ISTRUZIONI PER
L’USO: 1.
Premete qui 2. Ascoltate
e piangete leggete!
Premessa.
Questa storia fa parte di una serie di racconti dedicata
alla famiglia Hawthorne, intitolata “Figli del
Giacimento”. La one-shot partecipa alla challenge “Il banco dei Prompt”
indetta da Eireen_23 con il prompt “Pianto”.
Dance
with my father.
Back when I was a child, before life
removed all the innocence
My father would lift me high
and dance with my mother and me and then
Spin me around ‘til I fell asleep
Then up the stairs he would carry me
And I knew for sure I was loved.
Dance with my father. LutherVandross
I pochi mobili sparsi della cucina sparirono per un attimo,
quando due mani ruvide e callose si posarono sugli occhi del bambino.
Gale cancellò un po’ della serietà sul suo volto e smise di
giocare con i suoi sassolini.
“Sei papà!” esclamò con un sorriso, appoggiando le dita su
quelle del signor Hawthorne. L’odore intenso dell’uomo – un miscuglio di
legna, sudore e carbone – gli solleticava le narici e finì per farlo
starnutire.
“’Sera, mascalzone!” lo apostrofò Joel, appoggiando il mento
sui suoi capelli. “Indovina che ho portato a te e a tua madre?”
“Un cervo grossissimo?” azzardò il piccolo, voltandosi verso
la madre. Hazelle indirizzò un’occhiata sospettosa al marito, un lieve sorriso
a mitigare il dubbio nel suo sguardo.
L’uomo lasciò andare il bambino e cinse la vita della
moglie, prima di baciarla.
“Nah, è qualcosa di più divertente” rivelò poi.
Frugò nella tracolla che aveva appoggiato sul tavolo e Gale
si arrampicò su una sedia per poterci sbirciare dentro.
“Spero per te che sia qualcosa che si mangia” intervenne
Hazelle, dandogli un colpetto scherzoso sulla testa.
“Siete proprio due noiosoni…” li prese in giro Joel, tirando
fuori dalla borsa un’insolita scatolina di legno. Aveva un’antenna e alcune
manopole sulla parte frontale, ricoperte da un generoso strato di polvere e
sporcizia.
“È una radio?” chiese Hazelle, sorpresa e contrariata al
tempo stesso. “Con la fatica che facciamo a mettere qualcosa in tavola la sera
ci hai comprato una radio?”
Gale sollevò a fatica l’oggetto e se lo rigirò fra le mani,
un sorriso luminoso dipinto in viso.
“Dove l’hai presa?” domandò, tirando su e giù l’antenna.
Joel gli fece l’occhiolino.
“Sulla luna; ho corso come un dannato fino allo spazio per
procurarne una a te e alla mamma” scherzò, dando una pacca compiaciuta
all’aggeggio.
Gale gli rivolse un’occhiata divertita.
“Ma guarda che io corro veloce come te!” ribatté, gonfiando
il petto.
“Ah, sì? E sapresti correre fino alla luna?”
“Fino alla luna e pure indietro!” confermò il piccolo,
continuando a giocherellare con le manopole del nuovo regalo.
Hazelle sospirò.
“Joel, non ci serve una radio” cercò di far ragionare il
marito.
“A tutti serve una radio” replicò l’uomo, prendendo in
braccio Gale. “E poi, guarda, funziona a batterie! Così possiamo usarla quando
ci pare, anche se manca la corrente” aggiunse, picchiettando con un dito sul
legno dell’aggeggio.
“E chi ce li ha i soldi per le batterie?” lo interrogò
spazientita Hazelle.
“E dai, Haze, non vuoi nemmeno sentire come funziona?”
replicò Joel, sfregandosi i capelli. “La prima batteria la offre la casa, me
l’hanno regalata direttamente in bottega.”
“In bottega sulla luna!” specificò Gale, sorridendo furbetto.
L’uomo ridacchiò.
“Proprio così, ragazzo! Sulla luna.”
Hazelle sbuffò rassegnata, prima di sedersi. Joel trafficò
con la radio per qualche istante; dopo un paio di minuti riuscì a strapparle un
ronzio irregolare.
“Funziona strana…” mormorò il bambino, esaminandola con
attenzione.
“E certo che funziona strana, l’hanno costruita sulla luna!
Senti un po’ che ti combina ora il tuo vecchio!”
Continuò a regolare le manopole fino a quando una melodia swing
non si diffuse nell’aria.
“Ta dan!” esclamò, indicando la radiolina con un gesto
elegante della mano. “Non è grandiosa?”
