L'imbarazzante piacere del TuttoTondo

di MedOrMad
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AN: Previously on TuttoTondo... Alex e Med, insieme agli amici di quest'ultima, sono in montagna a casa di Bet. Tra tensioni varie, imbarazzi e gente che gioca a Twister nel cuore della notte, Med e Alex si confrontano un po' sui sentimenti che provano l'uno per l'altra... Poi, l'indomani mattina, una telefonata giunge con notizie allarmanti.

Dal capitolo precedente:
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“A casa…” e si solleva dal letto in cerca dei suoi vestiti.
“Perché?”
Ha un attimo di esitazione: quando mi guarda i suoi occhi sono cauti e la sua voce cristallina.
“Don’t freak out, okay?”
Che vuol dire che non devo dare di matto. Il che significa che è qualcosa per cui qualcuno può dare di matto. Ragion per cui comincio a dare di matto subito, ma interiormente .
“Qualcuno ha scardinato la porta del nostro palazzo. Non si sa in che appartamenti siano entrati. Dobbiamo tornare a casa.”
Sono disoccupata: e se qualcuno si è fregato i pochi oggetti di valore che ho? Sono così nervosa che, mentre mi infilo i vestiti e lascio un biglietto ai miei amici, non mi rendo conto dell’atteggiamento silenzioso e dell’ombra agitata che è colata sul viso di Alex. Non me ne accorgo finché non insiste per guidare e, una volta saliti in macchina, lui resta zitto e con lo sguardo fisso sulla strada. Le nocche bianche per quanto stringe il volante e le spalle rigide.
 

 
Capitolo 17


Importuni e in-opportunità



 


Trattare con la gente non è, in generale, una delle mie migliori qualità. Trattare con un americano molto cocciuto e molto isterico non sarà mai uno dei miei talenti, ne sono certa. In particolare quando sono circa due ore che Alex resta in silenzio e trasuda preoccupazione.

Arrivati a casa, abbiamo constatato che il nostro appartamento non era stato saccheggiato da nessun conquistatore del palazzo più decadente del quartiere. Ad eccezione del disordine che adornava la mia stanza (creato da me stessa medesima), il resto dell’abitazione era esattamente come mi ricordavo di averla lasciata.
Non di meno, fingo di ispezionare con attenzione ogni angolo, più per stare lontano da Alex, che per cercare effettivamente qualcosa: la tensione che ha sprigionato dal momento in cui siamo partiti da casa di Bet mi ha letteralmente stremato.

Quando Alex si adombra, tutto quello che lo circonda viene investito da una specie di onda negativa e tu, sconfitto dalla sua superiore carica energetica, non puoi fare altro che attendere in silenzio: attendere che lui si calmi, che ti dia un segnale. Interrompo la mia finta ispezione per spiare nel salotto, cercando di capire se l’aria si sia alleggerita almeno un po’: niente. Alex si muove in modo isterico per l'appartamento, come se fosse posseduto da un leprecauno, borbottando sottovoce e passandosi incessantemente le mani tra i capelli.

“Che succede?”
 
Niente. Non mi degna di una risposta, mentre resta immerso nella sua nevrosi per qualche secondo prima di voltarsi verso di me con gli occhi preoccupati.
“Ti manca qualcosa?”
“Non mi pare. Ho solo dato uno sguardo, ma mi sembra che sia tutto al suo posto.”
Rispondo avvicinandomi a passo lento come si fa con un animale pericoloso. Non sto esagerando: Alex ha un'espressione di puro panico.
“A te manca qualcosa?”
 
Mentre lo chiedo, non posso fare a meno di pensare che, se c'è qualcosa che non trova, deve essere piuttosto importante per fargli perdere la testa così.
Si guarda attorno in silenzio e non sembra riuscire a decidersi sul da farsi.
 
“Alex, che cosa non trovi?”
 
Al suono della mia voce un po' più insistente, serra la mandibola e anche il suo sguardo sembra irrigidirsi.
“Niente”, risponde d’istinto, ma un istante dopo si correggere: “Mi manca una valigia.”
“Una valigia?”
“Sì.”
 
Io non sono un falco e non ho mai rapinato qualcuno, ma se fossi un ladro, non mi prenderei certo una valigia quando in casa ci sono almeno due computer e una televisione da fregarsi.
 
“Perché qualcuno dovrebbe rubare una valigia vuota?”
 
Gli ci vogliono almeno quaranta secondi per rispondere, durante i quali nei suoi occhi scorrono velocemente dubbio, diffidenza, rammarico, paura e rabbia.
Rabbia che, sospetto, riverserà su di me. Io lo farei.
 
“Non era vuota.”
 
“Ah, capisco.”
 
No, veramente non capisco, ma non sono certa di come ottenere maggiori informazioni. Resta il fatto che in casa non manca niente al di fuori di questa fantomatica valigia.
Il che, per un minuto, mi porta a pensare che Alex sia un trafficante. Non so di cosa, ma ho visto una marea di polizieschi quando ero piccola.
 
“Sei sicuro che fosse in camera? Non è che l'hai messa in cantina?”
“Non la metterei mai in cantina.”
 
Certo, un trafficante tiene la merce sott'occhio.
 
“Che aspetto ha questa valigia?”
 
Alex inizia a camminare per il salotto con impazienza, scrutando ogni angolo di casa e controllando ogni cassetto. Come se una valigia potesse stare in un cassetto!
 
“Non credo che la troverai nel cassetto delle stoviglie.”
“Controllo se manca altro!”
“Mi puoi descrivere questa benedetta valigia che ti manca?!”
“Un trolley, Med! Un banalissimo trolley nero con strisce grigie.”
 
Ed è lì che mi preparo al peggio; ad esempio al fatto che tra mezzo minuto Alex mi lascerà, si trasferirà altrove, poi mi denuncerà e darà fuoco a ciò a cui tengo per ripicca.
 
“Rigido, con una rotella rotta?” dico trattenendo il respiro mentre la mia voce trema, rivelando la mia colpevolezza.
Appena le parole abbandonano la mia gola, lui si immobilizza: la schiena così rigida che sembra fatta di marmo, il collo dritto e - immagino - lo sguardo piantato sul muro di fronte a sé. Oh, e una mano sul ceppo portacoltelli.
 
Non si volta quando, con la voce gelida come i giorni della merla, domanda:
“Devi dirmi qualcosa, Sofia?”
 
Il mio nome di battesimo, di solito pronunciato con una punta di divertimento e troppo spesso con delicatezza, questa volta sembra cianuro nel suo respiro.
 
“Potrei essermi imbattuta in questo trolley il giorno in cui sono partita mentre tu eri in doccia?”
 
Senza voltarsi, chiede guardingo:
“E perché ti ci sei imbattuta?”
 
“Perché era più capiente del mio?”
 
Sì, lo so, faccio schifo. Ma lui era in doccia e io ero in ritardo; non avevo tempo di aspettare che uscisse dal bagno e ho solo guardato sotto il letto, non è che mi sono messa a fare una bonifica di camera sua! Poi volevo dirglielo, ma lui mi ha distratto con il suo saluto porno e mi è passato di mente.
 
Alex lascia andare il manico del grosso coltello che impugnava e con pericolosa lentezza si muove, spostandosi nella mia direzione.
Immagino non sia questo il momento di portare alla memoria il fatto che avevo preso in prestito anche una camicia, vero?
 
