, in quegli occhi caldi e rassicuranti, della freddezza scientifica del fratello, della facilità con cui liquidava comportamenti ai suoi occhi disumani come causati da una qualche parte del cervello o da una sottospecie di tossina. Michael era per certi versi straordinariamente teso e rigido, ma non lo era abbastanza da sembrare costantemente una marionetta con tutti i fili tirati: più di una volta la sua maschera da uomo perfetto si era sciolta, durante quella serata, per lasciare spazio a una risata, a un commento poco signorile sull’ultima lezione della Cooman o a un apprezzamento, mitemente gentile, sul vestito di Ally o sui suoi capelli.
Complimenti che ovviamente non avevano potuto fare a meno di lusingare, e non poco, la ragazza: nei suoi quindici anni di vita, Allison non aveva mai ricevuto apprezzamenti da parte di nessun altro se non dei propri parenti, sempre accompagnati da buffetti sulle guance e enormi sorrisi.
Quei complimenti, si rese conto quella sera, erano completamente diversi: un parente avrebbe avuto il dovere e l’obbligo di trovarla “carina” e di darle della “carina”; un ragazzo non avrebbe avuto nessuna ragione di definirla “bella”, considerando che il suo fisico non era certo particolarmente slanciato e che il suo viso rientrava appena nella media e dunque non era certo una preda delle più ambite.
Quindi poteva esserci solo una spiegazione logica ai complimenti di Corner: la trovava davvero bella, e in un certo qual modo ciò faceva sentire anche lei un minimo bella.
La ragazza non aveva mai trovato i suoi capelli castani sfilacciati particolarmente attraenti, né gli occhi dello stesso color marrone scialbo. Ma sentire un ragazzo tessere le lodi di quegli spaghetti tanto odiati o vederlo fissare attentamente le sue pupille come se volesse studiarne ogni sfumatura le riempiva il petto di una certa fierezza che aumentava mano a mano che la serata procedeva.
Non era entrata nella Sala al braccio di Draco Malfoy. E allora? Quanto poteva competere la sua bellezza glaciale con la parlantina calda e gentile di Michael?
Non era entrata nella Sala al braccio di Viktor Krum. E allora? Per quanto la riguardava la sua fama da Cercatore non avrebbe mai reso meno intimidatori i suoi sguardi freddi e superiori o meno affettati i suoi commenti impersonali.
Per Ally era quasi impossibile credere che un ragazzo tanto gentile e disponibile nei suoi confronti esistesse davvero e che avesse accettato di accompagnarla al Ballo.
E soprattutto, che non portasse il nome di Cedric Diggory.
Quella constatazione era l’unica nota stonata in un concerto altrimenti perfetto, la piccola macchia nera che comprometteva inevitabilmente il candore del foglio.
Michael era perfetto, certo. Ma non era Cedric.
Non sarebbe mai stato Cedric.
 
Se Evangelin avesse trovato Justin Finch Fletcher un minimo interessante quella situazione l’avrebbe innervosita parecchio.
Se fosse stata lei, in preda a una folle febbre d’amore, ad invitare quello che considerava il ragazzo dei suoi sogni, probabilmente si sarebbe avventata su Hannah Abbot appena la serata era iniziata urlandole di stare alla larga dal “suo tesorino” (immaginare quella scena l’aveva fatta ridacchiare per tutta la serata sotto lo sguardo stupito e imbarazzato del suo accompagnatore).
Invece, dalla posizione in cui si trovava, non poteva fare altro che considerare Justin un tenero e impacciato corteggiatore che si era affidato al trucco più vecchio e più patetico del mondo e Hannah una sciocca per non essersi accorta del palese interesse che il ragazzo nutriva nei suoi confronti.
Gli sguardi che il Tassorosso aveva lanciato alla bionda erano stati tanti e tanto evidenti che dopo la cena Neville le si era avvicinato per informarla, con il solito tono imbarazzato e un po’ reticente al darle una notizia ai suoi occhi tanto “sconvolgente”, che molto probabilmente il suo accompagnatore si era preso una sbandata nei confronti di Hannah Abbot. Eve si era dovuta trattenere per non ridere in faccia all’amico: se anche Neville, che da quando la serata era iniziata pendeva dalle labbra della Weasley e che durante tutto il ballo aveva avuto le sopracciglia aggrottate per la concentrazione, si era accorto del disinteresse di Justin allora la cosa doveva essere anche più palese di quanto credesse.
Un rapido giro di domande e una partecipazione minima ai gossip che gruppetti di ragazzine capeggiate  da Lavanda Brown alimentavano avevano confermato i suoi sospetti: l’interesse di Justin per la Abbot era ben noto a tutti i Tassorosso. Beh, a tutti meno che a lei, a quanto sembrava. Aveva sempre cercato di evitare chiacchiere superflue e futili come quelle che alcune sue compagne amavano tanto, e a quanto pareva era riuscita a ignorarne una che le avrebbe fatto molto comodo. Non che le pesasse essere andata al Ballo con un ragazzo interessato ad un’altra: non aveva mai considerato Justin un possibile fidanzato e la sua proposta era stata accettata più per comodità e per lo stupore che aveva causato in lei e che non le aveva dato il tempo di pensare a una risposta diversa e più logica che per un vero e proprio interesse nei confronti del ragazzo.
L’unica cosa che a Eve dispiaceva era che, molto probabilmente, Justin non avrebbe trovato il coraggio di dichiararsi a Hannah e lei non se ne sarebbe mai resa conto. Si era resa conto fin troppo bene della timidezza del Tassorosso, del suo fare impacciato e a tratti un po’ ridicolo, e la Abbot non sembrava minimamente interessata a mollare il suo aitante accompagnatore di Durmstrang. O non sembrava interessata a farlo senza un invito esplicito.
Il secondo ballo non stava procedendo differentemente dal primo: Justin era teso come una corda di violino e le sue mani sudavano in maniera non molto leggera tra le sue, e un suo passo equivaleva a tre di quelli di Evangelin. I suoi piedi costretti nei tacchi e tempestati di colpi chiedevano disperatamente pace, ma nel momento in cui pareva che finalmente Justin avesse trovato un proprio ritmo e che i loro passi fossero in sincrono, ecco che qualcosa nel campo visivo del suo accompagnatore gli faceva spalancare gli occhi e dimenticare completamente di stare ballando.
Eve aveva il sospetto che a fine serata i suoi piedi sarebbero stati ridotti come acini d’uva in un tinello.
A metà ballo Evangelin aveva ben tre ragioni per intervenire in una questione che, in un’altra situazione, sarebbe stata completamente fuori dai suoi interessi: primo, la possibilità di rendere felice un ragazzo che in fondo non aveva dimostrato nei suoi confronti idee malevole o volutamente dannose; secondo, un tentativo ultimo di non farsi affibbiare a vita il titolo di “ragazza-ripiego” (non che le importasse così tanto); terzo, il desiderio di salvaguardare la salute dei suoi poveri piedi.
“Ok, quanto vuoi andare avanti con questa farsa?” domandò dolcemente la ragazza quando Justin, non senza ovvia difficoltà, si decise ad aprire finalmente la bocca per commentare, in un tono incredibilmente tirato e anche piuttosto imbarazzato, “Bel Ballo, vero?”.
Il ragazzo spalancò gli occhi alla sua domanda.
“Scusa?” chiese sinceramente stupito. Eve non riuscì a trattenere un sorriso divertito: era davvero un peccato che un ragazzo all’apparenza così dolce e tenero non riuscisse ad aprirsi del tutto con lei. La Tassorosso era quasi certa che, se il suo cuore non fosse stato già occupato o se fosse stato solo un po’ meno impacciato, sarebbero andati molto d’accordo.
“Guarda che si vede lontano un miglio che vai dietro alla Abbot” commentò nello stesso tono dolce Evangelin. Il viso del ragazzo davanti a lei divenne di un rosso tanto acceso e la sua bocca si contrasse in una smorfia tanto stupita e imbarazzata che Eve si dovette trattenere nuovamente per non ridergli in faccia.
“M-m-ma no, c-come puoi pensare che io…”. Anche se Justin Finch Fletcher fosse stato un esimio attore, Eve non gli avrebbe creduto: i suoi sguardi erano stati decisamente eloquenti e, per una volta, la ragazza era più che disposta a credere al gossip. Considerando quindi che la sua recitazione era scarsa quanto quella di un attore in una telenovela spagnola, non c’era da stupirsi che le sue scuse non causassero in lei altro che genuino divertimento e, in modesta misura, anche un po’ di pena.
“Ehi, ehi!”. La castana gli poggiò una mano sulla spalla, bloccando il flusso di parole che gli stava sgorgando dalla bocca.
“È tutto ok!”, sussurrò cercando di non farsi sentire dalle Patil, le cui teste si erano allungate in maniera esageratamente sospetta nella loro direzione, e dal resto delle adepte della Brown, che da quando si era rivolta loro non perdevano occasione per avvicinarsi “casualmente” a lei e a Justin.
Il Tassorosso, da parte sua, non si accorse minimamente dell’attenzione eccessiva che era rivolta loro, tanto che il suo “Cosa?!” stupito per poco non fu sentito da tutta la Sala Grande.
Evangelin poggiò un dito sulle sue labbra sperando che fosse un gesto abbastanza eloquente per fargli capire che era il caso che stesse zitto per un qualche istante.
“Voglio aiutarti” sussurrò avvicinandosi al suo viso per non correre rischi di essere sentita: non avrebbe mai voluto che Hannah, una volta compiuta la sua strategia, venisse a sapere da un gruppo di ochette starnazzanti che si era accordata con Justin.
Le sopracciglia del ragazzo si aggrottarono tanto che per un istante Eve ebbe l’impressione che avrebbero raggiunto la punta del naso.
“Scusa?” mugugnò lui, tentando malamente di muovere le labbra contro il suo dito.
Eve sospirò e si allontanò di qualche centimetro dal suo viso. Quasi non si accorse neppure dell’improvviso tramestio nel cerchio delle pettegole, e del numero di teste che si erano voltate di botto a fissare un punto che non fosse quello in cui si trovavano ora loro.
“Voglio aiutarti” ripeté lei, con tono più risoluto di quello adattato fino ad allora. “Voglio aiutarti a conquistare la tua bella”.
 
Filiana non aveva mai considerato quello.