Il bambino annuì, ma la sua espressione era incerta: aveva
notato lo sguardo preoccupato della madre.
Joel incominciò a schioccare le dita a ritmo, sotto lo
sguardo esasperato della moglie.
“Joel…” l’ammonì Hazelle, quando l’uomo le tese la mano.
“Mi concede questo ballo, madame?” domandò il signor
Hawthorne, sorridendole malandrino.
La moglie roteò gli occhi. Riluttante, allungò la mano e si
lasciò trascinare fra le braccia di Joel, evitando per un pelo che andassero
addosso al tavolo.
Joel incominciò ad agitarle le mani, canticchiando sopra la
musica movimentata; di tanto in tanto torceva il braccio per far fare alla
moglie una giravolta.
Gale li osservava seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni
che si muovevano a ritmo. Un sorriso divertito illuminava la sua espressione
fin troppo seriosa per un bambino così piccolo.
Presto anche Hazelle si sorprese a sorridere, mentre si
lasciava andare alla musica. I suoi passi si fecero più convinti e a tempo; sia
lei che il marito scoppiarono a ridere, nel momento in cui incominciarono a
eseguire qualche passo azzardato di boogie-woogie.
“Balla anche tu, amore!” esclamò la donna dopo qualche
minuto, sorridendo al figlioletto.
Gale scosse la testa, pur continuando ad agitare le gambe.
Un’allegria energica, sconosciuta fino a quel momento, gli pulsava nel petto,
inseguendo i battiti accelerati del suo cuore.
Riprese a seguire con lo sguardo i movimenti improvvisati
dei genitori; più li osservava, più quell’insolita felicità che gli aveva
riempito il corpo da quando la musica era partita cresceva, incitata dai
sorrisi allegri dei suoi genitori, dagli occhi luccicanti di Joel e dalle
guance accese di Hazelle. Di rado a Gale era capitato di vedere i suoi genitori
così felici. Soprattutto sua madre, che continuava a ridere, il fiato corto e
i capelli spettinati.
Assorto com’era dai loro movimenti e dai loro sguardi
entusiasti, si accorse a stento del momento in cui suo padre lo prese in
braccio.
“Vediamo un po’ come se la cava con il jive questo ragazzo”
esclamò Joel, afferrando una mano del bambino. Tornò a ballare per la stanza,
facendo ondeggiare il bambino a ritmo di musica. Mentre Gale si aggrappava al collo dell’uomo venne scosso da un attacco incontrollabile di
ridarella, che ben presto contagiò anche i genitori.
Hazelle, che si era seduta per riprendere fiato, non perdeva
un movimento dei due ballerini, gli occhi colmi di quel luccichio che li
accendeva si sentiva particolarmente felice per qualcosa.
Joel continuò a ballare con suo figlio in braccio fino a
quando non furono entrambi esausti, stravolti da tutti quei giri su se stessi. Solo
a quel punto, il signor Hawthorne spense la radio. Si spostò ciondolante nella
camera da letto e si lasciò cadere sul materasso - il figlio ancora in braccio.
Quando Hazelle li raggiunse, gettandosi di fianco a loro con
una piroetta che fece ridacchiare sia il marito che Gale, Joel le circondò le
spalle con un braccio.
“Allora, che ne dici, bellezza?” le mormorò poi
all’orecchio. “Ce la teniamo la radio?”
Baciò la donna sul collo e l’ascoltò ridere compiaciuto per
l’ennesima volta.
Hazelle si lasciò andare a un sospiro rassegnato, prima di
scuotere la testa.
“Un giorno di questi ci manderai in rovina, straniero”
mormorò infine, sfiorando il volto del marito con una mano. “Ma se non altro
avremmo riso abbastanza per poter dire di essercela spassata a dovere”
concluse, sistemando qualche ciuffetto disordinato sulla fronte di Gale.
“Questa è la mia ragazza!” esclamò trionfante Joel,
sollevando un pugno per aria.
Chinò poi lo sguardo per osservare il figlioletto, che si
stava sforzando di resistere al sonno, le palpebre già abbassate per metà.
“Come va, ragazzo?” sussurrò con dolcezza Joel. “Ti sei
divertito stasera?”
Il bambino annuì.
“Balliamo anche domani?” chiese poi, lasciandosi sfuggire
uno sbadiglio.
“Domani forse no” fu costretto a rispondere il padre,
posandogli una mano con la testa. “Le pile che mi hanno dato non durano un
granché. Ma un giorno o l’altro balleremo di nuovo, te lo prometto.”