“Okay, cerchiamo di non essere affrettati.”
 
Non penso che mi farebbe del male. A meno che quella valigia non contenesse, che ne so, cocaina.
“Tu… tu…” balbetto indietreggiando di qualche passo, “tu bevi il mio latte!”
“Il tuo latte?” Alex smette di camminare verso di me, “quale latte?”
“Il mio.”
“Se produci latte, abbiamo un grosso problema.”
“Imbecille, il latte alle donne gravide viene dopo il parto!”
Non so come sono riuscita a spostare l’attenzione dal trolley alla produzione di latte materno così abilmente, ma resto ferma sul latte, che sembra una zona molto più sicura: “Il latte parzialmente scremato!”
What about it?”
“È il mio, e tu lo finisci ogni giorno. Di quanto calcio puoi aver bisogno?”
 
Alex sembra aver avuto una specie di corto circuito cerebrale: la sua espressione è vuota e attonita per qualche istante. Ma non passa molto prima che si riscuota da questo stato di stupore e riprenda la sua marcia verso di me.
 
Gli occhi duri e la voce bassa: “Ti ricordo che la spesa la facciamo insieme.”
“Sì, ma…”
“Smettila, Med.” mi ordina con un tono di rimprovero. Poi, spostando improvvisamente l’attenzione lontano da me, si dirige verso camera mia.
“Dov'è?”
 
Sospiro mortificata e lo seguo.
“Ai piedi del letto.”
“L'hai aperta?”
“No.”

Perché aveva la combinazione. E non era né 0000, né 1234.
 
Da quel momento scelgo la mia linea di difesa: il silenzio. Parlerò solo in presenza del mio avvocato (quindi o Bet o Terry).
Sento l’ansia di Alex diffondersi dal suo corpo, espandersi nel suo mutismo e nei suoi gesti frenetici mentre entra nella mia stanza e si mette alla ricerca di quel benedetto trolley.
“Alex, mi dispiace…”
“Non importa.”
 
“Mi sono scordata di rimetterla a posto.”
“Non avrei dovuto lasciarla in giro.”
“Non pensavo fosse importante.”
“Ho detto che non importa.”
 
Quando trova la valigia, la tensione abbandona i suoi muscoli in un colpo solo: le spalle si ammorbidiscono e la schiena si rilassa. Afferra il trolley per il manico superiore e lo solleva senza sforzo, voltandosi verso di me senza guardarmi.
“Alex…”
“Ti prego, non me lo chiedere.”
 
Che cosa nasconde? Cosa c’è in quella valigia? Perché ha perso la testa quando non l’ha trovata?
 
È questo che non vuole che gli chieda.
“Perché ogni volta che si tratta di te, mi sento come in una puntata della Signora in Giallo? Devi mantenere un numero minimo di segreti all’anno o ti casca il pisello?”
“Non è quello.”
“E allora cos’è?”
“È che… non lo sa nessuno.” sospira portando il trolley in cucina. Io lo seguo silenziosamente.
 
Una volta pensavo che le persone riservate avessero un vantaggio su tutti: se nessuno sa abbastanza da colpirti, tu sei al riparo. Eppure i segreti non hanno portato nulla di buono nella mia vita. Ho capito perché tacere una verità è davvero come mentire: tempo fa pensavo fosse una cazzata. Credevo che ognuno facesse bene a selezionare le informazioni: lo penso ancora, ma ora so che tacere un fatto scomodo è mentire, perché è dire che va tutto bene quando non è così.
Io non sono una moralista: non credo che non si debba mai mentire, che tutti debbano essere cristallini e nudi, che una bugia ti renda una persona spregevole. Sarei un’ipocrita. E penso che ci sia qualcosa di umano nelle bugie.
Avete presente il termine bugie bianche? Sono quelle bugie innocenti, che diciamo involontariamente, che non ledono nessuno e che ci sfuggono inconsciamente dalle labbra. Piccole distorsioni della realtà. Piccoli “no” quando dovremmo dire “sì”. Ne diciamo tutti un certo numero al giorno; la maggior parte delle volte, non ce ne accorgiamo neppure. Noi stessi crediamo a quelle bugie.
 
Di fatto, quindi, tutti mentiamo. Per quel che mi riguarda, tutti abbiamo diritto di scegliere cosa rivelare e cosa no.
Secondo questa logica e tenendo conto del fatto che io stessa vorrei poter tacere gli affari miei, io non sono nessuno per pretendere ancora verità, ancora confessioni, ancora segreti svelati: sarebbe estenuante cercare di nuovo di farlo parlare. E sarebbe da stronze.
Devo semplicemente rassegnarmi al fatto che ho una relazione con una persona molto riservata. E con un sacco di segreti.
 
L’unico problema è che, porca puttana, lui ha segreti su tutto. È riservato su ogni maledetta cosa. Lavoro, famiglia, amici.
 
Mi dirigo verso il frigorifero evitando di guardarlo e sento i suoi occhi su di me: apro lo sportello, facendo scorrere lo sguardo sui vari ripiani, finché non trovo una confezione di birra che, probabilmente, sta lì da un po’.
 
“A cosa stai pensando?” mi chiede lui, lasciando trasparire un po’ di apprensione.
“Birra?” ribatto, evitando accuratamente di rispondere e lui rifiuta. Ovviamente. Alex non beve.
 
Dio, dovevo capirlo da quello che avrei avuto a che fare con un esemplare di maschio notevolmente troppo complesso per me.
“Med, dimmi cosa pensi.”
 
Faccio un sospiro e, spostandomi in prossimità del lavandino, stappo la birra con il retro di una forchetta come un vero uomo: me l’hanno insegnato mio padre e Michele quando ero piccola ed è tuttora una delle mie abilità da non-femminuccia di cui vado fiera.
“Pensavo... casa nostra era chiusa a chiave, quindi è stato demenziale anche solo pensare che fossero entrati.”
 
È vero: nel panico e nella concitazione iniziale né io né Alex abbiamo avuto la lucidità di renderci conto che in casa nostra non potevano essere passati i ladri, dato che la serratura era intatta e l’appartamento chiuso.
Lui non risponde alla mia asserzione: lentamente, le sue sopracciglia si corrugano, rivelando un accentuato stato riflessivo.
Lo guardo, studiando ogni linea sul suo viso e cercando di capire se un giorno imparerà a raccontarsi da solo: so che la risposta è no e che, per i suoi standard, Alex ha già praticamente aperto i cancelli della sua anima. Spingere ancora sarebbe scorretto. Ma in questo momento non mi va di impegnarmi in chiacchiere fatte solo per riempire il silenzio: dopo una lunga sorsata di birra, trovo i suoi occhi e gli sorrido. Abbandono la bottiglia semi piena nel lavandino e marcio verso la mia stanza.
 
“Dove vai?”
“A sistemare la mia camera.” rispondo senza voltarmi e cercando di assumere un tono di voce rilassato.
Lo percepisco alzarsi dalla sedia del tavolo in cucina e fare qualche passo tentennante per seguirmi; poi, improvvisamente, sembra cambiare idea. Si ferma a qualche passo dalla porta di camera mia. Dal mio letto riesco a vedere la sua ombra immobile: una mano si sposta sul suo mento per massaggiarlo qualche istante prima di tornare rassegnata lungo il suo fianco.