Certo, aveva considerato la possibilità di fare un ingresso trionfale in Sala, aveva considerato la possibilità di essere ammirata dal suo ragazzo (Dean Thomas, il SUO ragazzo; Filiana non era certa di crederci ancora del tutto), aveva considerato commenti pieni di meraviglia e sguardi ricchi di invidia, aveva considerato, chissà! di diventare la ragazza più chiacchierata della serata, magari più chiacchierata della Chang! Era un pensiero stupido e infantile, Filiana se ne rendeva conto, ma si giustificava immediatamente dicendosi che quella del Ballo era un’occasione speciale e che, per una notte, poteva concedersi anche lei di essere giusto un pochino stupida e infantile.
Non aveva considerato, certo, che la gonna enorme le avrebbe impedito di avvicinarsi a Dean senza rischiare che lui le rimbalzasse addosso come una pallina lanciata sul pavimento; non aveva considerato che quella stessa gonna le avrebbe dato enormi problemi nel ballare e che avrebbe tenuto lontano il suo ragazzo quando l’unica cosa che lei avrebbe voluto era che le stesse tanto vicino da poter sentire il suo respiro calmo accarezzarle placidamente le guance e lambirle il collo; non aveva considerato che le sarebbe stato impossibile mettersi a sedere senza che il tavolo fosse fatto spostare apposta per lasciare un po’ di spazio spazio all’enorme “palloncino” (così aveva deciso di ribattezzare quel gravoso e ingombrante peso giallo) che si portava dietro, quando la sua intenzione era quella di adagiarsi sulle panche con grazia lasciando che la gonna le facesse da comodo cuscino; non aveva considerato le risatine dei malevoli e l’imbarazzo dei professori; non aveva considerato la possibilità di sentirsi niente meno di una principessa, quella notte.
E come altro si sarebbe potuta considerare, con quel vestito alla Belle e quell’acconciatura curata nei minimi dettagli?
Era stata Sarah a darle una mano nel trasformare gli spaghetti castani in boccoli rigidi ma allo stesso tempo morbidi che ricadevano in onde perfette sulle spalle scoperte. Un paio di ciocche erano state fissate dietro le orecchie ornate da semplici brillanti dorati a formare una sorta di aureola sul suo capo spruzzato di glitter argentato (l’amica aveva definito l’aggiunta un po’ “ruffiana”, ma lei aveva insistito tanto da non lasciarle neppure il tempo di un altro commento). Gli occhi castani erano stati messi in risalto da una matita nera che le percorreva l’interno palpebra e da un ombretto di un giallo brillante che si intonava con il colore dell’abito. Quando Sarah le aveva posto la fatidica domanda “Cosa metto sulle labbra?” Filiana si era resa conto già da tempo che il suo make up stava diventando decisamente troppo brillante, e che forse, per il bene della grande stima che i professori avevano di lei, non era il caso di fare aggrottare le sopracciglia alla McGrannit. Quindi le sue labbra, già abbastanza carnose, erano state ornate con un semplice lucidalabbra rosato che Sarah aveva assicurato essere un buon modo per completare il trucco e un ottimo abbinamento con la collanina a cuore rossa che pendeva dal collo di Filiana da quando Dean gliel’aveva regalata.
Era il vestito il punto di forza del suo intero aspetto, ciò che avrebbe fatto spalancare gli occhi ad ogni ragazzo presente nella Sala Grande e borbottare di invidia le ragazze.
L’abito era di un bel giallo brillante, con una scollatura a cuore contornata di brillantini argentati che tracciavano anche una linea diagonale lungo il corpetto plissettato. Fino a poco sopra la vita la stoffa si manteneva pieghettata, per poi distendersi gradatamente e aprendosi in una gonna incredibilmente ampia e incredibilmente complessa: un lembo di stoffa era fissato al suo fianco destro con una spilla anch’essa argentata, e da lì sotto partiva un altro stato di un materiale più leggero ricco di pieghettature orizzontali.
Era tutto ciò che la Grifondoro aveva sempre voluto: un perfetto vestito da ballo che la facesse sentire la bella principessa di una favola e che rendesse fiero e ammaliato il suo principe.
Ora, Filiana Basile non si sentiva davvero una principessa: si sentiva una perdente.
Un’inutile, ridicola perdente che si era lasciata trascinare dall’eccitazione del momento senza pensare alle conseguenze.
Era straordinario quanto le fossero sembrate irrilevanti, quasi nulle, le complicazioni che un vestito tanto voluminoso avrebbe portato: le sue ipotesi non avevano neppure contemplato un aspetto negativo della situazione, non c’era in quell’abito nulla più che meravigliosi, stupendi aspetti positivi. Davvero stupido, da parte di una studiosa, non analizzare completamente un problema, non considerare entrambi i lati della medaglia quando le era sempre stato insegnato che non vi era male senza bene, nero senza bianco, gioia senza dolore. Si era sempre considerata una ragazza dalla mente profondamente lucida e dalla razionalità intaccabile, ma era bastato un evento futile come il Ballo del Ceppo per farle dimenticare completamente ogni barlume di ragionevolezza e lasciare il posto a idee che non andassero oltre a come avrebbe acconciato i suoi capelli o a quale accessorio avrebbe abbinato al suo abito.
Sarah aveva raccolto la sua disperata richiesta d’aiuto con un’alzata di spalle e un ovvio “È solo un Ballo!”. Filiana avrebbe tanto voluto assumere il suo distaccato punto di vista, ma il fatto che la ragazza andasse con il proprio fratello e non con il suo ragazzo (il SUO ragazzo, il primo ragazzo della sua vita, dannazione!) probabilmente influiva e non poco sulla Tassorosso.
Dean tese un po’ di più le braccia per evitare di scontrarsi nuovamente con la sua gonna, e Filiana si sentì avvampare di vergogna: gli sguardi irrisori e le risatine divertite dei Serpeverde potevano essere sopportati; gli occhi incuriositi dei suoi compagni di Casata e le loro bocche che si contraevano nel tentativo di non ridere le passavano addosso come acqua scrosciante durante una doccia; ma lo sguardo di Dean, le sue mani strette nelle proprie e non posate sul suo corpo, la distanza che bruciava tra di loro era vergogna allo stato puro e frustrazione incommensurabile. Aveva fantasticato tanto a lungo su quella serata e su ciò che lei e Dean avrebbero potuto fare, sui baci che si sarebbero scambiati, sulle carezze che nei giorni precedenti le erano state promesse che ora quel freddo contatto le sembrava un doloroso schiaffo in faccia, uno smacco personale.
Aveva dovuto aspettare 15 anni di vita prima di riuscire a trovare un ragazzo intelligente con cui si trovava a proprio agio e che, sì, non poteva negarlo, non mancava di occupare ogni suo sogno da molto più tempo di quanto avrebbe ammesso, e proprio quando avrebbe potuto godersi la sua compagnia, quando avrebbe potuto mostrarsi a testa alta col suo ragazzo (il SUO ragazzo) al proprio fianco davanti all’intera, maldicente Hogwarts, l’intera esperienza si stava guastando poco a poco per colpa di uno stupido abito scelto proprio da lei. Era dannatamente frustrante non poter dare la colpa a nessun altro se non a sé stessa.
Dean rimbalzò per l’ennesima volta contro la sua gonna. Le risatine dei Serpeverde la raggiunsero nello stesso istante in cui il rossore arrivò a tingerle le guance.
“Ok, scusa” riuscì finalmente a sussurrare, con voce sottile. Si stupì quasi che l’imbarazzo non avesse atrofizzato completamente le sue corde vocali, considerando quanto ogni proprio arto le sembrasse, in quel momento, in balia alla rigidezza più totale. Era un vero e proprio miracolo che le gambe la reggessero ancora e che riuscissero a percorrere un passo dopo l’altro il Calvario eterno che stava diventando quel ballo.
Dean aggrottò le sopracciglia incuriosito dalla sua affermazione.
“E per cosa? Sei una ballerina troppo esperta per pestare il piedi al tuo compagno. E se l’hai fatto non me ne sono accorto” commentò con un sorriso divertito che gettò un raggio di sole tra le nuvole nere del suo imbarazzo.
“N-n-no, io intendevo…”. Filiana pregò ardentemente di non essere arrossita nuovamente: da quando si era messa con Dean le capitava anche troppo spesso che le gote diventassero di un rosso peperone acceso a un suo complimento o ad un suo semplice tocco, e la ragazza iniziava a pensare che un giorno o l’altro il ragazzo (il SUO ragazzo, accidenti) si sarebbe stufato di quel suo imbarazzo.
Con un sospiro la ragazza si ravviò i capelli nervosamente.
“Avevo… Pensato che questa serata sarebbe stata fantastica, e-e volevo che fosse tutto perfetto p-perché ora stiamo insieme, e quindi doveva essere speciale, e… E invece il ballo, la gonna, la cena, e-e questa dannatissima gonna e-e i Serpeverde, e tu che rimbalzi, e questa tremenda gonna, e-e avevo pensato e-e invece no, e credevo che… Ma questa STUPIDA gonna!!” tentò goffamente di spiegare agitando le mani in aria. Era una fortuna che al momento le malelingue sembravano impegnate a infilarsi nelle bocche di qualcun altro, o Filiana si sarebbe vista parodiata a vita, tanto erano ridicoli i suoi movimenti e tanto le tremava la voce.
Dean la zittì prima che potesse umiliarsi ulteriormente sussurrando un “Ehi, ehi” affettuoso e avvicinando leggermente il proprio volto al suo. Fu in quell’istante, in quel preciso istante, che Filiana percepì chiaramente che non sarebbe riuscita a spiccicare una parola per il resto della serata: gli occhi dorati di Dean avevano da molto più tempo di quanto credesse la capacità di ammutolirla, e l’intensità destabilizzante con cui la stava guardando in quell’istante spezzò definitivamente quel filo sottile di voce che le era rimasto in gola.
Il Grifondoro sorrise, e per la prima volta da quando la serata era iniziata a Filiana sembrò di non cogliere malizia o divertimento in un sorriso che le era rivolto, ma solo fiducia e affetto. Era assurdo che non si fosse mai resa conto quanto fosse caldo e rassicurante il sorriso di Dean. O meglio, probabilmente l’aveva sempre saputo, ma era straordinario quanto una scintilla di positività potesse sembrare brillante in un mare di cupa negatività e di paralizzante imbarazzo.
“Ehi...”. Dean le accarezzò la guancia con il pollice delicatamente, quasi lei fosse stata una bambola di porcellana e lui avesse avuto paura di romperla, continuando a fissare gli occhi nei suoi.
“Fili…” Il suo tono di voce si abbassò accarezzando il suo nome con una dolcezza infinita. La ragazza non credeva che un’altra persona al mondo sarebbe stata capace di rendere il suo nome tanto bello quanto Dean.