Gale annuì ancora, questa volta in maniera appena
percettibile. Si stropicciò un occhio con il dorso di una mano e serrò le
palpebre, appoggiandosi al petto del padre.
“Buonanotte, Gale” gli sussurrò la madre in un orecchio,
afferrandogli le dita per posarci sopra un bacio.
“Notte, ragazzo” le fece eco Joel, scompigliandogli i
capelli. “Ti voglio bene.”
“Bene quanto?” sussurrò il bambino, in un ultimo sforzo di
restare sveglio.
Il padre sorrise.
“Quanto? Beh, fino alla luna e al ritorno. Dici che può
bastare?”
Il bambino non rispose: i suoi occhi si erano chiusi del
tutto e l’unico movimento che animava il suo corpo era quello del petto che si
sollevava regolarmente, indice di un sogno tranquillo.
“Credo che gli basti” confermò per lui Hazelle, allungandosi
per poter guardare il marito negli occhi. “E
basta anche a me.”
***
If I could get another chance, another
walk, another dance with him
I’d play a song that would never, ever
end
How I’d love, love, love
To dance with my father again.
L’adolescente si guardò attorno per la seconda volta, in
cerca di qualche oggetto che non aveva ancora notato. Nel giro di poche
settimane aveva venduto di tutto – da un bauletto di legno tarlato a qualche
reazione di cereali ottenuta grazie alle tessere – ma non era ancora
soddisfatto del ricavato. Voleva dar via ogni cosa non indispensabile finché ne
aveva il coraggio, perché sapeva che prima o poi avrebbe ceduto alla nostalgia.
Perché gran parte degli oggetti che aveva dato via erano appartenuti a suo
padre e se non servivano più era solo perché lui se n’era andato. Gale
aveva impiegato qualche mese a convincersi, prima di dare via quel poco che gli
era rimasto di Joel Hawthorne e ora che finalmente ce la stava facendo non
voleva arrendersi.
Soffiò sul sottile strato di carbone che ricopriva lo
specchio sopra la cassettiera, quello che il padre un tempo usava per farsi la
barba, e ci passò sopra un polpastrello.
Il suo sguardo, a quel punto, ricadde sull’unico oggetto
posato sulla cassettiera. Istintivamente Gale distolse gli occhi dalla radio,
ma pochi minuti dopo tornò a fissarla, una maschera di dolore e decisione a
coprirgli il volto. Per mesi aveva cercato di rimandarne la vendita: sapeva
quanto, in passato, aveva significato per suo padre e quanto ancora oggi
significasse per Hazelle. Tuttavia, sia lui che la madre sapevano che una radio
ancora in buone condizioni come quella avrebbe potuto fruttar loro diversi
soldi. Avrebbe permesso a Vick di ottenere una piccola scorta di medicine per
la sua bronchite cronica. Avrebbe fruttato qualche abito da neonata per la
piccola Posy.
Era sul punto di sollevare l’oggetto per metterlo nella
bisaccia, quando Hazelle entrò in cucina. Gale si irrigidì e diede le
spalle allo specchio, sforzandosi di fingere noncuranza.
“Stai andando al Forno?” mormorò la madre, cullando
un’addormentata Posy. Il suo sguardo stanco indugiò sulla bisaccia del figlio,
prima di spostarsi oltre. La tristezza le velò gli occhi, non
appena le sue iridi si adagiarono sulla cassettiera.
Gale scosse la testa.
“Ci ho pensato, ma poi ho deciso di lasciar perdere. Ormai,
tutto quello che potevamo vendere l’abbiamo dato via” mentì, raccogliendo da
terra uno dei soldatini di plastica di Vick.
Lo sguardo in tralice di Hazelle incominciò a inumidirsi. La
donna raggiunse la cassettiera e posò una mano sulla vecchia radio di legno. Un
sorriso malinconico le piegò le labbra, mentre con dita un po’ tremanti, screpolate
dal troppo tempo trascorso in acqua, accarezzava l’oggetto.
“Mi ricordo ancora bene il giorno in cui Joel è tornato a
casa con questa” mormorò. “All’inizio ero furiosa con lui, ma non si poteva
restare arrabbiati con tuo padre troppo a lungo. Quella sera abbiamo riso
talmente tanto che alla fine avevo un gran mal di testa. Eravamo così presi che
abbiamo persino dimenticato di cenare” aggiunse, scuotendo la testa.
Gale la raggiunse, un po’ esitante: incominciava a intuire
dove sarebbe andato a parare quel discorso. Hazelle gli sorrise, ignorando le
guance umide di lacrime.