Non passa molto prima che decida di allontanarsi definitivamente e andare nella sua camera.
 
Dovrei effettivamente riordinare la montagna di vestiti sparsi sul mio letto ma, da animale curioso quale sono, non riesco a levarmi dalla testa la reazione di Alex alla possibilità che qualcuno abbia portato via il suo trolley: continuo a chiedermi cosa possa contenere di così importante e perché nessuno lo debba sapere.
Presa da un implacabile dubbio, apro il PC e avvio Skype, sperando che le mie amiche siano connesse.
 
Nel giro di pochi secondi, appare sul mio schermo Bet, intenta a impiastricciarsi la faccia con un eyeliner blu.
“Ma dove cazzo siete andati?” domanda senza scomodarsi in saluti.
“Sono entrati nel nostro palazzo.”
“Chi?”
“Non lo so. Qualcuno ha scassinato il portone del condominio e siamo tornati di corsa.”
“Manca qualcosa?”
“No.”
“Allora tornate?” , giunge rapida la voce di Jules fuori campo.
“Decisamente no.” ribatto abbandonandomi contro i cuscini alle mie spalle, “Ho bisogno di un consulto.”
“Sì, dovresti mettere un allarme.” biascica Bet con la bocca contorta in una smorfia.
“Ma cosa stai facendo?”
“Cerco di riprodurre lo smokey eye che ho visto fare a ClioMakeup l’altro giorno.”
“Sembri una delle prostitute che si vedono nel film Les Miserables. Era questo il tuo intento?” domanda Jules sedendosi accanto a lei e infilandosi mezza fetta biscottata in bocca.
“Cercavo uno stile sensuale e raffinato.”
“Allora hai fallito.” rispondo frettolosamente.
“Che succede, Med?” chiede Jules fingendo di non vedere l’espressione stizzita di Bet riflessa nello schermo e concentrandosi su di me.
 
Mi schiarisco la gola, spostando per un attimo lo sguardo sulla porta per verificare che Alex non sia nei paraggi. Poi spiego a voce bassa:
“Essere in una relazione con Alex mi autorizza a pretendere spiegazioni?”
“Dipende dalle spiegazioni.” bofonchia Bet con tono seccato. Bet odia le critiche ai suoi attacchi d’arte.
“Potrei aver invaso il suo spazio vitale e essere inciampata in un oggetto che nasconde qualcosa.”
“Inciampata in che senso? Hai frugato tra le sue cose?”
“Non esattamente. Mi serviva una valigia più capiente della mia e ho preso la sua.”.
“Senza chiedere, immagino.” specifica Jules con aria di rimprovero.
“Dettagli.” sibilo tra i denti, ben conscia del fatto che la mia amica ha ragione. Mi preme arrivare al punto e confrontarmi su quali sono i limiti oltre i quali non mi posso spingere.
“Parliamo poi di quanto sono cafona. Ora, il punto è che lui ha perso la testa quando ha pensato che quella valigia fosse stata rubata.”.
 
Le mie amiche si mostrano a quel punto curiose quanto me, insospettite da questo particolare.
“Perché mai?”
“Perché c’è qualcosa in quel trolley e lui non mi vuole dire cosa.”
 
Jules apre la bocca per dire qualcosa, ma viene interrotta da una voce che giunge baritonale e seria dalla soglia della mia stanza.
“Scintilla…”
 
Ah, merda! Ora al mio crimine di ragazza invadente e ladra di valigia si aggiunge quello di chiacchierona. Fantastico: le mie chance di restare in questa relazione si assottigliano a ogni respiro che faccio.
“Non gliel’avrai chiesto nel modo giusto.” sussurra Bet col viso più vicino allo schermo, come se questo rendesse impossibile ad Alex sentire le sue parole.

Con gli occhi ancora sul mio coinquilino, sussurro in risposta: “E come avrei dovuto chiederglielo secondo te? Sventolando le mutande?”
Per un secondo un accenno di sorriso fa capolino sulle labbra del ragazzo in piedi sulla soglia della mia stanza, ma non abbastanza a lungo da alleggerire l’espressione gravosa che galleggia nei suoi occhi.

“Se l’hai colpito col tuo umorismo falciante, non mi stupisce che non te l’abbia detto.”
 
Lui fa un passo nella mia direzione e gesticola per farmi capire che “dobbiamo parlare” .

No. No, no, no, no. NO. Dobbiamo parlare è il codice universale per “siamo nei guai”.
 
“Saluta le tue amiche, Sofia.”
 
Di fronte a me Bet e Jules cercano di farmi capire con delle smorfie mostruose che non vogliono perdersi la conversazione che sta per avere luogo, ma persino io mi rendo conto che quello sarebbe troppo.
“Vi chiamo più tardi, ragazze.”
Alex non aspetta di vedere se lo seguirò o meno. Si allontana dalla mia stanza; quando lo raggiungo in cucina, è appoggiato allo sportello del frigorifero: una birra in mano e una bottiglia di vino con accanto un bicchiere posizionati sul bancone accanto a lui.
“Abbiamo solo vino rosso.”
“È per festeggiare qualcosa?” chiedo speranzosa.
“No, è per addolcirti la mia confessione.”

Aspetta che io mi sieda, poi inizia a parlare. Lo fa prima a fatica, sospirando tra una parola e l’altra, fregandosi il mento e sorseggiando a intervalli la birra, poi con meno incertezze, ma spostando in continuazione lo sguardo con movimenti impercettibili: e mi racconta.

“In quella valigia ci sono i miei risparmi. Parte del mio stipendio.”
“Come è possibile? Ti pagano in contanti?”
“Solo una parte… Diciamo un bonus.”
Vuol dire che o lavora in nero, o ha un contratto per un compenso inferiore di quello che gli retribuiscono. Quindi, probabilmente, la somma in più è comunque poco legittima. Oppure c’è qualche altra opzione a me ignota: in fondo sono una studentessa disoccupata e non ne so nulla di stipendi e retribuzioni.
“E in banca?”
“Un po’ di soldi sono lì… per saldare il debito. Un po’ li tengo qui, per non restare a secco.”.
Fa una pausa: tamburella con le dita contro il bancone della cucina, incerto su come proseguire. I suoi occhi si spostano brevemente su di me; dal mio sguardo vuoto capisce che quello che mi ha raccontato non mi ha chiarito le idee più di tanto.

“Un anno fa sono stato licenziato dal ristorante in cui lavoravo per riduzione del personale. Ero l’ultimo arrivato e sono stato il primo ad andarmene, chiaramente.”
“D’accordo…” rispondo incerta di fronte all’ennesima pausa: non mi sembra una confessione così clamorosa. C’è la crisi e conosco più gente che ha perso il lavoro di quella che ancora ce l’ha.
“All’inizio non mi sono preoccupato più di tanto e ero abbastanza sicuro che avrei trovato un nuovo impiego velocemente” continua, mentre con le dita gioca col collo della bottiglia ed evita accuratamente di incrociare il mio viso, “ma mi sbagliavo. Ero troppo ottimista, volevo fare il cuoco e non scendevo a compromessi. Quando mi proponevano un lavoro in cucina diverso dal cuoco, rifiutavo.”.
“Perché?”
“Perché ero un coglione gonfiato. E non mi accorgevo di quanto velocemente i miei risparmi si stessero esaurendo.”.