Il viso del ragazzo era ormai così vicino al suo che la castana riusciva a percepire il fiato di lui che le accarezzava le labbra e le sue parole imminenti che già le colmavano le orecchie.
“È tutto perfetto”. Quelle tre parole furono pronunciate in un tono di voce tanto basso e melodioso che Filiana si sentì scuotere da capo a piedi da una scarica di caldo, dolce piacere. Bastarono quelle sei sillabe proferite dalla sua bocca amata, quelle quattordici lettere articolate nel più placido e dolce dei modi per farle dimenticare completamente ogni cosa, per rendere ogni altro oggetto un’inezia, per oscurare totalmente il mondo e farlo risplendere della luce abbagliante che era Dean.
“Sono con te. E tu sei bellissima” continuò lui, nello stesso dolce e placido tono. “Quindi è tutto perfetto”. Filiana sentì ogni possibile residuo della propria voce lasciarla definitivamente.
Non c’era più nulla, dopo quelle parole: non c’erano più i Serpeverde e i loro commenti malevoli; non c’erano gli occhi di tutti puntati su di lei; non c’erano più le aspettative infrante, non c’erano più i suoi castelli in aria malamente smontati, non c’era più la voce della McGrannit che imponeva loro di rimanere “a distanza di sicurezza”, non c’era neppure più la gonna, quell’immensa gonna tanto odiata, quella gonna che avrebbe dovuto farle spiccare il volo e che invece le aveva fatto da zavorra: c’era solo Dean, in quel momento.
Dean e i suoi occhi color del miele.
Dean e il suo sorriso candido e dolce.
Dean e le sue labbra zuccherine che si appoggiavano lentamente sulle proprie, perdendosi nell’essenza della sua bocca, avviluppandosi dolcemente a lei, lasciandosi un istante di tempo per chiederle il permesso e poi scivolando piano piano, quasi timorose dentro di lei.
Dean e il suo aroma che le riempiva le narici e inebriava i suoi sensi.
Dean e le sue braccia che la stringevano, la spingevano contro di lui, azzeravano lentamente la distanza tra i loro corpi e infine la sollevavano, lei e l’immane gonna maledetta, facendole scappare un verso di sorpresa che però non le impedì di continuare il bacio con una risata divertita.
Dean e i suoi capelli neri da accarezzare, Dean e le sue guance scure da esplorare, Dean e le sue dita sottili sulla schiena di lei.
Dean e lei.
Solamente, semplicemente Dean e lei nei loro infiniti dieci secondi di Paradiso.
 
Prima dell’inizio di quell’anno, Daisy Kapner era sempre stata certa di aver vissuto qualsiasi esperienza potesse essere vissuta in una vita intera in soli 15 anni di vita: era riuscita ad avvitare una lampadina all’età di cinque anni (beccandosi com’era prevedibile la scossa) e da lì la sua carriera di scienziata si era lentamente spostata verso lidi sempre più lontani e imprese sempre meno sicure. Ricordava ancora quella volta in cui sua madre l’aveva beccata a immergere nell’acido un pezzo di carne che avrebbe dovuto fare loro da cena. Daisy era piuttosto certa di aver scoperto solo in quell’occasione cosa volesse dire “essere sgridata”. Loreline si era rassegnata dopo mille grida, l’esplosione della cucina e l’intercessione di Peter alla passione “distruttiva” della figlia, come lei era solita chiamare la sua attività da scienziata. Daisy poteva dunque affermare con certezza di aver vissuto conflitti con la propria famiglia e di averli (cosa che non molti adolescenti avrebbero potuto affermare) risolti con successo.
Poteva anche vantarsi di essere riuscita ad andare, superata l’incertezza dei genitori e anche grazie al supporto di suo fratello, ad assistere ad una vera e propria partita di Quidditch: una sera cupa d’estate che era ormai un ricordo semi sbiadito nella sua memoria, Daisy Kapner aveva visto i Ballycastle Bat sfrecciare nel cielo inseguiti da Tutshill Tornados. Considerando il suo stato di sangue Daisy si era sentita, subito dopo la partita, incredibilmente fiera e privilegiata della sua piccola conquista, anche se, ogni volta che qualcuno le domandava quale fosse stato il risultato della partita, lei rispondeva arrossendo e balbettando un incerto “Ehm… Parità?”.
Daisy poteva anche affermare di essere rimasta sveglia fino a tardi, e numerose volte: non erano mancate le notti passate col naso all’insù in attesa di una qualche cometa o nella speranza che quella nuvola davanti a Marte, finalmente, si spostasse lasciandole libera la visuale del pianeta per qualche secondo.
Le era perfino capitato di provare alcolici, quantunque molte delle persone che la conoscevano non l’avrebbero mai creduto possibile: una volta, ad un matrimonio, aveva provato dello champagne dal bicchiere di sua madre e aveva passato il resto della serata in uno stato di eccitazione decisamente non indifferente.
In quanto ad amicizia, Daisy non poteva dire di essere carente neppure in quel campo: Thomas e Zach erano da sempre due punti fermi della sua vita, le due luci che la accompagnavano verso l’uscita del tunnel, i suoi compagni e i suoi fratelli, le uniche persone con cui, nonostante la sua timidezza, riuscisse a sentirsi totalmente a suo agio anche restando nel silenzio più totale.
Prima dell’inizio di quell’anno, Daisy Kapner era la perfetta padrona del suo castello personale, sempre attenta e diligente a ripulire ogni angolo al primo accenno di sporcizia e mai impaziente di aggiungere nuovi mobili nel timore di rovinare l’ordine all’apparenza perfetto.
Ma come ogni casa, anche la sua nascondeva delle inevitabili e ben celate pecche che erano state ben pronte a schizzare via, una dietro l’altra, in un effetto domino che aveva sconvolto completamente le priorità della ragazza e tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Prima era venuto Lesath. Lesath era stata la prova vivente che non solo i Serpeverde potevano essere degli idioti, e la rivelazione era stata tanto sconvolgente per Daisy che l’aveva portata ad analizzare in maniera più approfondita la Casa che, durante quei quattro anni, era sempre stato il suo incubo peggiore. E in fondo, aveva scoperto non senza un certo stupore la ragazza, non tutti i Serpeverde erano crudeli o barbari quanto Malfoy e la sua banda. A confermare la sua tesi Zach e la sua amica\fidanzata\qualsiasi cosa fosse Serpeverde.
Daisy conosceva Zach abbastanza bene da sapere che non era una persona che si affezionava facilmente alle persone. Era, certo, un ragazzo imbranato e dolce dalla risata facile, imperterrito e mai rassegnato nel lottare strenuamente contro la massa di capelli castani che si ritrovava in testa, il tipo che, insomma, qualsiasi ragazza avrebbe voluto come migliore amico. Ma era anche un ragazzo timido, sebbene molto meno di lei, e tanto abituato ad essere deriso e preso in giro da non fidarsi istintivamente di qualsiasi persona si trovasse sul suo cammino. Soprattutto, Zach Terrinson non si fidava assolutamente e, secondo le sue stesse parole, “non si sarebbe mai fidato di un Serpeverde”. Non c’era da stupirsi, dunque, che la sua amicizia non solo con una Serpeverde, ma con una Serpeverde così esuberante e eccentrica l’avesse lasciata completamente spiazzata. Se davvero una persona così restia a stringere nuovi rapporti come Zach era riuscita a trovare del buono in quello che un tempo avrebbe definito “il suo nemico giurato”, allora non tutte le serpi dovevano essere necessariamente velenose.
Lesath era stato anche la prova che, se le veniva fornito lo stimolo giusto, la ragazza riusciva ad arrabbiarsi e sul serio. O meglio, poteva arrabbiarsi e arrivare al punto di ribattere al proprio avversario, utilizzando un linguaggio e un tono di voce che si andava via via arricchendo di nuove espressioni dispregiative e di sfumature che spaziavano tra il sarcastico e l’isterismo a malapena trattenuto.
Per tanto tempo Daisy aveva tenuto ben nascoste le proprie emozioni e il proprio risentimento verso sin troppe persone e troppe situazioni, troppo timorosa di causare danni per poter rispondere ad un attacco in altra maniera che non fosse “No, signore” o “Certo, se lo dici tu…” con un tono di voce sottile sottile e un’espressione accondiscente in viso. Lesath era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso già da tempo pieno, e su di lui Daisy aveva sfogato e sfogava frustrazioni e parole represse in ben 15 anni di vita. Se la cosa all’inizio l’aveva scioccata, oramai sia lei che il Corvonero vi erano così abituati che la ragazza non si sentiva neppure più in dovere di scusarsi col ragazzo o di sentirsi in colpa per ciò che aveva detto.
E ora Zach.
Daisy era conscia da molto più tempo di quanto Zach immaginasse della cotta che l’amico nutriva per lei. In realtà i segni del suo interesse erano così palesi e il ragazzo si impegnava così poco per nasconderli che anche un cieco si sarebbe accorto dei sentimenti del Tassorosso nei suoi confronti. Daisy era quasi certa che l’intera Hogwarts si fosse resa conto ormai da tempo di quanto il suo “amico” fosse interessato a lei. Come Zach non si fosse accorto della consapevolezza di ogni singolo studente di ogni singola Casa riguardo alla sua cottarella, non avrebbe saputo dirlo.
Ma la verità era che la questione non l’aveva mai turbata particolarmente né aveva creduto che si sarebbe mai evoluta in qualcos’altro: Zach era troppo timido per dichiararsi apertamente e lei non era assolutamente interessata a lui in quel senso. Certo, ciò non voleva dire che non provasse nulla al riguardo, no… Non era così insensibile da non soffrire per la consapevolezza che il suo migliore amico non sarebbe mai stato, purtroppo, ricambiato. E avrebbe voluto, davvero, avrebbe voluto volergli bene quanto lui si meritava, avrebbe voluto AMARLO come lui meritava… Ma non ci riusciva.
Zach Terrinson sarebbe rimasto, sfortunatamente per lui, sempre e soltanto un amico.
Quando aveva iniziato a frequentarsi con quella Shaula il sollievo era stato davvero enorme: per lungo tempo Daisy aveva creduto che il Tassorosso sarebbe rimasto bloccato in quella cotta senza speranza, in quei sentimenti mai ricambiati, mai pronto a donare a qualsiasi altra ragazza il fiore che aveva sperato lei potesse raccogliere, sempre in attesa che qualcosa si sbloccasse in lei, sempre disilluso che, un giorno, Daisy Kapner si sarebbe svegliata e sarebbe stata innamorata di lui.
Aveva davvero creduto che quella Serpeverde sarebbe stato il suo nuovo inizio, un nuovo punto di partenza da cui costruire qualcosa, una possibilità di poter finalmente essere ricambiato. Ma ciò che non avrebbe mai creduto possibile era che Zach la invitasse al Ballo del Ceppo.