“Tu eri così piccolo…” aggiunse, infilando un dito nella
manina rossa di Posy. La bambina, ancora addormentata, agitò appena la testa.
“Non dobbiamo venderla per forza” intervenne a quel punto
Gale, posando una mano sulla spalla della donna. “Abbiamo ancora dei soldi da
parte, ci basteranno per un bel po’.”
“Magari ce la caveremo per un mese o due, ma prima o poi ci
troveremo di nuovo di fronte alla cassettiera, a parlare di cosa tenere e cosa
dare via” replicò Hazelle, riprendendo a cullare Posy. “E non penso che
riuscirò a sostenere di nuovo questa conversazione.”
“C’è sempre la caccia” cercò di rassicurarla Gale,
accorciando l’antenna della radio. “Forse riusciremo a farcela bastare: quella,
il tuo lavoro e le razioni di cibo delle tessere.”
“Possono bastare nelle stagioni calde, ma non in inverno: la
selvaggina scarseggia e Vick ha sempre bisogno di medicine” gli ricordò la
donna. Con un sospiro, sollevò la radiolina e la strinse a sé. Infine, la porse
al figlio maggiore.
“Vendila adesso, finché ce la faccio” concluse con
decisione. “Portala via ora, prima che cambi idea.”
Il ragazzo inspirò con forza, prima di infilare la radio
nella bisaccia. Uscì in fretta, quasi credesse che prima fosse riuscito a
liberarsi di quel vecchio ricordo di suo padre, prima si sarebbe sentito
meglio.
Una mezzora più tardi, mentre la radio passava dalla sua
mano a quella raggrinzita e avida di un contrabbandiere al Forno, Gale venne
attraversato dal fugace pensiero di riprendersela e scappare; i soldi in una
mano, e suo padre nell’altra, al riparo nell’unico posto in cui avrebbe dovuto
trovarsi.
Scacciò quell’impulso e rivolse un brusco cenno del capo
all’uomo, ignorando la sua mano tesa per suggellare l’affare.
“Nient’altro che ti interessi, giovanotto?” domandò affabile
l’anziano venditore, esibendo una fila di denti sbeccati.
Gale lo scrutò impassibile, le mascelle serrate per il
nervosismo.
L’unica cosa che gli interessava in quel momento era il
ricordo che gli aveva tormentato la testa per tutto il giorno; un ronzio
irregolare e la melodia gracchiante di una radio. I passi goffi di un uomo che
si faceva beffe dei morsi della fame, troppo impegnato a far ridere sua moglie
e suo figlio. Un padre che, Gale lo sapeva, se solo avesse potuto sarebbe corso
fino alla luna per far felice la sua famiglia.
“Nulla che lei possa darmi” concluse secco, dandogli le
spalle. Uscì a grandi falcate dal negozio, i pugni serrati e una vecchia
melodia swing a ronzargli nel petto.
In lontananza, fra i suoi pensieri, la risata spensierata di
sua madre.
Solo che, questa volta, ricordava più un pianto.
***
Sometimes I’d listen outside her door
And I’d hear how my mother cried for him
I pray for her even more than me
Quando Gale rincasò, venne accolto dal piacevole crepitio
del fuoco nel camino. Appoggiò la bisaccia di fianco alla catasta di legna e si
chinò sulla culla di Posy che qualcuno aveva spostato in cucina per tenere la
bimba al caldo. La neonata dormiva ancora, i pugni paffuti stretti vicino alla
testolina già piena di ciuffetti neri. Gale le baciò una manina, prima di
sistemarla sotto il lenzuolo.
Il contatto con la sorellina, così piccola e stranamente
tranquilla, l’aiutò a rilassarsi. Fece per posare il cappotto sulla
cassettiera, ma quando raggiunse l’angolo della stanza vicino alla camera da
letto venne bloccato da due paia di sguardi irrequieti.
Vick e Rory erano in piedi, appoggiati con la schiena alla
porta della stanza, simili a due guardie del corpo.
Gale squadrò entrambi confuso, fino a quando non udì un
singhiozzo provenire dalla camera da letto.
La sorpresa incominciò a tramutarsi in qualcosa di più
pesante: senso di colpa.
“La mamma piange” mormorò tutto a un tratto Vick,
confermando le sue impressioni. Notò che il piccolo aveva il moccio al naso e
gli occhi arrossati dal pianto. “Non riusciamo a farla smettere” spiegò,
stropicciandosi le guance bagnate dalle lacrime.