Vorrei avvicinarmi a lui, dargli conforto di fronte all’evidente fatica che sta facendo a rivivere e a raccontare queste cose; vorrei, ma invadere il suo spazio vitale adesso sembra quasi impossibile.
Mi racconta del primo giorno in cui ha visto l’estratto conto e davanti al saldo c’era un meno: “Quello” mi dice, “è stato il giorno in cui mi sono sentito un vero fallito come adulto. Ho capito che dovevo smettere di fare lo schizzinoso e che ero stato un incosciente.”.
Racconta della fatica fatta per trovare il modo di stare a galla. Del sollievo provato il giorno in cui la signora Riposi ha accettato di affittargli la camera.
Dello sconforto provato ogni volta che consegnava un curriculum e non riceveva risposta. Dei primi giorni trascorsi qui e delle ore passate a leggere annunci al bar; delle sere in cui si addormentava sull'orlo delle lacrime. Del giorno in cui, finalmente, l'hanno assunto. Dice di essersi abbassato a chiedere l'aiuto di suo fratello, ma inutilmente.

“Non so perché ho coinvolto la mia famiglia, ma me ne pento ancora. Lui ha tirato dentro i miei genitori e lì ho capito che dovevo prendere di nuovo le distanze.”.

Credo si riferisca alla sera in cui ero a cena al suo ristorante: quella in cui, dopo che L mi ha baciato, ho finalmente scoperto che Alex faceva il cuoco. Ricordo bene di essere tornata a casa e di aver origliato la sua conversazione anglofona al telefono. Ricordo anche che aveva rifiutato l’aiuto dei suoi e che era davvero tanto, tanto incazzato.
Non mi offre altri dettagli sulla vicenda; parla come se io sapessi, o come se quello che mi ha raccontato fosse sufficiente. O, forse, come se parlare di questa vicenda familiare fosse difficile: conoscendo Alex, lo è di sicuro.

“I primi mesi qui ho arrancato, Med. Non sapevo come pagare la mia parte... Ho chiesto un anticipo al lavoro, ma ero in prova e il proprietario me l'ha rifiutato. È successo la sera in cui...”

Si interrompe e si schiarisce la voce, spostando lo sguardo in giro per l’appartamento.
“Sì?” domando con una lieve cantilena e sorridendo appena.
“In cui ci siamo baciati.”

La sua risposta arriva appena sussurrata. Mentre parla, si alza dallo sgabello: nei suoi occhi torna quello spirito ludico che tanto mi fa impazzire. Per un istante, sembra aver accantonato l’imbarazzo insorto mentre mi raccontava delle sue difficoltà economiche.
“Puoi essere più preciso? Ci siamo baciati diverse volte prima che tu ti rendessi conto che non mi potevi resistere.”
“Idiota.” sorride facendo qualche passo nella mia direzione e raggiungendomi senza fatica, intrecciando le dita con le mie e studiando le nostre mani.
“Eri a casa e ti ho trovato sul divano, mentre ti farcivi di patatine e ti procuravi un embolo di fronte a un film.”

Io ricordo bene di che serata si tratta, ma non c'è bisogno che lui lo sappia, per cui fingo di non capire:
“Non ho memoria di una serata simile…”
“Era un film dell’orrore.” mormora costringendomi a indietreggiare di qualche passo.
“No, non ricordo proprio.”
“Devo rinfrescarti la memoria?”
“Se non ti arreca troppo disturbo.”
“D’accordo. Io faccio Med e tu fai Alex.” Respira sulle mie labbra, stringendo una mano tra i miei capelli prima di guidarmi fino al divano.
Senza toccare la mia bocca, mi ordina di sedermi; l’unica volta in cui mi sono avventurata in un gioco di ruolo nell’intimità non è finita benissimo. Ho provato a fare la segretaria sexy, con tanto di tacchi: ovviamente, data la mia incapacità di portare scarpe alte, ho preso una storta colossale e sono finita al pronto soccorso. Però impersonare Alex non contempla tacchi e non sembra troppo pericoloso.

“Che devo fare?” gli chiedo seguendolo con lo sguardo mentre si aggira per il salotto a spegnere le luci.
“Fai me.”
“Quindi devo fare l’incazzato?”
“Non ero incazzato!”
“Ricordo vagamente un atteggiamento ostile verso il mondo…”.
Mentre parlo, Alex torna di fronte a me e accende l’abatjour accanto al divano.
“Ora concentrati sulla scena.” Sussurra piegandosi verso di me; per continuare a guardarlo in viso, devo appoggiare la testa allo schienale del divano. Alex posa entrambe le mani ai lati della mia testa e, accennando l’ombra di un sorriso, domanda:
“Dove eravamo?”
“Io ero Alex incazzato.”
“Ah, giusto.” Le sue mani si muovono fino ad afferrare i miei polsi, per portare le mie dita sui suoi fianchi, “è andata più o meno così, no?”
“Non saprei…”
“Ora dovresti tirarmi a te, Scintilla.”
Rispondo alla sua richiesta, facendo scivolare le braccia verso il basso e invitandolo con una lieve pressione ad avvicinarsi al mio corpo.
Lui segue i miei gesti senza esitazioni: si muove con movimenti lenti, sedendosi a cavalcioni sulle mie gambe con grazia e fare predatorio allo stesso tempo.
“Cominci a ricordare?”
Non rispondo alla sua domanda: mi limito ad annuire, sfiorando piano il suo viso e cercando le sue labbra con sicurezza. Lui si ritrae appena, impedendomi di baciarlo e borbottando:
“Non è andata proprio così, però.”

Vorrei baciarlo e porre fine a tutto questo; vorrei aiutarlo a dimenticare i suoi problemi per una volta e distrarlo dalla difficoltà che probabilmente prova ancora dopo avermi raccontato la verità. Vorrei ricordargli che io ci sono anche per questo: per sostenerlo come ha fatto più volte lui con me; che lo avrei scelto anche se fosse stato onesto con me dal principio. Vorrei sapesse che ho perso la testa per lui, per quello che è, per la sua ironia e i suoi sbalzi d’umore: per il ragazzo che è davvero, non per l’immagine che mi sono costruita. Vorrei che capisse che da me non si deve nascondere.
Vorrei fargli capire tutto questo con un bacio, ma so che non basterebbe quello per fargli sapere cosa penso e cosa sento: l’unica cosa che posso fare ora è stare al gioco e alleggerire l’aria. Allora incornicio il suo viso con sicurezza, impedendogli di allontanarsi ancora da me; lo guardo dritto negli occhi e in un respiro, domando:

“Wanna make out?”
Bastano quelle parole soffiate per cancellare ogni emozione negativa dai suoi occhi: sospira appena e preme il suo corpo contro il mio, lasciando che la mia bocca scorra contro la sua. Affondando le mani nei suoi capelli, non posso trattenermi e - senza accorgermene - mordo il suo labbro inferiore e cerco di accarezzare il suo bacino con il mio. Un verso di piacere gli si spezza in gola quando la frizione del mio ventre sui suoi jeans sfiora la parte più sensibile di lui: nascosta dal tessuto, la prova del fatto che il mio spirito d’iniziativa è stato apprezzato inizia a diventare evidente.
Lo sento premere il suo corpo su di me, cercando disperatamente quella frizione che io stessa desidero: quando con un gesto rapido si stacca dalle mie labbra, i suoi occhi si fanno più scuri. Il palmo della sua mano scorre dal mio collo fino al lembo inferiore della mia maglietta: le sue dita sgusciano sotto la stoffa e stringono la mia pelle.