Non l’aveva creduto possibile prima che Shaula entrasse nella sua vita, non l’avrebbe mai neppure concepito dopo che la Serpeverde aveva conquistato la sua fiducia e il suo affetto.
Il suo “sì” era stato pronunciato più per la necessità impellente di trovare un cavaliere che per vera e propria convinzione, e in realtà Daisy si era pentita di quella decisione appena cinque secondi dopo averla presa.
E ora che il momento fatale era arrivato, la ragazza stava veramente sofferto per quelle due lettere sussurrate a mezza voce ancora troppo stupita per poter pensare razionalmente al disastro che stava causando con quella singola parola.
Daisy aveva passato ore e ore insonni a pensare, con la faccia affondata nel cuscino, al corso che il Ballo avrebbe preso per lei e il suo amico: Zach avrebbe potuto provarci con lei, pieno di speranza dopo quella sua decisione così avventata, o sarebbe stato troppo imbarazzato per dire anche solo una parola, lasciando a lei l’arduo compito di tenere in piedi una conversazione quanto meno logica (la ragazza si era già preparata mentalmente un discorsetto relativo le capacità di ogni singolo insegnante ad Hogwarts), o qualcuno avrebbe combinato qualche casino al Ballo dandole il tempo di andarsene inosservata e poi convenire con Zach, cercando di assumere l’aria più afflitta che le riusciva, che la serata sarebbe stata davvero stupenda se solo…
Aveva considerato così tanti scenari e varato così tante ipotesi che ora le sembrava assurdo che le cose non stessero andando affatto come aveva previsto.
Zach non sembrava affatto imbarazzato, né tantomeno interessato a lei, né la Sala Grande era esplosa d’improvviso spruzzando brandelli di carne umana su tutti i corridoi e le stanze antistanti (o meglio, non era ANCORA successo). No, Zach era… Semplicemente disinteressato.
I suoi occhi non si erano posati più dello stretto necessario sul suo vestito e sul suo viso, appena era apparsa in Sala, e l’unico commento che si era sentito di fare era stato un “Non male” mugugnato con un’alzata di spalle incredibilmente indifferente che l’aveva quasi offesa.
La cena era trascorsa tra qualche commento qua e là e risposte che non andavano oltre i semplici “Sì” e “No”, oltre ad occhiate furtive quanto un elefante in una vetreria verso un certo tavolo e una certa coppia. Daisy non aveva avuto certo bisogno di seguire la direzione dello sguardo di Zach per sapere che l’oggetto del suo interesse era Shaula nel suo abito rosso e il suo accompagnatore pomposamente vestito.
Ma la parte peggiore di tutta quella storia erano di certo i balli. Daisy aveva sempre congetturato che non ci fosse nulla di più imbarazzante di un ballo intimo come un valzer eseguito con qualcuno per cui non si provasse assolutamente nulla se non un grande affetto e una reciproca comprensione. Certo, c’era gente al mondo capacissima di cimentarsi in un valzer per un pugno di dollari o semplicemente per passione, ma di certo non lei e Zach. L’imbarazzo tra loro era così palpabile e i loro corpi così tesi che, quando il ragazzo le aveva appoggiato una mano sulla vita, la Grifondoro aveva dovuto trattenersi a fatica per non scoppiare a ridere. Non esisteva affinità fisica, tra loro, e nessuno dei due desiderava davvero essere toccato dall’altro o darsi da fare come qualche coppia nella Sala stava platealmente facendo senza nessuna considerazione per i rimproveri della McGrannit. Tutto ciò che sarebbe dovuto essere romantico per qualcuno era semplicemente imbarazzante per loro, e Daisy era certa che, nonostante tutta la buona fede di Zach e la sua speranza, sarebbe stato sempre così.
Il secondo ballo si stava rivelando, se possibile, peggio del primo: oltre all’imbarazzo delle mani ora subentrava anche quello, decisamente più degradante, degli occhi. Era una situazione davvero frustrante ritrovarsi quasi a ridere in faccia al proprio migliore amico dopo non più di dieci secondi passati a fissarlo dritto nelle pupille, sebbene Daisy si rendesse conto che, per qualsiasi altra persona esterna a quella storia, fosse piuttosto divertente osservarli mentre tentavano imbranatamente di ballare, le braccia tese quanto più possibile per evitare un contatto diretto e le facce contratte nel tentativo di trattenere risate fragorose.
Come se ciò non la rendesse già abbastanza ridicola, il fatto che Zach continuasse ad alzare gli occhi dal suo viso per fissarli in direzione di una certa mora di rosso vestito non la aiutava affatto a sentirsi più sicura in quella pagliacciata male assortita.
Prima dell’inizio di quell’anno, Daisy Kapner credeva che non ci fosse nulla di più imbarazzante a un Ballo di sporcarsi il vestito con del punch. Oh, quanto si era sbagliata…
“Ok, ora basta” si decise finalmente a sussurrare, con una velocità tale che la prima reazione di Zach fu quella di aggrottare le sopracciglia e chiederle, confuso:
“Scusa?”.
Daisy alzò gli occhi su di lui e si decise, finalmente, a fissarli nei suoi.
Prima dell’inizio di quell’anno, Daisy Kapner non avrebbe mai creduto di poter raccogliere il coraggio a quattro mani e comportarsi da Grifondoro.
La ragazza richiuse gli occhi prendendo un sospiro profondo, tentando di mantenersi calma e distaccata mentre metteva in ordine le parole da utilizzare. Non doveva assolutamente lasciarsi trascinare dall’emotività, ora, o non sarebbe mai riuscita ad essere abbastanza schietta da mostrare a Zach la verità nuda e cruda.
“Ora… Basta” sillabò, tentando di non farsi impietosire dalla sua espressione sconcertata.
“Senti, Zach” continuò, non lasciandogli tempo di ribattere. Il discorso era bello e pronto nella sua mente e qualsiasi intromissione l’avrebbe costretta a riprendere il filo e ricominciare da capo.
“Tu sai benissimo, e lo sai da molto, che a me tu non piaci in quel senso”. Era la prima volta che Daisy glielo diceva chiaro e tondo. Eppure, con sommo stupore, Zach non percepì nulla di ciò che fino a quel momento aveva creduto che avrebbe provato. Nessun dolore straziante, nessuna delusione cocente, nessun senso di impotenza, assolutamente nessun istinto suicida. No, nulla di tutto ciò che i libri gli avevano insegnato. Nessuno di quei sintomi tanto aspettati, nessuno di quelle reazioni che aveva sempre creduto di dover provare, con pazienza e rassegnazione stoica. Solo una sorta di stupore amaro, un’ironica alzata di bocca del suo animo, un sardonico “Tutto questo per cosa?” e una sorta di fiera soddisfazione per la risolutezza della sua amica.
“Ma quello che devi capire, Zach, è che…”. Le mani di Daisy si sciolsero dalla sua presa. “Neppure io… Ti piaccio in quel senso”.
Ora la ragazza parlava con una calma e una sicurezza straordinari, scandendo ogni parola, ogni sillaba come se stesse parlando ad un bambino piccolo a cui tutto va spiegato. Zach non ricordava di aver mai visto, nei suoi occhi, una tale decisione.
“Magari…” continuò alzando le spalle. “Ti sei illuso che io ti piacessi ancora perché volevi provare un’ulteriore volta, magari… Magari l’hai fatto perché sei convinto che io ti piaccia da così tanto tempo che ti sembrava naturale invitarmi, ma la verità, Zach…”. E dicendo ciò il suo viso si avvicinò un po’ al suo.
Curioso.
Non provava nulla.
Quella sua vicinanza non gli faceva provare assolutamente nulla.
“La verità è che tu devi andare avanti”. E con queste parole la ragazza strinse un po’ di più la presa sulle sue spalle.
“Devi andare avanti e trovare qualcuno che possa darti ciò che io non posso darti, ciò che io NON POTRO’ MAI darti, lo capisci?”. La ragazza si impose di mantenersi ferma e risoluta. Non poteva perdersi nell’emotività proprio in quel punto saliente del suo discorso.
“Perché, te ne sarai reso conto anche tu, noi non funzioniamo in quel senso”. Daisy scosse appena la testa. “No, e tu hai bisogno di trovare qualcuno con cui invece… Tu funzioni in quel senso, perché sei un ragazzo meraviglioso, Zach, e te lo dico davvero con il cuore, ma…”. La ragazza dovette mordersi il labbro prima di riuscire a terminare, il tono di voce lievemente traballante:
“Io… Non sono innamorata di te”.
Ecco. Le parole proibite erano state pronunciate. Il dado era tratto e ora più niente e nessuno avrebbe potuto insinuare che ci fosse effettivamente qualcosa tra lei e Zach. Daisy aveva cercato con tutta sé stessa di evitare che la verità gli fosse spiattellata in maniera così brutale in faccia, ma considerando la loro situazione ora la cosa migliore per lui era vedere esattamente quale fosse lo stato delle cose, e non una versione edulcorata della realtà.
Zach la fissò per alcuni, lunghi istanti in silenzio assoluto. Non c’era dolore nei suoi occhi. Né tanto meno stupore.
No, quella non era decisamente la reazione che stava aspettando. E ciò la sollevò incredibilmente.
“E forse tu non te ne rendi conto…” continuò, facendosi via via più sicura mentre il suo discorso procedeva. “Ma c’è già una ragazza che a te piace e a cui tu piaci, e che è prontissima a costruire con te ciò che vorresti costruire con me!”. Il suo tono di voce si accese di ulteriore sicurezza.
“E… E non è troppo tardi, se tu la vuoi ancora, Zach, non lo è davvero!”. A quelle parole, gli occhi del ragazzo si illuminarono e si fissarono nei suoi colmi di… Speranza? Poteva davvero essere speranza? Allora non aveva frainteso ciò che c’era tra lui e la Serpeverde!
“Ma… Prima che questa pagliacciata continui” e con un gesto eloquente della mano indicò la loro coppia. “TU devi andare a parlare con lei prima che sia troppo tardi,” (dicendo ciò puntò il dito contro il suo petto) “IO devo staccarmi da te prima che scoppi a ridere cercando di guardarti!”. E con uno sbuffo esasperato terminò il discorso incrociando le braccia al petto e lanciando un’occhiata esplicativa a Zach.