“Prima abbiamo provato a dare il biberon a Posy” spiegò a
quel punto Rory, tamburellando con le dita sul legno della porta: un tic che
aveva ereditato dal padre. “Le abbiamo sporcato un po’ la tutina, ma proprio
poco, eh? Tipo una macchiolina grossa così. Secondo te è per questo che la
mamma piange?”
Gale si inginocchiò di fronte a loro e scosse la testa.
“Voi non c’entrate niente” li rassicurò.
Non avrebbe dovuto venderla, pensò fra sé, serrando la
mascella. Non avrebbe dovuto credere alle parole di sua madre; era evidente che
dar via un pezzo così importante del padre l’avrebbe ferita molto.
“Piange perché gli manca papà, vero?” chiese Vick, tirando
su col naso. Era avvolto fino alle ginocchia in un vecchio maglione del padre, quello
che l’uomo gli aveva regalato un paio di anni prima. “Prima mi ha
abbracciato forte forte e ha messo la testa nella mia maglia come faccio io,
quando voglio sentire il mio papà. Così” aggiunse, affondando il naso nel
tessuto della sua felpa, per inspirarne l’odore.
“Vedrai che le passerà” rispose Gale, recuperando un
fazzoletto dalla cesta del bucato per soffiare il naso al fratellino. Vick lo
lasciò fare, ma una volta pulito riprese a singhiozzare, stropicciandosi gli
occhi con i pugni foderati dalla felpa.
“Voglio papà!” piagnucolò, aggrappandosi al torace di Gale.
Rory incominciò a camminare avanti e indietro per la cucina,
scuotendo impensierito la testa. Anche i suoi occhi sembravano umidi, ma il
ragazzino continuava a strofinarseli con il polso per nascondere il pianto,
chinandosi per non farsi vedere dai fratelli.
“Devo farla sorridere, devo farla sorridere…” si mise a
cantilenare all’improvviso. “Devo farla sorridere, devo farla sorridere.
Magari provo a dire una barzelletta, eh?” chiese, cercando aiuto nello sguardo
del fratello.
Gale non rispose. La sua attenzione era impregnata dei
singhiozzi soffocati di sua madre e in lui non c’era spazio per nient’altro, né
nessun altro.
Si sentì un bambino, tutto a un tratto. Un uomo mancato, un
capo-famiglia che non riusciva nemmeno a prendersi cura della madre e che aveva in qualche modo causato il suo pianto. Strinse più forte i pugni, affondando le
unghie nella carne, mentre Vick gli bagnava la maglia con le sue lacrime e Rory
lo irritava con la sua cantilena nervosa.
“Devo farla sorridere, devo farla sorridere…” continuò a
ripetere il secondogenito di casa, che detestava vedere i familiari soffrire.
L’idea giunse a Gale da distante: qualcosa in profondità
dentro di lui si mosse, riportando in superficie il vecchio ricordo che l’aveva
torturato e consolato al tempo stesso quel pomeriggio.
“Balla con lei” propose con voce rauca, indebolita dal
freddo che aveva preso quel giorno.
Rory smise di camminare avanti e indietro e gli rivolse
un’occhiata interrogativa.
“Che?”
“Balla con lei” ripeté per lui Vick, asciugandosi il volto
con la felpa di Gale. Un debole sorriso rallegrò il suo volto stravolto dal
pianto. “Come faceva il papà con me, Scacco.
Ti ricordi?”
Lo sguardo di Rory si fece più vispo.
“E con me” aggiunse, intrecciando le dita dietro la nuca.
E con me, avrebbe voluto aggiungere Gale,
liberandosi di quell’espressione disillusa.
“E con la mamma, anche!” proseguì Rory, guardando
istintivamente in direzione della cassettiera. Il suo sguardo si fece confuso,
nel momento in cui si accorse che la vecchia radio del padre non si trovava più
al suo posto.
Lo smarrimento del bambino, tuttavia, durò poco. Con una
rinnovata determinazione nello sguardo, Rory bussò alla porta della camera da
letto: i singhiozzi cessarono di scatto.
“Posso entrare, ma’?”
Socchiuse la porta e s’intrufolò nella stanza prima che
arrivasse la risposta.
In un silenzio intervallato solo da Vick, che tirava su col
naso, Gale cercò di captare qualcosa del dialogo fra Rory e sua madre, ma riuscì a stento
a comprenderne qualche parola, perché entrambi parlavano a bassa voce.
Un paio di minuti più tardi, la conversazione si fece più
comprensibile.
“Ho detto di no, Rory” stava rispondendo Hazelle, la voce rotta, ma munita
della solita nota di decisione.