“Wanna take it to the next level?”


Non aspetta neppure di sentire la mia risposta, prima di incollare le labbra alle mie e trascinarmi in camera da letto e “portare tutto al livello successivo” , come ha delicatamente proposto.

Credo che non mi stancherò mai di fare l’amore con Alex: non è tanto per la sua tecnica (che va benissimo, intendiamoci), è più che altro per il fatto che è attento ad ogni particolare. Che si tratti di una sveltina o di un momento lento e delicato, Alex si concentra tanto sul dare quanto sul ricevere. Come se ogni carezza, ogni bacio e ogni respiro fosse necessario. Sempre. Alex inizia a fare l’amore dal primo bacio. A volte penso che i preliminari gli piacciano più di tutto il resto. E lo penso anche oggi, mentre con lui imparo a fare l’amore in un modo nuovo: a occhi chiusi. Letteralmente.

Niente nastri e mascherine sensuali: semplicemente mi sussurra all’orecchio di chiudere gli occhi e di non aprirli fino alla fine. Lui farà lo stesso.
E la cosa strabiliante è che io non ho modo di sapere se lo farà davvero o meno: devo fidarmi e credere che ci sia una ragione per quella richiesta.

Accetto la sfida. Poco dopo, tra una carezza e una gomitata accidentale inflitta da me ai suoi denti, capisco la ragione: con un senso attivo in meno, tutto il resto si amplifica.
L’odore della sua pelle, delle sue labbra, della sua pelle dopo che ha sfiorato la mia: è tutto più forte. Forse riesco a percepire persino l’odore della mia, di pelle.
I sapori e i respiri sembrano avere un’intensità nuova e più vivida.
Il tatto, le percezioni del mio corpo e la sensazione di lui contro me si scandisce: all’inizio è tutto solo confusione; poi ogni percezione si fa più chiara, ogni terminazione nervosa sembra vibrare in modo diverso, ogni recettore del tatto si attiva con più intenzione. Io mi attivo con più intenzione.
Con un ultimo bacio delicatissimo, così diverso dal ritmo concitato e passionale con cui ci siamo mossi insieme, Alex mi stringe a sé e lo sento fremere impercettibilmente tra le mie braccia, e un sospiro di piacere si spegne tra la pelle delle mie labbra contro le sue.

Senza parlare, ma sorridendo come una vera imbecille, apro gli occhi, scendo dal suo grembo e mi lascio cadere contro il materasso: Alex scuote piano il capo e si sdraia accanto a me, permettendomi di accarezzargli il viso. Restiamo così a lungo, in un confortevole silenzio e respirando l’uno sulla pelle dell’altra senza toccarci.

Non gli chiedo a quanto ammonta questo debito: non è affare mio e, soprattutto, sarebbe di una maleducazione eccessiva anche per una ficcanaso come me. Vorrei fargli altre domande: vorrei chiedergli perché non ha voluto accettare l'aiuto dei suoi e vorrei sapere di più sul suo rapporto con Adam, ma al momento sono più preoccupata per la sua gestione dei soldi.
Non che io ne sappia qualcosa di stipendi e conti correnti, ma mi pare che tenere i contanti sotto il materasso sia quanto meno azzardato:

“Alex, non puoi tenere tutto quello che possiedi in una valigia in casa.” sussurro fingendo di non sentire le sue dita ancora una volta scivolare lungo la pelle del mio basso ventre.
“Non sono tutti.”
“Non è sicuro: oggi ti è andata bene, ma che succede la prossima volta? Come fai se entrano davvero dei ladri e ti portano via la tua scarsissima cassaforte scassata?”
Mi bacia il collo e mi costringe a voltarmi supina: poi si appoggia lentamente su di me e si lecca le labbra:
“Posso baciarti, Sofia? È per zittirti.”
“Alex...”
“Non ne voglio più parlare, okay? Per oggi ho parlato a sufficienza.”
“Ma...”
“Non ti basta mai? In pratica ho sviscerato le cose più intime di me: puoi darmi tregua? Non ho quasi più segreti... Mi sento nudo!”
“Sei nudo!”
“Sei nuda pure tu. Possiamo parlare di quello?”
“Magari un'altra volta.”
“Ma io vorrei farlo di nuovo!” ribatte indignato.
“E io vorrei parlare. Pare che entrambi ci addormenteremo insoddisfatti.”
“Il tuo è un meschino ricatto.”
“Sì, lo è. Ma sono stanca: ti concedo una tregua dalle mie domande pressanti, se posso posticipare il sesso a dopo un pisolino.” rispondo accarezzandogli il viso e deponendo l’ascia di guerra, mentre lui annuisce contento e torna a sdraiarsi accanto a me.

Questa sera Alex mi ha mostrato se stesso: le sue paure e la parte di sé che, fino ad ora, aveva cercato di nascondere. Mentre lascio che mi abbracci da dietro e che affondi il viso nel mio collo prima di addormentarsi, non posso fare a meno di rimproverare me stessa: piano piano Alex si sta svelando e sta affidando a me tutto quello che ha. Mi sta mostrando fiducia e sta eliminando ogni distanza. E io? Io resto ferma, immobile anche con lui. Non ho fatto grandi progressi, né gli ho permesso di vedere più in profondità: nascondo le mie vergogne e i miei timori. Non gli ho ancora mostrato cosa mi spaventa e non gli ho permesso di aiutarmi a uscire dalla confusione e dall’incertezza.

Il suo respiro contro la mia pelle si fa più lento e regolare. Mentre lui dorme, prometto a me stessa che farò qualcosa: cercherò di dare quanto ho ricevuto in questa relazione. Tenterò di fargli vedere oltre la facciata. Di permettergli di avvicinarsi davvero.


 



PAUSA
PAUSA
Ormai sapete come funziona! Fate pausa responsabilmente... La direzione si chiede quanti effettivamente rispettino la pausa.

 

 
Ci sono due momenti drammatici in una relazione che non dovrebbero mai avere luogo troppo presto: presentare tuo fratello al tuo partner e incontrare due membri della famiglia di quest’ultimo dopo aver fatto tre rampe di scale di corsa.
L’evento si trasforma in tragedia se uno di questi due è un bambino di sette anni con gli occhi tendenti al grigio, lo sguardo da inquisitore spagnolo e i capelli biondo scuro che lo fanno somigliare troppo al tuo ragazzo.
Che cosa fai quando entri in casa con tuo fratello (che si è auto invitato a pranzo) e trovi il tuo coinquilino/compagno seduto al tavolo della cucina con un gran pezzo di figo che non hai mai visto e il sopracitato bambino sulle ginocchia che decora ad arte (pessima) una cosa che somiglia ad una cheesecake? Come agisci quando il tuo ragazzo afferma: “Med, questi sono Adam e Andie, mio fratello e suo figlio.” ? Qual è la mossa matura quando tre paia di occhi da Pokemon (che ora capisci essere un problema genetico) di gradazioni diverse si piazzano sulla tua faccia sudata e paonazza?
Fai come me: ti nascondi in bagno.
Non è probabilmente il modo più adulto di affrontare la vita, ma mi concede il tempo di prendere respiro e di prepararmi all'inevitabile.
 