Prima dell’inizio di quell’anno, Daisy Kapner non avrebbe mai creduto di potersi sentirsi più sollevata di quella volta in cui il suo criceto Hammie era stato rianimato all’ultimo momento da una dottoressa piuttosto paziente e accondiscente (anche se, nonostante quel salvataggio in extremis, la povera bestiolina era morta qualche giorno dopo). Ora sapeva cosa volesse dire l’espressione “togliersi un peso dallo stomaco”.
 
“E solo dopo mi sono reso conto che il Boccino era…”
Harmony alzò gli occhi al cielo e sospirò spazientita.
“Finito nelle tribune dei Grifondoro, lo so, lo so” terminò, lanciando un’occhiata tra il divertito e il corrucciato al suo cavaliere.
Draco alzò le spalle e commentò con nonchalance:
“Non credevo che tu conoscessi questa storia”.
La ragazza alzò un sopracciglio con fare sardonico.
“Dopo che me l’hai ripetuta per ben cinque volte E dopo aver assistito io stesso a quella partita?”.
Il Serpeverde sghignazzò divertito.
“Ok, ok, scusa…”. Una sua mano scivolò in maniera decisamente poco casuale sul suo fianco, accarezzandolo delicatamente.
Il cuore di Harmony perse un battito nell’istante stesso in cui, guardandola coi suo ammalianti occhi glaciali, Draco passò a sfiorarle con un sorriso calmo e rilassato l’altro fianco, stringendo entrambe le mani poco sopra il suo bacino. Harmony non ricordava l’ultima volta in cui il suo viso era stato tanto vicino a quello del ragazzo, né riusciva a richiamare alla mente l’ultima volta in cui si era sentita tanto felice e tanto soddisfatta. Il tocco di Draco era scintilla che accendeva ogni suo senso e ampliava a dismisura ogni sensazione, ogni emozione, i suoi occhi erano fiamma che faceva ardere il suo petto e le sue membra, il sorriso che le stava rivolgendo era la giusta ricompensa per tanti anni di attesa e per tanta sofferenza vissuta.
In fondo, si disse appoggiando il capo sulla spalla del ragazzo, era valsa la pena aspettare tanto a lungo. Era valsa la pena farsi deridere per tanti anni. Era valsa la pena essere sempre la spalla di Draco, era valsa la pena assentire costantemente a idee considerate sbagliate, era valsa perfino la pena deridere Mezzosangue, se il suo premio era il sorriso di Draco e le sue braccia strette attorno alla propria vita sottile.
Ma la verità era che, di tanti anni passati ad essere la compagna passiva, la sostenitrice senza opinione, semplicemente la cheerleader di ogni situazione, Harmony si era persa.
Aderendo automaticamente alle idee di Draco aveva perso di vista le proprie opinioni, seguendolo in qualsiasi strada egli avesse preso aveva smarrito la propria via, diventando il suo pupazzetto si era trasformata in un involucro senza personalità pronto a modellarsi e rendersi diverso solo per compiacere un testardo Serpeverde. Era servito davvero a qualcosa? Era servito a qualcosa, diventare un’ochetta starnazzante agli occhi di Draco e rendersi ridicola davanti agli altri e, soprattutto, davanti a sé stessa? Era servito a qualcosa sperare che Draco preferisse una scialba ragazzina pronta a gettarsi ai suoi piedi piuttosto che una donna sicura di sé e dei propri desideri?
No, non era stato per quello che Draco l’aveva scelta, certo.
Draco l’aveva scelta perché si era riscossa e aveva dato una svolta alla propria vita.
Draco l’aveva scelta perché aveva avuto la forza di battersi con la Harrowl e la prontezza per uscirne vincitrice.
Draco l’aveva scelta perché aveva avuto il coraggio di opporsi a lui, molte, forse troppe volte, e perché non esisteva questione su cui avessero la stessa opinione.
Draco l’aveva scelta perché, per la prima volta dopo tanti anni, Harmony Lewis si era ritrovata ed era pronta ad iniziare una nuova vita.
La ragazza si strinse un po’ di più al petto del ragazzo, inspirando nella sua giacca fresca di lavanderia.
Pronta ad iniziare una nuova vita con lui.
Le mani di Draco si spostarono ad accarezzarle la schiena. Harmony poteva percepire i suoi respiri lenti e profondi infrangersi sul suo collo e la pelle d’oca ricoprire ogni centimetro del proprio corpo.
“Forse avrei dovuto immaginarlo” commentò il ragazzo spingendo il viso spigoloso accanto al suo orecchio. “In fondo… Sei stata a tutte le mie partite di Quidditch”.
La ragazza ridacchiò sulla sua camicia, lasciando che le mani scivolassero dolcemente sul petto del ragazzo.
“Forse avresti dovuto, sì…” ribatté, nello stesso tono sardonico di prima.
Draco alzò le spalle con espressione fintamente offesa.
“Ma…. Ciò non vuol dire che tu non ti debba mostrare interessata, mia cara”.
Harmony alzò gli occhi su di lui con espressione ammiccante.
“Dovrei… Mostrarmi interessata a qualcosa che già conosco solo per farti piacere?” domandò, picchiettando con le dita sulla sua camicia bianca.
Il ragazzo disse, come se la cosa fosse incredibilmente ovvia e lei una sciocca a non rendersene conto:
“Certo che sì!”
La ragazza si concesse una risata divertita: l’affermazione era stata così decisa e sicura che un paio di ragazzi si erano girati a guardarli. Tra i vari anche una Pansy Parkinson dall’espressione agguerrita e pronta all’attacco che la stava guardando ferocemente con la sua faccia da carlino. Harmony le rivolse un sorriso affettato e tanto pieno di soddisfazione che la ragazza distolse immediatamente lo sguardo con uno sbuffo teatralmente irritato. Doveva ammetterlo, era divertente prendersi lo sfizio di essere crudele, ogni tanto.
Con un sospiro la ragazza tornò al Serpeverde, stuzzicando con le unghie la stoffa leggera della camicia.
“Beh, allora anche tu dovresti mostrarti interessato a quello di cui parlo, ti pare?” disse con aria ovvia la ragazza, alzando un sopracciglio in attesa della prevedibile risposta negativa.
Draco la guardò come se avesse appena pronunciato la barzelletta più divertente che avesse mai sentito.
“Mi stai prendendo in giro?” chiese divertito.
Ovviamente. 
Harmony contrasse la bocca in una mezza smorfia.
“Nnnno, in verità sono piuttosto seria…” proseguì, concentrando lo sguardo sulla camicia per tirare via un filo bianco e nascondere il sorriso malevolo che le era nato sul viso.
Draco sembrò sinceramente confuso a quella sua affermazione.
“Dovrei… Mostrarmi interessato a stupide formule magiche e a libri di cui riesco a pronunciare a malapena il nome dell’autore?” domandò cautamente, tentando di ricatturare la sua attenzione.
“Sì” commentò laconica Harmony, schioccando la lingua. Rialzò lo sguardo per rivolgergli un sorriso falsamente amabile e studiato, battendogli con aria soddisfatta la mano sulla camicia.
“E da oggi in poi niente più insulti ai Mezzosangue in mia presenza” continuò con aria compiaciuta.
Draco aveva un’espressione così confusa da risultare quasi ridicolo, considerando l’usuale sicurezza e freddezza calcolatrice del suo sguardo.
“E niente più commenti sul professor Filius” ci tenne a precisare. “E niente battute sessualmente esplicite sulle… Curve di questa o quella ragazza” continuò zittendolo nell’istante in cui aprì bocca.
“Ma…” tentò lui debolmente, alzando un dito come a chiedere il permesso di parlare.
“E soprattutto…” terminò lei, poggiando la mano sulla sua bocca con l’espressione di una maestra che intima il silenzio a un bambino. “Soprattutto niente scherzi a Tassorosso o Grifondoro se ci sono io”.
Draco sbatté le palpebre un paio di volte con l’aria di qualcuno reduce dall’essere stato appena schiaffeggiato e non ben sicuro del motivo per cui ciò sia accaduto.
Harmony gli rivolse il sorriso più dolce e zuccherino che riuscisse ad assumere.
“Intesi?” chiese innocentemente, alzandosi di poco sulle punte per poter raggiungere il suo viso. Ora le loro labbra erano tanto vicine che la ragazza avrebbe dovuto allungarsi solo di qualche centimetro per poter sfiorare con le proprie quelle del biondo Serpeverde. E probabilmente l’avrebbe anche fatto, se il poco buonsenso che le era rimasto non le avesse imposto di aspettare almeno la risposta di lui prima di gettarsi tra le sue braccia. Non era davvero il caso di mostrarsi così folle di lui da ignorare le proprie priorità e i propri principi come aveva già fatto una volta.
Quella Harmony era morta e sepolta.
E Draco doveva saperlo.
Dopo qualche istante di silenzio il ragazzo rispose, recuperando il suo cipiglio arcigno:
“Certo che no!”
Harmony sbuffò.
“Non ho assolutamente nessun obbligo verso di te, cara!” ribatté lui, incrociando le braccia al petto e alzando il mento con espressione fiera.
La ragazza alzò le mani e commentò, con tono leggero e appena malizioso:
“Bene, tu non hai nessun obbligo verso di me, io non ho nessun obbligo verso di te”. Di nuovo quel sorriso amabile. Draco non l’avrebbe mai ammesso ma iniziava a trovarlo straordinariamente eccitante. Probabilmente quello era lo scopo di Harmony.
“Mi sembra un buon patto” terminò lei, passando entrambe le mani attorno al suo collo.
Draco si lasciò scappare un sorriso compiaciuto.
“Sì…”. Le sue mani ripresero a fare su e giù sui suoi fianchi. “Decisamente un buon patto”.
 
“Tutto ok?”
Lesath si riscosse scuotendo la testa. A volte perdersi dietro a qualche pensiero troppo complesso non era decisamente l’attività migliore da svolgere. Soprattutto se la si svolgeva durante un Ballo mentre si stava stringendo tra le proprie braccia uno scricciolo delicato e si stava cercando di mettere un piede dietro all’altro in maniera corretta.
“Scusa?”.
Susan accennò un piccolo sorriso conciliante. Lesath si stupiva ogni volta di quanto lei potesse essere paziente con lui, e di tutte le attenzioni che gli riservava nonostante per tanti anni lei fosse stata per lui solamente l’ombra sbiadita di un passato felice.