“E dai, mamma!” la supplicò il figlio, trascinando le
parole con fare cantilenoso. “Solo cinque minuti!”
“Ti prego, tesoro, basta così” lo ammonì supplichevole la
donna. “Devo andare a preparare la cena. Sai se tuo fratello è già tornato?”
Rory non desistette.
Incominciò a mugolare una musichetta da circo che Vick,
dall’altra parte della porta, trovò molto divertente. Scoppiò a ridere, ma si
zittì in fretta per poter ascoltare il resto della conversazione.
“Vediamo un po’ come se la cava con il jive questa
ragazza!” esclamò ancora Rory, imitando il tono bonario del padre.
La risata sottile di Hazelle, seppur breve, alleggerì la
cappa di tristezza che aveva avvolto la casa.
“Vai col colpo di tacco! E adesso una bella sederata, oh, yeah!”
Rory continuava a blaterare esortazioni ridicole che
incominciarono a far sorridere anche i due fratelli.
Alla seconda risata di Hazelle, Vick non resistette più e si
fiondò in camera, seguito a qualche passo di distanza da un più cauto Gale.
Trovarono Rory intento a girare su se stesso, le mani
saldamente aggrappate a quelle della madre. Hazelle aveva ancora il volto
arrossato e gli occhi umidi, ma un lieve sorriso aveva attecchito sulle sue
labbra e sembrava incurvarsi più a fondo a ogni giravolta o frase strampalata del
figlioletto.
Vick incominciò a ridere a crepapelle, istigato
dall’esuberanza di Rory. Si aggrappò ai pantaloni di Gale per non cadere e, nel
guardarlo, il primogenito di casa non riuscì a trattenere un sorriso.
“Vai a ballare anche tu” lo esortò, dandogli un buffetto
dietro la testa.
Vick si mise a ridere e nascose il volto nella maglia del
fratello, scuotendo la testa.
Quell’immagine spinse un tasto nella mente di Gale, obbligandolo
a rivivere un momento simile, a intravedere l’immagine di qualcosa che
somigliava a quel momento.
D’istinto, afferrò il fratellino e se lo mise a spalle.
Incominciò a muoversi per la stanza, minacciando, di tanto in tanto, di farlo
cadere.
Vick agitò le braccia al ritmo di una musica immaginaria,
cercando di imitare i movimenti del fratello di mezzo.
“Questo è il mio ragazzo!” si congratulò con lui Rory,
indicandolo. “Vai così! Noi Hawthorne non abbiamo bisogno di vera musica per
ballare, ce la facciamo noi!”
Aveva pronunciato quelle parole ingenuamente, trasportato
dal suo momento di esuberanza, ma per Hazelle assunsero un significato
particolare. La donna baciò il figlio sulla fronte prima di stringerlo a sé, le
guance nuovamente umide di pianto.
Guardò poi Gale che ricambiò con occhi asciutti, ma lucidi
di nostalgia e quella rabbia che si portava dentro sin da quando aveva perso il
padre.
“Rory ha ragione” mormorò a quel punto la donna,
accarezzando una guancia del suo primogenito. “Possiamo farcela anche senza
musica, non ci serve altro.”
“Però ci manca papà” osservò Vick con sguardo smarrito.
Tutto a un tratto sembrava sul punto di riprendere a piangere.
Hazelle baciò anche a lui e se lo fece passare per
stringerlo a sé.
“Papà è qui” mormorò poi, battendo due volte sul petto del
bambino.
“Nella maglia?” chiese il piccolo, tirando su col naso.
Rory roteò gli occhi.
“Ma no, stupidone!” lo prese poi in giro, mettendosi a
braccia conserte. “Nel cuore!”
Vick si premette una mano sul petto e annuì, prima di strofinarsi
il naso sporco su una manica.
“E che sta facendo adesso, papà?” chiese, indirizzando
un’occhiata incuriosita a Gale. “Sta cacciando?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle.
“Secondo me sta ballando” osservò con dolcezza Hazelle,
appoggiando il mento ai suoi capelli. “E si fa un sacco di risate guardandoci
girare come pazzi per la stanza.”
“Ehi!” protestò Rory, mettendosi a braccia conserte. “Guarda
che io ballo benissimo!”
“E io di più” ribatté Vick, annuendo convinto.
“Macché, io di più.”
“Io di più!”
“Facciamo che la più brava è la mamma!”
“Che cosa ne dite di una sfida? Il primo che arriva ad
apparecchiare la tavola riceverà il titolo di miglior ballerino in casa
Hawthorne” propose Hazelle.