Quel bambino ha degli occhi più pungenti dello zio: sono di un colore bizzarro, una via di mezzo tra il grigio e il verde (forse è un mutante) e mi scruta come se gli avessi rubato i Lego.
Quando mi decido ad allontanarmi dalla porta del bagno, il suo sguardo mi segue sospettoso e fastidioso.
Alex mi sorride, facendo rimbalzare il simpatico fanciullo sulle sue ginocchia:
“Andie, that’s Med.”
“Do you speak English?” mi chiede abbozzando una smorfia.
 
È la mia occasione: rispondere che non lo parlo è il modo per evitare interazioni dirette con il nipote di Alex. Tiè, beccati questo, bambino giudicone. Mi mette ansia quel biondino liofilizzato in braccio al mio, di biondino.
Ho la sensazione che Andie tenga Alex per le palle senza che il mio coinquilino se ne renda conto: il che significa che io e Andie dobbiamo essere amici.
 
“So? Do you speak English?”
 
“No.”
“Med!” mi rimprovera Alex mentre scoppia a ridere.
“Cosa?”
“Non fare la scema.”
“Non dire scema di fronte al bambino.”
“Tu parli inglese!”
“Io parlo italiano. Occasionalmente, se la situazione lo richiede, mi posso sforzare di produrre suoni anglofoni, ma non lo faccio bene.”.
“Ma non è vero!”
“Tu che ne sai? Io non ti ho mai risposto in inglese.”
“Sei allucinante.” sghignazza Alex scuotendo la testa.
“Purtroppo, Andie, non sono fluente nella tua lingua. Ora lo zio te lo traduce.”
 
Alex non smette di ridere mentre parlo e suo nipote si volta alternativamente tra me e lui: il fratello, di un bello sconcertante, che fa impallidire il mio coinquilino al confronto, si limita a studiarci e a sfoggiare un sorriso appena accennato.
Una carezza sulla testa da parte dello zio sembra risvegliare il piccolo Andie dal suo mutismo:
 
“Alex, è strana.” dice rivolgendosi allo zio, ma continuando a fissare me, “Forse mi piace!”
 
Oh, merda. Il sentimento non è reciproco, bambino.
 
Sarebbe tutto andato benissimo se mio fratello avesse colto la supplica dipinta nei miei occhi e avesse inventato qualche balla per portarmi via dall’appartamento: sfortunatamente per me, invece, Michele è parso da subito molto interessato ad Alex. O meglio, a chiunque alloggiasse nelle mie mutande.
 
Dalla mia destra, il mio adorato fratellone, si è limitato a sibilare con una voce terribilmente dura:
“Quale ti scopi?”
 
C’è questa specie di mito che corre di bocca in bocca e narra che i fratelli maggiori sono gelosi, protettivi e territoriali: ecco, in tutta la mia vita Michele si è pacificamente disinteressato della mia vita sentimentale. Ma non oggi: oggi ha deciso che, improvvisamente, deve guardare con aria minacciosa la persona con cui sono in intimità. E il suo istinto maschile lo ha spinto a portare tutta la sua energia omicida sul bersaglio sbagliato, cioè su Adam: lo fissa come se fosse il demonio.
Incredibilmente, però, quando trovo il viso del più grande degli Aleman nel mio appartamento, scopro che lui sta fissando me nello stesso identico modo.
 
La cosa non è piacevole. Per nulla.
 
“Allora? Con quale te la fai?” sussurra nuovamente Michele.
“Non con quello che stai minacciando di morte tu.”
“Col biondo?”
“Sì.”
“Quello maggiorenne, vero?”
“Idiota.”
 
Lui sbuffa e, senza perdere tempo, si incammina verso Alex.
 
La giornata del parentado diventa ufficialmente la mia preferita quando Adam si solleva dalla sedia in tutto il suo splendore e punta dritto verso di me: volete che ve lo descriva? Perché è più polverizza-mutande di Alex. O forse no: forse lo sono allo stesso modo, ma i colori diversi lo rendono più minaccioso.
Tanto per cominciare Adam è moro: non semplicemente moro, ha i capelli neri come il male e gli occhi con lo stesso identico taglio di quelli di Alex, ma illuminati da una punta più verde. I tratti del viso sono forti, più adulti di quelli del fratello e nettamente più duri, ma la bocca sembra essere stata scolpita nello stesso sorrisetto che decora costantemente le labbra di Alex.
Oggi vantano entrambi una lieve barba incolta che, se ad Alex conferisce un’aria più sensuale, su Adam sembra solo rimarcare la sottile linea di pericolo che si porta dietro. Ha solo pochi centimetri in più del fratello in altezza e lo stesso fisico asciutto ma teso.
 
Come vi dicevo, dunque, è un pezzo di figo. Se non fosse per l’aria poco rassicurante e qualche segno del tempo in più sul viso di Adam, potrebbero passare quasi per gemelli.
 
“Tu sei Sofia.”
 
Stesso accento. In Italia da duemila anni e ancora non si sono liberati della cadenza statunitense.
“Med.” lo correggo cercando di sorridere e stringendo la mano che ha teso nella mia direzione.
“Sì, lo so.”
“Lo sai?”
“Andie mi ha raccontato di te.”
Non mi sfugge il particolare del fatto che il messaggero riguardo alla mia esistenza non sia stato il mio ragazzo, ma il bambino che li costringe ancora ad avere un rapporto: lo stesso bambino che sembra avere un rapporto inimitabile con lo zio.
 
“Capisco…”
“Sofia, tu sapevi che teneva tutti quei soldi in casa?”
Il fatto che si permetta di usare il mio nome di battesimo senza il mio permesso mi irrita quasi quanto la sua insinuazione.
“No, non lo sapevo”, ribatto cercando mio fratello con lo sguardo, pregando affinché non si stia comportando da bestia. “Mi sorprende che lo sappia tu, però.”
“Non dovrebbe. Sono suo fratello.”
 
Lo dice come se il suo ruolo fosse garanzia di una confidenza tra loro che, sono abbastanza certa, non esiste.
“Ne sono al corrente.”
“E sono un assicuratore.”
 
Ecco svelata la ragione della sua presenza qui.
“Interessante: deve essere un lavoro piuttosto affascinante.”
“Non particolarmente, ma non è questo di cui volevo parlarti.” risponde Adam buttando un occhio alle sue spalle e monitorando la situazione, forse per assicurarsi che Alex non lo senta: purtroppo per lui, però, lo sguardo del mio coinquilino è piantato come un chiodo su noi due e non ha un’espressione serena. Per di più sta ignorando mio fratello che, a sua volta, si sta incazzando come un bufalo.
 
In tutto questo Andie è l’unico sereno che, imperterrito, sfoglia le pagine di un libro con una violenza propria solo dei bimbi e blatera come se qualcuno lo stesse ascoltando.
“Alex ha qualche difficoltà economica ultimamente.”
Se non avessi già avuto la notizia da Alex, tirerei un ceffone ad Adam per aver svelato così un fatto tanto privato a una che neanche conosce. Annuisco a denti stretti, evitando di emettere suoni e cercando di sopprimere la rabbia.
“Ha chiesto aiuto a me in passato, ma…”
“Sì, conosco la storia.” non è vero, non la conosco proprio, ma la superiorità con cui sta parando di suo fratello mi sta facendo salire il sangue alla testa.
“Non può tenersi tutti quei soldi in casa, Sofia.”
“Ne è cosciente.”
“Ma non ha tutti i torti: se le cose non migliorano l’affitto potrebbe diventare un problema.”
 