“Ti stavo chiedendo se era tutto ok. Avevi un’espressione, sul viso…” spiegò Susan, addolcendo ancora di più il suo sorriso. Lesath non ricordava di aver mai incontrato una persona tanto dolce e gentile nei suoi confronti quanto Susan. Certo, molto probabilmente l’essere stato ignorato per metà della propria vita per lasciar spazio alla propria sorellina più dolce e più carina e l’essere stato odiato per l’altra metà per una colpa che di certo non gli apparteneva (ma di cui Lesath sentiva ogni giorno il peso straziante) non lo rendeva assolutamente uno dei massimi esperti in gentilezze e cortesie varie, ma proprio perché nella sua vita vi era una tale carenza di affetto e di comprensione ogni piccolo sorriso, ogni parola dolce, ogni sguardo incoraggiante che Susan gli rivolgeva era qualcosa di straordinariamente raro e prezioso da custodire gelosamente.
Il ragazzo tentò di sfoggiare il suo sorriso migliore. L’unico aspetto negativo di tutte le attenzioni di Susan era che, tanto disabituato com’era a non ricevere o a dare attenzioni, essere gentile con lei era incredibilmente complicato. Lei sopportava tutto, certo, con il suo continuo sorriso angelico e la sua pazienza inesauribile e inspiegabile, perdonandolo con un cenno del capo ogni volta che, senza volerlo, compiva una gaffe per altri imperdonabile o si lasciava scappare un commento decisamente poco adatto alla situazione. Susan era sempre stata così, anche quando lui era ancora un bambino puro e fiducioso, quando ancora il male non si era infiltrato silenziosamente nella sua vita, quando per i suoi genitori era ancora il “Piccolo Lesath”. Ma il fatto che lei fosse così perfetta strideva tanto fortemente con la sua imperfezione che il ragazzo non riusciva davvero a sentirsi a suo agio con la Tassorosso. Apprezzava la sua gentilezza, e non avrebbe potuto esserle più grato per tutta la disponibilità che mostrava nei suoi confronti, ma la verità era che Susan era un essere etereo troppo candido, e lui un diavolo dannato che non aveva nessuna intenzione di sporcarla.
“Sì, stavo solo…” Il ragazzo fece un cenno leggero con la mano. “Pensando, sai com’è…” No, non sapeva com’era. Non sapeva come fosse “pensare” nella sua mente, non sapeva COSA fosse “pensare” nella sua mente. E Susan non aveva idea di quanto la invidiasse per questo.
La ragazza annuì con un movimento impercettibile del capo.
“Certo…” commentò, solamente, lo stesso tono rassegnato e dolce che assumeva ogni qual volta si faceva anche solo un minimo accenno al suo passato.
Ecco, un’altra cosa che davvero Lesath non poteva sopportare: la pietà della gente. I sorrisi candidi e pieni di compassione, gli occhi lucidi e ricchi di partecipazione, e quelle parole tanto odiate e troppo a lungo sopportate: “Mi dispiace”.
Come se con solo quelle due, magiche parole tutti i suoi problemi sarebbero spariti.
Come se la compassione delle persone gli avrebbe restituito Linda, l’affetto di suo padre, e la sua innocenza perduta.
Come se tutto avesse potuto essere risolto tanto semplicemente.
Un tempo Lesath aveva voluto credere che tutto sarebbe tornato naturalmente al proprio posto, che sarebbe bastato volerlo per riportare tutto alla normalità. Ma aveva appreso sulla sua pelle che, purtroppo, sognare non era altro che una mera fuga dalla crudele realtà, e che nulla sarebbe mai stato più come era una volta.
Il ragazzo tossicchiò leggermente. Ballare con Susan non era tanto male, in fondo. Anzi, era decisamente fantastico: la Corvonero era una ballerina aggraziata e talentuosa, circondata di una sorta di aurea eterea che la faceva sembrare, più che un essere umano, una giovane ninfa fuggita dal suo lago, i piedini che dolcemente percorrevano il liscio pavimento e l’abito che si muoveva insieme a lei in un volteggiare di stoffa e di profumo. Il fatto che lei fosse tanto grandiosa, purtroppo, lo faceva sembrare al confronto un goffo villano privo di qualsivoglia ritmo, sebbene di certo se la cavasse meglio di qualche altro ragazzo in Sala, ma Susan continuava a ripetergli, placidamente, che stava andando benissimo così, e Lesath non aveva quindi bisogno di lamentarsi: l’unica persona a cui doveva importare come ballava era la sua accompagnatrice, di certo non qualche pettegola pronta a commentare sulle sue gaffe con delle amiche sghignazzanti.
Susan abbassò appena lo sguardo.
“Allora…” tentò lui goffamente. Si rendeva conto che era il caso che lui iniziasse un qualsivoglia discorso, ma al momento non gli veniva in mente nulla di vagamente piacevole.
“Ehm, hai visto che prelibatezze che c’erano, a cena?” riuscì finalmente a commentare, cercando di assumere il tono più brillante che la sua gola secca poteva produrre.
“Mh, gli elfi domestici si sono davvero superati, stasera!”. Non sapeva perché ma alzò un po’ la voce nel dire ciò, procurandosi un’occhiataccia della Granger che, a quanto pareva, non era tanto presa da Krum da dimenticarsi della sua battaglia persa contro la “schiavitù” delle “povere creaturine”.
“Quel pasticcio, soprattutto! Davvero da leccarsi i baffi!”. Nel dirlo si passò anche una mano sulla pancia come a sottolineare il concetto.
“E poi quelle crocchette, le hai provate? Erano davvero sublimi!”. Stava decisamente parlando a vanvera, visto che Susan gli era stata accanto durante tutta la serata e no, non aveva preso le crocchette che, a dirla tutta, erano anche piuttosto scialbe e insipide.
“E-e hai provato il cavolo bollito? Quello era… Delizioso!”. Susan alzò lentamente lo sguardo su di lui. A Lesath non servì guardarla negli occhi per rendersi conto che il suo bel discorso stava diventando molto, molto ridicolo.
“E poi, la torta? Oh, davvero fantastica”. La Tassorosso, davanti a lui, si inumidì appena un labbro.
“E hai provato quello Sciroppo di ciliegie? Io non lo avevo mai assaggiato, ed era fantastico!”. Una verità su mille bugie. Stava davvero facendo progressi.
“E poi, vogliamo parlare dell’arrosto? Era decisamente…”. Lesath non ebbe neppure il tempo di trovare un aggettivo di senso positivo che non avesse già osato: nello stesso istante in cui la sua mente stava correndo al sapore dell’arrosto lasciato da parte dopo un paio di morsi, Susan gli aveva avvolto le braccia attorno al collo e l’aveva baciato.
Ma non un bacio sulla guancia, o uno di quei baci tra amici che sfioravano appena quella zona proibita frutto delle più mirabili fantasie.
No, no no no, quello che ora Susan gli stava dando era un bacio…
Vero.
In meno di due secondi, senza avere neppure il tempo di stupirsi, Lesath si ritrovò il corpo magro della Tassorosso tra le braccia, le sue mani strette a stuzzicare con un paio di dita la base del collo e la sua bocca contro la propria, delicata, dolce, pura come solo Susan poteva esserlo.
All’inizio Lesath non comprese nulla. Cosa stesse accadendo, perché stesse accadendo, a CHI stesse accadendo. Ogni sensazione era tanto lontana da lui e ogni immagine così sfocata che gli sembrava davvero impossibile che quello fosse il SUO primo bacio (sì, il primo bacio, proprio il primo bacio, il leggendario primo bacio!). Era come trovarsi nello spazio, in piena assenza di gravità: non c’era nulla, nulla di abbastanza reale da stringere, nulla di abbastanza vero da provare, nulla di abbastanza giusto da fare, nulla di abbastanza intelligente da dire. Nulla a cui potesse aggrapparsi se non il corpo fragile di Susan, nessuna sensazione a cui potesse affidarsi se non l’attutimento più totale, nessun’azione più giusta se non rispondere a quel bacio folle e improvviso, abbandonarsi a quella bocca limpida e candida, lasciare che il nero delle sue labbra lasciasse un punto indelebile su quella tela vuota.
Lesath Heryun stava andando alla deriva nello spazio… Con le labbra di Susan Bones poggiate contro le sue.
Quando la Tassorosso si staccò, a Lesath sembrò di essere stato in apnea fino a quel momento: i colori, che fino ad un istante prima erano solo sbiadite macchie cupe, ritornarono nel suo campo visivo così impetuosamente che per un attimo al ragazzo sembrò di essere abbagliato da tanta nitidezza; ogni suono, attutito come se le sue orecchie fossero state fino a quel momento ripiene di garza, tornò a farsi sentire prepotentemente, e per un attimo il ragazzo ebbe il timore di essersi rotto un timpano. E solo in quell’istante, Lesath si rese conto davvero, con stupore allibito, di cosa fosse appena successo
La ragazza si allontanò dal suo viso sbattendo appena le ciglia e dischiudendo le labbra. Lesath non avrebbe mai saputo perché, ma quello sarebbe rimasto per sempre il ricordo più vivido del suo primo, vero bacio.
Quando il viso di Susan si distanziò abbastanza dal suo e ogni singolo momento di quell’improvviso contatto si fece finalmente nitido nella sua mente, Lesath ebbe l’impressione che sarebbe crollato a terra da un momento all’altro per lo shock.
Aveva appena baciato Susan Bones.
O meglio, Susan Bones l’aveva appena baciato.
Aveva appena baciato una ragazza.
Era stato appena baciato da una ragazza.
Probabilmente avrebbe dovuto sentirsi irritato per aver ricevuto qualcosa di tanto importante, probabilmente avrebbe dovuto fare appello al suo ruolo da uomo che imponeva a lui di compiere il primo passo, probabilmente avrebbe dovuto sentirsi offeso nella sua virilità di uomo appena nato…
Ma l’unica cosa a cui Lesath Heryun riusciva a pensare, in quel momento, l’unico pensiero limpido nella gomitolo intricato che erano i suoi pensieri era che Susan Bones l’aveva appena baciato.
E che lui non sapeva davvero cosa provare al riguardo.
Susan prese un sospiro profondo e unì le mani, tormentandosi con le dita il palmo della destra. Se non fosse stato così confuso il Corvonero avrebbe potuto trovarla anche piuttosto tenera, con quel suo imbarazzo casto, quel dolce pudore appena infranto, il candore di una veste appena contaminato e l’innocenza di una mente bambina.
“Scusami…” riuscì alla fine a sussurrare, scuotendo la testa con aria dispiaciuta. “Non… Avrei dovuto, mi rendo conto…”.
Lesath si accorse solo in quell’istante di aver avuto la bocca spalancata per tutto il tempo. Non  aveva fatto di certo la figura dell’uomo, con quella faccia da pesce lesso e quell’espressione sconvolta di chi è stato appena battuto sul proprio campo e non se ne capacita.