Rory e Vick si scambiarono una rapida occhiata complice, prima
di fiondarsi in cucina per recuperare le stoviglie.
Hazelle rise; si passò il dorso della mano sulle guance
ancora umide e rivolse un’occhiata apprensiva al primogenito.
“Hai una brutta cera” osservò, accarezzandogli il viso.
“Forse hai preso freddo uscendo fuori con questo tempaccio. Come ti senti?”
Gale si passò una mano fra i capelli e sospirò.
“Piccolo” ammise infine, distogliendo lo sguardo. “Non so se
posso farcela a essere come papà. Lui sapeva fare tutto. Lavorava in miniera
fino a tardi, procurava da mangiare e riusciva anche a trovare del tempo per
farci ridere. Mentre io…”
Serrò i pugni, stuzzicato dal nervosismo.
“… Io quello non lo so fare. Non so prendermi cura di voi
come faceva lui.”
“E invece sì” lo rassicurò la donna, accarezzandogli i
capelli. “Quando ti guardo mi sembra di vederlo, sai? Ogni singola volta. E poi
non devi pensare di essere solo a capo di tutto, Gale. Sono io la mamma”
precisò, sollevandogli il mento. “Sono io che mi devo prendere cura di voi. Non
tu.”
Il ragazzo non sembrava convinto. Si sedette, permettendo
finalmente alla stanchezza di appoggiarsi alle sue palpebre.
“Lo vorrei qui” ammise infine, indurendo lo sguardo; dalla
cucina provenivano i battibecchi dei due fratelli minori. “Solo lui riusciva a
farti dimenticare perfino la fame, quando ballavate. In quei momenti eri davvero
felice, mamma.”
La donna si sedette accanto a lui.
“Torneremo a sentirci di nuovo come in quei momenti, Gale”
promise, tornando ad accarezzargli i capelli. “So che adesso è difficile
crederlo e so anche che non sarà mai più la stessa cosa senza papà, ma vedrai
che col tempo ce la faremo.”
Il ragazzo scosse la testa.
“Non mi sembra possibile” ammise, stringendosi nelle spalle.
La donna annuì.
“Lo so, ma ci crederò io anche per te. Così come faceva papà
con me.”
Lo baciò sulla guancia e si alzò per raggiungere i figli più
piccoli in cucina.
“Ti voglio bene” mormorò, voltandosi un’ultima volta verso
il ragazzo. “Fino alla luna e al ritorno” aggiunse con un occhiolino, prima di
scomparire nella stanza a fianco.
Un lieve sorriso amaro corse ad arrampicarsi sulle labbra del
quattordicenne. I suoi occhi si fecero lucidi, ma il momento di debolezza durò
meno di un soffio; un paio di minuti più tardi era di nuovo in cucina, fermo e
serioso come l’uomo di casa che si era ripromesso di essere.
I know I’m praying for much too much
But could you send back the only man she
loved
I know you don’t do it usually
But dear Lord she’s dying
To dance with my father again
La notte, dacché Gale aveva memoria,
aveva sempre funto da anestetizzante per i suoi fratelli più piccoli. La
vivacità di Rory si spegneva nel momento esatto in cui il ragazzino si infilava
sotto le coperte e le paure di Vick abbassavano la voce, per permettergli di
addormentarsi.
Quella sera era toccato a lui mettere a
letto i due bambini. Rory era crollato subito, esausto per via dell’euforia che
l’aveva colto nel pomeriggio. Vick era altrettanto stanco, ma qualcosa lo
tratteneva dal cascare nel sonno e i suoi occhi si riaprivano di continuo,
decisi a non mollare.
“Gale?” sussurrò il bambino, mentre il
fratello più grande si infilava a sua volta il pigiama.
“Che c’è?”
“È stato bello oggi, quando mi hai preso a
spalle” ammise, sfregandosi gli occhi. “Un po’ mi è sembrato che eri papà, però
lui profuma diverso. Profuma di papà.”
Gale non rispose; indossò la maglietta e
s’infilò sotto le coperte, rabbrividendo al contatto col lenzuolo freddo.
“È vero che la mamma è bellissima
quando sorride?” continuò a parlare Vick, dopo aver fatto un paio di sbadigli.
“Già.”
“La facciamo sorridere anche domani? Non
mi piace quando piange. Papà diceva sempre che non si piange.”
“Non si piange” confermò Gale, in tono di
voce atono. La frase carica di sofferenza che il padre gli rivolgeva ogni
volta che lo vedeva con gli occhi lucidi da bambino gli accarezzò la mente.