Mentre lui parla, non riesco a spostare lo sguardo dal suo viso e a pensare che le ovvietà che sta dicendo probabilmente servono per portarmi in una posizione scomoda. Oppure Adam è solo molto tronfio e adora sentire il suono della sua voce, eppure non era questa l’idea che mi ero fatta di lui dalle poche informazioni che Alex si era lasciato sfuggire.
 
Istintivamente vorrei appenderlo al muro, sbatacchiarlo e domandargli “quale cazzo è il messaggio che stai cercando di trasmettermi?”, ma mi rendo conto che la cosa potrebbe essere eccessiva. Persino per me.
Non so bene cosa stia succedendo ma, benché io condivida la disapprovazione di Adam per la scelta di Alex di tenere gli stipendi sotto il materasso, l’atteggiamento di Adam ha scatenato in me un senso di protezione: Alex è stato un coglione ed è testardo come un mulo, ma non sta certo a suo fratello venire a sindacare. Un fratello perennemente assente, tra l’altro.
E, a proposito di fratelli, sono in apprensione per il mio, per cui cerco di accelerare i tempi:
“C’era qualcosa di specifico che volevi dirmi e di cui non sono già al corrente?”
Mentre parlo, il mio sguardo si sposta alle spalle del mio interlocutore e trovo nuovamente Alex con gli occhi bui incollati su di noi: incredibilmente nessun segno di rassicurazione sembra alleggerire la sua tensione.
Non l’occhiolino che gli faccio, non il piccolo sorriso che abbozzo. Neppure quando indico suo fratello e faccio roteare gli occhi al cielo: è come se non se ne fosse neanche accorto. Purtroppo per me, invece, Adam ha colto in pieno.
“Ti sto infastidendo?”
 
Ops.
 
“No, no, figurati.”
“Sto infastidendo Alex, allora.” ribatte e si volta di scatto.
Avete presente quelle volte in cui ho detto che Alex faceva paura? Ecco, paura come quando incrocia lo sguardo di Adam non me l’ha mai fatta.

Passa qualcosa di silenzioso tra loro due, uno scambio che non ha voce ma che non per questo è meno intenso: vorrei intervenire, ma non so neppure come gestire un Aleman, figuriamoci due.
Adam tiene gli occhi fissi su Alex mentre torna a rivolgersi a me:
“Credo che dovresti pagare tu l’affitto finché non salda il suo debito.”
 
Che cosa?!
 
“Prego?”
“Sei la sua ragazza, no?”
“Io… Beh… sono la sua coinquilina.”
“Ma sei anche la sua ragazza o qualcosa di molto simile. Alex non ha ragazze, per cui ci deve essere una ragione se tu sei tu.”.
 
Non so se è un problema di lingua o se ad Adam manca qualche nesso logico, ma non ho assolutamente capito la sua affermazione. Il fatto è, però, che non me ne frega molto: mi interessa di più tornare al punto in cui questo stronzo pensava che chiedere alla ragazza del fratello di pagare l’affitto al posto suo fosse una buona idea. Se Alex fosse in piedi accanto a me, di certo, ora Adam avrebbe un occhio nero.
“Adam, ti prego, non prendere le mie parole come un’offesa, ma è la cosa più idiota che abbia sentito nell’ultima settimana.”
 
La mia voce potrebbe colare miele in questo istante. Quando sente il cambio di tono nelle mie parole, lui si volta improvvisamente verso di me: la conseguenza è che Alex si solleva dalla sedia, scansando in modo un po’ brutale mio fratello e dirigendosi verso di noi. Poi ci dovremo occupare anche dell’evidente problema che Alex e Michele si stanno sulle palle.

Quello dopo, però: ora occupiamoci di me e Adam che ci stiamo sulle palle. Se poi consideriamo che anche Michele e Adam potrebbero non amarsi, abbiamo fatto terno.
 
“Convincilo a chiedere aiuto ai nostri genitori.”
“Non posso farlo: è una scelta sua.”
“Pensavo volessi aiutarlo.”
“Certo che voglio aiutarlo, ma non imponendogli qualcosa.”
“Se non vuoi pagare l’affitto per lui...”
“Non posso pagare l’affitto anche per lui. Non ho un lavoro. In ogni caso, anche se potessi farlo, lui non accetterebbe mai.”.
“Allora convincilo a farsi aiutare dai miei genitori.”
 
Non ho tempo di ribattere questa volta perché Alex è più veloce di me: per la prima volta da quando lo conosco, l’inglese non ha su di me un effetto piacevole.
“I asked for your help, not theirs. You were crystal clear when you said no and now you go and ask her to help me? I don’t want her to do shit. I wanted you to step up and do something for me.”

Adam non è neppure scalfito dall’accusa che serpeggia sotto le sue parole: Alex è risentito perché Adam, invece di aiutarlo, ha spifferato tutto ai loro genitori. Ed è indignato perché ritiene inopportuno che il fratello abbia chiesto a me di aiutarlo. Sono perfettamente d’accordo: è proprio inopportuno.
Adam, però, non è neppure scalfito dall’accusa che serpeggia sotto le sue parole: passandosi una mano tra i capelli, risponde. In Italiano.
“Non posso aiutarti, lo sai.”
“Non vuoi aiutarmi, è diverso.”
“Non li ho tutti quei soldi.”
“Bullshit.”
Cacca di mucca
, dice Alex: che tradotto, vuol dire che pensa suo fratello dica stronzate.
“Sei mio fratello, è ovvio che faccia il possibile per te.”
“Cazzate. Non vuoi aiutarmi e usi lei per arrivare a me e liberarti dal senso di colpa.”.
“Alex…”
“Med, stanne fuori.”
 
Eh, ti pareva se io non ne dovevo stare fuori.
“Sei qui per una sola ragione: fammi un cazzo di contratto assicurativo sul furto e poi vattene.”
 
Io sono una di quelle persone che crede che chi fa a botte sia un vero idiota. A prescindere dalle circostanze, dalle attenuanti, dalle scuse: chi si mena è imbecille.
Inutile specificare, quindi, che quando il mio coinquilino alza un pugno bello stretto, vengo pervasa da un brivido di puro e incancellabile disgusto.
“Alex, non fare il coglione.”
“Ti ha messo al guinzaglio? Peccato non sia stata così brava anche a istruirti sulla gestione dell’orgoglio.”
“L’ho ingoiato il giorno in cui ho chiesto aiuto a te, il mio fottuto orgoglio.”

Ed è su questa piacevolissima nota che Andie interviene: per un brevissimo secondo, penso che forse questo particolare bambino potrebbe non starmi del tutto sulle palle. Saltellando come una drosophila melanogaster che svolazza sull’uva, si piazza tra suo padre e suo zio. Alza le mani verso l’alto e, a pieni polmoni, annuncia:
“Mi scappa la cacca!”
Oh, Dio del cielo benedetto. Che schifo.
“E voglio che mi ci porti…” dichiara guardando prima Adam e poi Alex “… lei!”

Lei sarei io, ovviamente. Essendo l’unica con delle ovaie nella stanza.