“È che ho… Ho pensato per un istante che avremmo potuto…”. La ragazza si mordicchiò un labbro sussurrando appena quelle parole come se il loro suono avesse un che di proibito e di eretico. Era incredibile quanto Susan potesse sembrare così dolce e pura anche in una circostanza simile.
Così bella, fragile e limpida.
Così piena di speranza, così innocente, così bambina, in fondo.
Così pulita.
Lesath riuscì a riscuotersi solo dopo qualche istante passato a fissarla senza riuscire a spiccicare una parola.
Così sbagliato.
“Non… Non devi preoccuparti per questo”. Il ragazzo si sorprese del fatto che la sua voce fosse risultata quasi un rantolo agonizzante, e di quanto poco ferme fossero state quelle esigue parole.
Quando riprese a parlare si premurò di schiarirsi la gola con un colpo di tosse. Riusciva ancora a sentire il calore delle labbra di Susan sulle sue…
“Ma… Ma il fatto è che…” gesticolò lui, annaspando irrimediabilmente alla ricerca disperata di parole. Non era mai stato bravo a capire ciò che gli altri volessero esprimere. Ma soprattutto non era mai stato bravo a capire ciò che lui voleva esprimere.
Susan prese un altro respiro profondo. Sembrava quasi che da ogni nuovo sospiro il suo corpo traesse la forza di mantenersi saldo e ben ritto, come se fosse stata l’aria a sostenere quello scricciolo magro e fragile come porcellana.
“Il fatto è che…” tentò per la seconda volta lui.
“Il fatto è che non funziona, vero?” terminò Susan, con un tono tanto calmo e ponderato eppure tanto sicuro che Lesath non poté fare a meno di chiedersi come un corpo tanto minuto potesse contenere un animo tanto grande.
Il Corvonero la osservò così a lungo e così intensamente che, per un attimo solo, gli occhi di Susan brillarono di un’ultima, vana speranza.
Susan Bones sarebbe sempre stata la ragazza più straordinaria che Lesath avrebbe mai conosciuto. Sarebbe sempre stata la mano tesa che si sporgeva dal cielo per risollevarlo dal suo cupo Inferno, l’angelo che gli avrebbe sorriso attraverso le nuvole, le ali che avrebbero provato ad elevarlo ad un mondo migliore.
Ma lei sarebbe rimasta per sempre un angelo, un magnificente e etereo angelo, e lui non aveva la forza né la volontà di tarparle le ali per trascinarla a strisciare con sé nelle tenebre.
Lesath scosse appena la testa e sentì lo stomaco stringersi in una morsa dolorosa.
“No”, sussurrò con quel filo di voce che il bacio gli aveva lasciato.
 
Non avrebbe mai pensato di poter dire una cosa simile proprio ad un Ballo.
Ma Niki si stava davvero annoiando troppo.
Dopo la prima delusione relativa alla scoperta che il suo ragazzo avesse preferito a lei una bionda sciacquetta da quattro soldi che vantava, tra l’altro, una lista di ragazzi lunga quanto il curriculum della McGrannit e il soprannome giustamente attribuitole di “Bocca larga” (Niki non aveva idea di chi fosse stata l’idea, ma se avesse incontrato la persona che aveva chiamato per la prima volta così la Brown gli avrebbe stretto volentieri la mano) e la rabbia successiva all’elaborazione dell’accaduto, Niki era divenuta più risoluta che mai in quello che era stato il suo iniziale proposito: godersi quella serata il più possibile, ballare in santa pace e passare dei bei momenti.
Ma i suoi progetti si erano dimostrati più ardui da realizzare di quanto avrebbe mai potuto credere: infatti, non solo la ragazza si era resa conto, con sommo stupore, che era decisamente complicato ballare un valzer senza l’accompagnamento di un partner (aveva mollato Canon dopo il primo ballo e non se ne pentiva affatto), ma tra l’altro si ritrovava davanti, ogni minuto, ogni istante, l’immagine dell’ochetta e di Theo appiccicati come una coppietta di sposini in luna di miele pronti a esibirsi in risatine ridicole e giochetti romantici disgustosi. A Niki era letteralmente salito un conato di vomito lungo la gola quando, a cena, la Brown si era sporta con le labbra verso la guancia di Theo e aveva provato, con un “Serpeverduccio mio”, ad imboccarlo a forza.
La loro relazione era durata più di un anno eppure Niki non ricordava di essersi mai esibita in simili smancerie romantiche con Theo, né che Theo si fosse dimostrato particolarmente zuccheroso con lei. E non aveva mai pensato, fino a quel momento, che Theodore Nott, proprio il grandioso e fiero Theodore Nott, potesse sciogliersi per l’attenzione appiccicosa e le coccole esagerate di una insipida Grifonforo. Semplicemente, non era il tipo. Non lo era mai stato e non lo sarebbe mai stato.
No, Theo non era un melenso, debole ragazzino che si faceva in quattro per un minimo di attenzione e qualche smanceria da fidanzatini. Lui era il forte e fiero Serpeverde che aveva portato innumerevoli volte la sua squadra alla vittoria, era il ragazzo sarcastico e con la battuta sempre pronta che l’aveva fatta ridere innumerevoli volte e fatta incavolare ancora di più, era il ragazzo sicuro e determinato che l’aveva stretta, un pomeriggio d’estate, tra le sue braccia… E l’aveva baciata davanti all’intera scuola…
Niki scosse la testa con forza. Ecco, lo faceva di nuovo. Si perdeva ancora in quegli stupidi ricordi.
Doveva decisamente darci un taglio, se ne rendeva benissimo conto da sola: la loro storia era morta e sepolta, chiusa e sigillata quanto e più una cassaforte contenente preziosi di grande valore, ormai naufragata e affondata, come il Titanic.
Theo avrebbe potuto anche rendersi conto di essere stato un idiota ad andare dietro ad un paio di curve e due occhioni ammiccanti di cerbiatta, ma nulla le avrebbe impedito di alzare fieramente la testa e sputargli in faccia il suo disprezzo: ormai ciò che era stato fatto era stato fatto, e neppure tutti i mazzi di fiori del mondo l’avrebbero convinta a tornare con quel verme. Non che ora sembrasse troppo interessato a farlo, lui e Mrs Inghilterra sembravano andare alla grande, per il momento. Ma nonostante la sua fiera decisione di non riammetterlo nella sua vita, nonostante la ferma convinzione di dovere (e potere) ricominciare, per Niki non era così semplice cancellare un anno intero di amore.
Certo, Theo era un bastardo che l’aveva mollata per la prima ragazza che aveva trovato con una taglia in più di reggiseno rispetto alla sua (cosa di cui tra l’altro la ragazza non era neppure certa, considerando che l’abito della Brown nascondeva il seno sotto strati e strati di tulle che la facevano sembrare un’enorme meringa), ma era anche il suo primissimo ragazzo. La prima persona con cui si era impegnata seriamente, la prima persona che aveva baciato, la prima persona con cui si era ritrovata a perdersi in progetti per il futuro e fantasticherie surreali. Sicuramente molto infantili, certo, ma anche incredibilmente dolci e sicure, piccole idee che si era ritrovata ad accarezzare nella notte e stupidi sospiri che si era lasciata sfuggire nel sonno.
Theo poteva anche averla lasciata. Ma il suo passaggio non era stato dimenticato e, Niki temeva, non sarebbe mai stato dimenticato.
E in fondo non era la cosa più normale del mondo, che lei fosse ancora legata in qualche modo al suo ex ragazzo, che lei non potesse fare a meno di ripercorrere con la mente ogni singolo bacio, ogni singola carezza, ogni singolo istante in cui il respiro di Theo era stato il suo? Cosa poteva esserci di sbagliato, in qualche innocente fantasia?
Ma doveva finire, Niki lo sapeva. Si sarebbe rialzata e si sarebbe rimessa in sella, più sicura e determinata che mai, piena di nuova grinta e determinazione. E si sarebbe lasciata alle spalle Theo e tutto quello che era stato Theo, sarebbe arrivata a sopportare la vista della Brown e di quello che una volta era stato il suo sogno insieme, sarebbe finalmente riuscita a salutarlo nei corridoi senza sentire il cuore stringersi in una morsa di dolore o senza sibilare il suo nome intridendolo di veleno.
Ci sarebbe riuscita, certo.
Ma al momento la cosa le sembrava davvero impossibile.
Per prima cosa, secondo qualche legge divina beffarda o per volere di qualche entità che la odiava, Niki si ritrovava costantemente davanti la coppietta felice in atteggiamenti che avrebbero ridimensionato perfino Romeo e Giulietta.
Seconda cosa, trovare un cavaliere si stava dimostrando molto più difficile di quanto credesse.
Non che Niki fosse quel genere di ragazza che aveva bisogno necessariamente di un ragazzo al proprio fianco per dare senso alla propria vita o per sentirsi completa o per altre sciocchezze simili.
Prima di Theo non le era mai importato nulla di relazioni e affini, ma ora il vederlo tanto impegnato era talmente frustrante e deprimente che Niki avrebbe fatto davvero qualsiasi cosa per trovare una persona con cui darci dentro.
Forse, inconsciamente, sperava che Theo lanciasse un’occhiata nella sua direzione, che si sarebbe sentito stringere il cuore alla presenza di quel rivale…
Che le sarebbe corsa incontro…
Che le avrebbe confessato in lacrime quanto si fosse sbagliato…
E che…
Niki si riscosse nuovamente. No, non andava bene, non andava bene per niente.
Tra lei e Theo non ci sarebbe stato più nulla, era già deciso. E lei non avrebbe dovuto più sperare in nessuna riconciliazione o qualche inverosimile progetto per farlo ingelosire.
Non era davvero nel suo stile.
Con un sospiro, la ragazza si rassettò il vestito appoggiando il proprio mento su una mano. Non si era mai resa conto di quanto fosse complicato piacere a un ragazzo. Era stata con Theo, questo era vero, e poteva vantarsi di avere molta più esperienza in quel campo di molte altre ragazze nella scuola, ma la verità era che non c’era mai stato bisogno di “conquistare” il Serpeverde. I sentimenti tra i due si erano evoluti così lentamente e così naturalmente, senza che Niki dovesse fare davvero nessuno sforzo, che non c’era mai stato bisogno di flirt o altri trucchi da femme fatale per attrarre il ragazzo nella sua direzione.
Ma in quel momento la ragazza stava davvero desiderando disperatamente di essere attraente e scaltra come la Brown, o misteriosa e esotica quanto le sorelle Patil, o qualsiasi cosa fosse diversa da quella… Cosa che era lei.