“Gale?”
“Che cosa c’è, Vick?”
“Lo so che papà si è messo nel mio cuore.
Però quando dormo non ci può restare, altrimenti io mi giro a pancia sotto e lo
schiaccio. Secondo te dove sta, quando non è qui?”
La domanda del fratellino lo fece
sorridere, nonostante l’improvviso fiotto di malinconia.
“Magari è sulla luna” azzardò, una punta
di amarezza nel tono di voce. “Lì di miniere non ce ne sono.”
A Vick quell’idea piacque.
“E balla jive?” chiese ancora, la voce
impastata dal sonno.
“E balla jive” confermò il fratello,
intrecciando le dita dietro la nuca. “Adesso dormi, però.”
Vick annuì. Chiuse gli occhi e si girò
dall’altra parte, una mano avvolta nel maglione del padre. Cinque minuti più
tardi dormiva profondamente, appoggiato alla schiena di Rory.
Quella notte Gale si rigirò più volte sul
materasso, troppo occupato a riflettere per riuscire a prendere sonno. Quando
finalmente ci riuscì, la sua mente era ancora aggrappata al ricordo che aveva
echeggiato in lui tutto il giorno.
Nel sogno, in sottofondo, un ronzio
irregolare lasciava il posto a una melodia jive. Gale rivide suo padre e
percepì il suo odore forte, da uomo e lavoratore, mentre le sue braccia lo
stringevano a sé, facendolo ondeggiare per la stanza. Ricordò sua madre che
rideva, le guance rosse per il troppo ballare e non per il pianto, e la
sensazione di una felicità piena che aveva provato solo da piccolo e che ormai
non avrebbe più potuto sentire. Non ora che non c’era più una radio su cui
ballare, un padre con cui ridere e sentirsi al sicuro. Una speranza a cui
aggrapparsi per convincersi che si poteva perfino viaggiare nello spazio, se amavi
così tanto qualcuno da volerlo fare per lui.
E mentre la musica del suo sogno lo
cullava, richiudendolo nel bozzolo protettivo del bambino di quattro anni che
era un tempo, la prima lacrima della giornata riuscì a farsi strada lungo il
suo zigomo.
Piangeva senza rendersene conto, perché
d’un tratto aveva capito che suo padre non avrebbe mai ballato con la piccola
Posy, né con i suoi nipoti, in un giorno lontano.
Piangeva in sogno, perché era stato
costretto a diventare uomo a tredici anni e sapeva che da sveglio non avrebbe
più potuto farlo.
Piangeva, perché stava già incominciando
a dimenticare quante manopole avesse la radio di suo padre.
E perché la luna, ormai lo sapeva, era
troppo lontana.
Every night I fall asleep and this is all
I ever dream
Dance with my father. LutherVandross
Note finali.
Lo so, lo so. Alla
fine concludo sempre per scrivere le stesse cose! La scena di Gale che deve
vendere qualche vecchio oggetto del padre ricorda tantissimo Say Something
e la parte con Hazelle richiama un sacco a Piccoli Uomini.
È che in fondo non sappiamo proprio nulla del periodo che precede il primo
libro e mi piace cercare di immaginare come possano essere andate le cose per
Gale e famiglia.
Joel è il nome che
ho scelto per Mr. Hawthorne quando ho incominciato a scrivere racconti dedicati
a questa famiglia.
Gale in questa
storia, come in Say Something, è più “soft” del solito, proprio perché è
passato ancora così poco tempo dalla morte del padre ed è ancora in lutto. Tra
l’altro stando ai miei calcoli traballanti qui deve aver appena compiuto
quattordici anni, quindi è abbastanza piccino, ancora. Nella prima scena,
invece, è ancora batuffoloso perché ha quattro anni o giù di lì.
Rory qui è il
solito pupazzotto che adora far sorridere le persone a cui vuole bene (ma non
ha ancora l’aria da sbruffoncello che metterà su crescendo) e Vick non è ancora
il piccolo Buddah saggio che diventerà nel mio head-canon xD è piccino, fragile
e un po’ piagnucolone.
Grazie mille a
chiunque sia riuscito a leggere tutta questa storia. Era da tantissimo che non
scrivevo una one-shot di una certa lunghezza e non è uscita come volevo, ma al
tempo stesso ci tengo in maniera particolare perché la canzone che l’ha
ispirata l’amo molto.
Spero tanto di poter leggere un
vostro parere, se siete stati così valorosi da leggere fino alla fine **
Un abbraccio!
Laura