D’un tratto dei futili motivi di conflitto tra i due Aleman non me ne frega più nulla; perdo interesse anche verso la possibilità che Alex venga derubato di tutti i suoi risparmi. La mia mente si concentra solo su quel bambino diabolico, con la faccia da cherubino, che mi scruta come un leone di fronte a una gazzella e che vuole essere portato a fare i bisognini da me.

La mia espressione inorridita deve essere esilarante, perché anche Adam comincia a ridere al limite del soffocamento: sulla mia mortificazione, improvvisamente i due fratelli trovano l’intesa. Sghignazzano manco fossero a uno spettacolo comico e si danno pacchette sulle spalle, i dementi.

“Bambino, no.” Balbetto rivolgendomi ad Andie, “Io non ti porto da nessuna parte.”
“Allora la faccio qui.”
“Ma anche no.” Poi guardo Alex, “Ma quanti anni ha?! Non è grande per farsela addosso?”

Alex, respirando a fatica, risponde:
“La farebbe consciamente e volontariamente. Per protesta al tuo rifiuto.”
“Ma l’avete fatto vedere da un esorcista? O almeno da uno psicologo?”

Il nipote di Alex ha gravi problemi comportamentali, forse. Jules farebbe subito una diagnosi.
“Med, sto scherzando. Non se la fa addosso. Né volontariamente, né per errore. Lo dice solo per provocarti.”
“Che bambino simpatico.”
“È perché gli piaci.” interviene Adam, cercando di controllare la risata.
Andie, intanto, mi fissa compiaciuto. Non sapevo neppure che un bambino potesse fare la faccia compiaciuta.
“Come sono fortunata…” borbotto sotto voce, affrettandomi poi ad aggiungere:
“Non è grande per aver bisogno di essere accompagnato?”
“Devi solo portarlo fino al bagno e accertarti che ne esca, prima o poi. Per il resto è perfettamente autonomo!” interviene Adam, sempre sogghignando, ma mostrando quasi orgoglio.

Di cosa non lo so: parliamo di funzioni naturali, non della soluzione alla fame nel mondo. E, in ogni caso, è Andie che la sa fare: Adam non ha meriti.
“Io non lo porto a fare la cacca, Alex!”
“Perché no?” domanda il piccolo, iniziando a saltellare sul posto. Sospetto gli scappi anche altro.
“Non ci conosciamo, non è opportuno!”

E mi fa schifo. E non mi piacciono i bambini.
“Sei la fidanzata dello zio, no?” domanda Andie, come se questa cosa potesse relazionarsi alla sua richiesta e i suoi occhi cercano inquisitori il mio viso, prima di spostarsi su quello dello zio. Alex annuisce, asciugandosi le lacrime. Mentecatto.
“Allora sei la mia zia!”

Beh, ma che cazzo. Io non sono la zia proprio di nessuno.
Il mio disagio e il panico che questo bambino sta scatenando in ogni mia cellula devono essere evidenti a tutti i presenti perché, d’un tratto, Adam mostra uno spiraglio di umanità; sollevando Andie per aria e facendolo dondolare, ordina:

“Non importunare Sofia. Ti ci porto io… Oppure ti fa vedere lo zio dove sta il bagno. È casa sua.”
“Ma voi non aspettate fuori dalla porta che io abbia finito… e poi mi fate sempre lo scherzo della carta de sedere.”
“Igienica,” lo corregge Alex.
“Perché anche il nonno lo faceva a noi. È una tradizione di famiglia.”
Mentre parla, Adam si piazza Andie sotto braccio, come se fosse un pallone da football.
“Allora mi ci portate tutti e due, così la smettere di litigare.” Dice agitando i piedini. Poi, con la voce improvvisamente triste, aggiunge: “Non mi piace quando litigate.”

Quel bambino è un fottuto genio.
Adam e Alex si scambiano uno sguardo colpevole per un istante.
“Non stavamo litigando…”
“Sì, papà! Il nonno dice che solo i deboli alzano la voce con gli altri e dicono le parolacce.”.

Nella stanza cola per qualche secondo un silenzio imbarazzato: messi sotto da un bambino che deve fare i bisognini.
Mio fratello, ancora fermo accanto al bancone della cucina, è paonazzo e sta per morire dal ridere cercando di non emettere rumori, mentre le lacrime gli impiastricciano tutti gli occhi: sono circondata solo da idioti.

“Dammi il tempo di portarlo in bagno e poi parliamo, d’accordo?” domanda Adam con una voce completamente diversa da quella usata fino a poco fa.
Forse anche lo stronzo ha un punto debole: suo figlio.
“Penso ancora che ti stia comportando come uno stupido e dovresti chiedere aiuto a mamma e papà, Alex.”
“Lo so.”
“D’accordo. Arrivo subito.”

Scompare dietro la porta del bagno e Alex sospira a pieni polmoni.
“Non è stata un’idea brillante.”
“Quale? Quella di portare qui tuo fratello e tuo nipote o quella di chiedere aiuto a tuo fratello?”

Lui ammicca e, facendo schioccare un bacio sulle mie labbra, dichiara:
“Li conquisti tutti, questi Aleman. Andie era particolarmente affascinato da te e dalla tua capacità di comunicare con i bambini.”
“Che culo! Come se uno non mi bastasse…”

Potrei raccontargli quello che mi ha detto Adam, parola per parola; forse dovrei dirgli che è davvero il caso di accettare l’aiuto dei suoi genitori.
Penso, però, che questa potrebbe essere l’occasione per Adam e Alex di ritrovare un rapporto adulto tra fratelli e aiutarsi. Devo solo sperare che Adam sia molto meno merda di quello che sembra.
Devo sperare che in lui predomini il padre che ho visto comparire per qualche secondo grazie a Andie-Lucifero.

 

AN: Non posso poi dire molto, se non che tornare a scrivere questa storia dopo più di un anno è stato un miracolo in cui non speravo più da un po'. Pubblicare mi causerà indubbiamente qualche attacco di panico...
Ringrazio, in ogni caso, chiunque abbia ancora la voglia e il coraggio di essere qui, nonostante il lunghissimo tempo trascorso: grazie a chi si è fermato su questa storia, a chi l'ha commentata e a chi ha comunque continuato a crederci. Purtroppo ho provato centinaia di volte a scrivere in questi lunghi mesi e, solo dopo aver pubblicato "It's a match!" questa settimana, sono riuscita a dare una forma ai pensieri di TuttoTondo: insomma, l'assenza di aggiornamenti non era voluta e non era menefreghismo... Non pubblicare era probabilmente più molesto per me, che a questa storia tengo profondamente.
Grazie, come sempre, alla Beta Letizia, che c'è ancora. Che - benché non ricordasse se Alex lavora, come si chiama davvero Med e del Wanna make out - ha avuto la forza e la pazienza di ripulire il capitolo dalle mie porcherie e di trovare la logica dove io l'avevo perduta. Grazie perché ancora sei qui e mi sopporti.
Un grazie anche a Chiara e a Cristina che, nonostante tutto, in questi mesi hanno provato sempre a incoraggiarmi a non abbandonare del tutto la scrittura... anche se io continuavo a dire che non ci sarei più riucita.
E grazie a chi è arrivato alla fine del capitolo, a chi ancora segue tuttotondo e a chi ha creduto che prima o poi sarei tornata.


 




 




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