Niki Catenacci era sempre stata fiera di sé stessa e si era auto convinta ormai da tempo che non ci fosse assolutamente nulla da cambiare in lei e nella sua personalità. Ma, dopo la rottura con Theodore, non erano mancati i lunghi minuti passati davanti allo specchio a ricercare curve o a toccare labbra troppo sottili. La ragazza aveva iniziato seriamente a chiedersi se non ci fossero dei problemi in lei, in fondo. Se non fosse stata colpa sua se Theo l’aveva lasciata. Se non fosse stata abbastanza bella o abbastanza intrigante da farlo rimanere.
Quando la ragione tornava, Niki si dava della stupida per quei pensieri idioti e si imponeva di mantenere l’autocontrollo. Ma a volte quelli rispuntavano come fantasmi recidivi e restavano lì, a svolazzare allegramente, ai margini della sua mente.
La ragazza era tanto immersa nei pensieri e tanto persa nella sua noia che non si rese neppure conto della figura che, silenziosamente, si era affiancata a lei in breve tempo.
“Lei non balla, mademoiselle?”
Per poco Niki non sussultò per la sorpresa, portandosi automaticamente una mano all’altezza del cuore.
“Oh, pardon moi, mademoiselle, io non avevo assolutamont intensione di farle paura…”
Niki prese un sospiro profondo richiudendo gli occhi.
“No, stia tranquillo, non mi ha fatto paura”.
Con un ulteriore sospiro la ragazza riaprì gli occhi. Iniziava a percepire la figura seduta accanto a lei solo in quell’istante, e dal poco che la sua ombra le lasciava intuire Niki immaginò una persona molto più alta di lei. Un ragazzo, ovviamente. Nonostante l’inflessione con cui pronunciava le parole facesse sembrare la voce molto più melodiosa e limpida di quella dei suoi compagni, non c’era possibilità di sbagliarsi: era un ragazzo.
“Ma lei è quasi schissata via dalla sedia, mademoiselle”.
Niki alzò una mano come a fargli cenno di non preoccuparsene.
“Sono solo stata… Colta alla sprovvista, tutto qui” commentò, sperando che questo bastasse a far sparire il ragazzo e lasciarla sola con la sua noia.
La presenza accanto a lei non diede segno di volersi allontanare.
“Allora… è davvero qui tutta sola, mademoiselle?” chiese con tono più curioso. Niki percepì chiaramente la spalla di lui spingersi contro la sua, e l’insistenza dello sconosciuto le fece scappare un deciso e secco “Le interessa?”.
La presenza non parve affatto scoraggiata dal suo scatto.
“Potrebbe, mademoiselle”. Il ragazzo si prese una lunga pausa prima di continuare, in tono più gentile:
“Perché mi sembra davvero impossibile lasciare sola una tale bellesa, mademoiselle”.
Niki sbuffò incrociando le braccia al petto.
“Sì, beh” ribatté con tono irritato, “Peccato che il mio fidanzato non l’abbia pensata così…”.
Il ragazzo rimase zitto qualche istante, come se stesse ponderando qualche idea particolare o stesse pensando al miglior modo per esprimere a parole qualcosa.
“Mi permetta di dire, mademoiselle… Che il suo ragasso è davvero un gronde idiota”.
Niki si lasciò scappare un mezzo sorriso divertito (il primo da quando la serata era iniziata).
“Le permetto, le permetto…” commentò lei, sistemandosi un po’ meglio sulla propria sedia. Doveva ammettere che, in fondo, la conversazione non stava andando male come aveva pensato.
Il ragazzo, accanto a lei, si esibì in una risata cristallina e pura che ricordò a Niki lo scrosciare dell’acqua di un ruscello contro le rocce.
“Beh…” continuò lui. Dal rumore che Niki sentì immaginò che si fosse battuto le mani sui pantaloni o cose simili. “Visto che… Il suo fidansato è un idiota e noi concordiamo su questo…”.
La ragazza stavolta sentì chiaramente che il ragazzo si era avvicinato davvero, DAVVERO troppo con la bocca al suo orecchio. E non era sicura se la cosa le procurasse più piacere o più imbarazzo.
“… Mi conscerebbe di ballare con lei, mademoiselle?”
Niki aggrottò appena la sopracciglia.
“… Scusi?”, domandò, sinceramente stupita. Aveva desiderato tanto a lungo di poter arrivare a quel punto e aveva varato tante di quelle strategie per poter raggiungere quel traguardo che ora l’essere riuscita ad ottenere un ballo senza nessuno sforzo quasi la deludeva.
“Un ballo”. Il ragazzo alzò le spalle. “Io e lei. Credo che sci sarebbe qualche problema?”
Niki abbassò per qualche istante lo sguardo, incerta su cosa dire o fare.
L’aveva desiderato tanto, eppure ora che era riuscita nella sua impresa la conquista sembrava molto meno succosa di quanto si sarebbe aspettata.
“Senta…”. Con un sospiro rassegnato la Serpeverde alzò lo sguardo. “La ringrazio per la sua gentilezza, davvero, ma…”.
Non riuscì ad andare oltre.
Il ragazzo (se ‘ragazzo’ si poteva definire quella meraviglia) che aveva davanti era probabilmente l’essere umano più bello che avesse mai visto.
I suoi capelli erano di un biondo cenere tendente al platino, tenuti poco lunghi e sistemati con cura in un’acconciatura che faceva decisamente sfigurare la sua semplice cosa. I suoi occhi erano di un verde brillante, allegro, gioioso, ma allo stesso tempo straordinariamente regale e composto, emananti un’aurea di rispetto e di potenza tali che per un attimo Niki se ne sentì quasi intimorita.
L’intero suo aspetto, poi, rendeva più vivida quella dualità di timore reverenziale e calda accoglienza, di allegria e di serietà, di cordiale gentilezza e di fredda osservazione. Era alto, sì, ma non quanto aveva creduto. Le sue spalle non erano particolarmente larghe e il suo corpo era simile  a quello degli altri ragazzi di Beauxbatons: sinuoso, aggraziato e ben proporzionato. Ma c’era nei suoi occhi una sorta di rispettabilità e di fermezza in più, un qualcosa che mai e poi mai avrebbe spinto uno studente di Hogwarts a dargli dell’ “effeminato” (come erano stati perennemente soprannominati tutti gli studenti della scuola francese). Aveva un’aria forte, e fiera, e piena di sicurezza non spocchiosa. Le sue mani erano affusolate ed adatte a stringere quelle di altre ragazze, ma Niki aveva l’impressione che non avrebbero esitato, se necessario, a brandire anche un manico di scopa.
A Niki si seccò completamente la gola nell’istante in cui il ragazzo le sorrise.
E non riuscì a rispondere null’altro, quando lo sconosciuto le porse la mano fissandola con quei magnetici occhi verdi, se non un “… Certo” sussurrato in un tono di voce tanto alto da far invidia ai delfini.
 
Ok.
Era il suo momento.
La ragazza prese un sospiro profondo richiudendo gli occhi, cercando di infondersi quel coraggio per cui la sua Casa avrebbe dovuto brillare ma che in lei sembrava tanto carente, in quei momenti decisivi. Ma non poteva tirarsi indietro proprio in quel momento.
Beatrix si rendeva conto che quella era decisamente un’occasione più unica che rara: il professor Piton era, per la prima volta da quando la serata era iniziata, stato lasciato solo da tutti i suoi colleghi, che non avevano voluto abbandonarlo per un singolo istante (per la “gioia” dell’uomo).
I ragazzi erano quasi tutti troppo impegnati a “spassarsela” con i propri compagni per poter far caso proprio a lei e all’uomo, o almeno così sperava. Non che le importasse qualcosa, in fondo. Aveva cercato di nascondere per tanto, troppo tempo i suoi sentimenti, aveva tentato malamente di non farsi notare, di scivolare silenziosamente lungo le pareti per non farsi bersagliare, e a cosa l’avevano portata tutti quei sotterfugi? Ad essere derisa dai suoi compagni di Casa e non, ad essere guardata di sottecchi nei corridoi, ad essere considerata la “cocca del prof” e la sua “fidanzatina”. E ciò l’aveva avvicinata minimamente a Piton?
No, certo che no.
Perciò, a questo punto, tanto valeva fare la sua mossa. Sarebbe stata derisa a vita, le occhiatacce sarebbero continuate, i commenti non avrebbero smesso di risuonare nei corridoi.
Ma almeno lei avrebbe avuto un ballo dal professor Piton.
Beatrix strinse le mani.
“Coraggio” si ripeté nuovamente. Era in situazioni simili che si chiedeva perché mai il Cappello l’avesse smistata proprio nella casa di Godric.
I suoi piedi mossero qualche passo incerto.
La ragazza sentì le unghie affondare sempre più nella pelle e il cuore martellarle in petto a una velocità che quasi la spaventò.
Ecco, era così vicina…
Non si tornava indietro, era così vicina…
Era così vicino…
Beatrix si lasciò scappare un urletto sorpreso: qualcuno le aveva arpionato il braccio e ora la stava trascinando via ad velocità assurda, farfugliando parole incomprensibili di cui la Grifondoro non comprendeva né il senso né la natura. Era come ascoltare una vecchia canzone in una lingua sconosciuta e registrata su un vinile ormai deteriorato dal tempo: semplicemente impossibile.
La ragazza non ebbe neppure il tempo di domandarsi cosa stesse succedendo: prima che potesse far uscire dalla bocca spalancata un suono o una singola parola di senso compiuto, il ragazzo (perché di un ragazzo si trattava) che l’aveva afferrata così violentemente le si piazzò davanti. E Bea capì finalmente cosa lui le stesse dicendo:
“Tu concedere me ballo, ja?”
Beatrix dovette trattenersi molto a fatica per non gemere di disperazione o lasciarsi scappare un flebile “Perché?”.

Note d'autrice:
Ce l'ho fattaaaa! Con due giorni di ritardo ma ce l'ho fattaaaa! Non credevate che ci sarei riuscita, eh? In verità non ci credevo neppure io
Spero di essermi fatta perdonare, considerando che questo capitolo è lungo quasi 20 pagine. O forse mi odierete per questo, who knows. Spero vivamente di avervi soddisfatto e mi scuso per gli errori grammaticali\gli strafalcioni dovuti alla fretta. Vi prego, recensite, anche solo con un commentino ino ino. Vedere questa storia perdere recensori è abbastanza triste, visto l'impegno che ci sto mettendo. So che i tempi d'attesa sono eterni, me ne rendo conto, ma credo di meritarmi cinque minuti di tempo...
In ogni caso, non ho null'altro da dire se non: ecco a voi il "famoso" vestito di Filiana! Spero anche stavolta di aver descritto bene questo abito!


 




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