The Other One
H.
W. H.
La
giovane Holmes si svegliò molto presto, non fece colazione,
non
salutò Mycroft e uscì nei panni di se stessa.
Arrivò al 221B di Baker Street a bordo dei suoi rollerblade
scuri, un mezzo di trasporto meno comodo di un taxi, ma più
funzionale nel traffico di città e sicuramente
più
divertente del banale e comune jogging. Con un gesto sicuro
azionò il meccanismo delle rotelle a scomparsa, potendo
così salire senza alcuna difficoltà gli scalini
antistanti il
portone d'ingresso dal batacchio perennemente storto salvo intervento
di Mycroft.
Si imbatté subito in Mrs Hudson e si fermò con
piacere a salutarla. Quella donna le piaceva.
«Buongiorno
cara», fece lei gentilmente. «Hai già fatto colazione? Ho
appena sfornato dei deliziosi cookies... Una ricetta molto
speciale!».
Qualcosa nel tono di voce ricco di entusiasmo suggerì alla
giovane donna che tra gli ingredienti di quei biscotti ci fosse
qualcosa di non propriamente legale, qualcosa di speciale appunto. Del
resto chi se non un tipo come la signora Hudson sarebbe stata disposta
ad ospitare uno come suo fratello Sherlock?
«Magari
più tardi», rispose con cortesia ed un sorriso. La
ringraziò e fece per salire, ma la voce della padrona di
casa richiamò nuovamente la sua attenzione.
«Sei qui
per Sherlock? Oh, lui non è...».
Prima che potesse terminare la frase, la gemella Holmes intervenne.
«Proverò lo stesso ad aspettarlo di
sopra», mormorò e si diresse decisa al piano
superiore.
«Ti
conservo una manciata di quei biscotti!», esclamò
allegra.
John Watson uscì dalla sua camera da letto sbadigliando
rumorosamente e si diresse in cucina grattandosi distrattamente la
testa. Non si rese subito conto che il té era stato
preparato e
tenuto in caldo nell'apposita teiera, pronto per essere servito, ma
quando mise a fuoco la strana realtà dei fatti - strana
perché il suo coinquilino non era davvero il tipo che si
esibiva
in simili cortesie a meno che non avesse qualcosa da farsi perdonare o
da chiedere in favore - si voltò istintivamente verso le due
poltrone, sistemate come al solito l'una di fronte all'altra con la
propria
che dava le spalle alla cucina. Fu allora che incappò nel
secondo fatto strano della giornata per lui appena cominciata: una
testa ricciuta occupava proprio la sua poltrona. C'era,
però,
qualcosa di sbagliato in quella scena, qualcosa che aveva a che fare
con le proporzioni, qualcosa che John non era in grado di determinare
correttamente di prima mattina, con i neuroni ancora mezzi tramortiti e
senza aver assunto almeno una dose di caffeina.
«Sherlock...?», domandò istintivamente.
«Ben
svegliato, John», fece lei alzandosi.
Un
inebetito John Watson la guardò per un minuto buono prima di
riuscire a rimettere definitivamente in moto il cervello. L'aveva
riconosciuta subito, naturalmente, solo non si aspettava di trovarsela
in casa dal momento che, fino a prova contraria, la gemella di Sherlock
abitava con Mycroft.
«Accidenti...
sei tu. Buongiorno...», le rispose infine in evidente
imbarazzo, lasciando la frase in sospeso.
«Hortensia.
Serviti pure, non è molto che ho tolto il té dal
fuoco», disse in tono neutro come neutra era l'espressione
sul
suo viso.
«Che...
Come hai detto?».
«La
colazione. Hai un evidente bisogno di zuccheri», rispose con naturalezza, fingendo di non aver
notato lo stupore negli occhi del medico.
«No...
Intendevo... Hortensia?», e la indicò nel
tentativo di
fare la corretta associazione mentale per quanto gli sembrasse assurdo
che dalla sera alla mattina la gemella di Sherlock piombasse in Baker
Street e si confidasse con lui senza un apparente motivo. Ed ecco che
John ebbe l'illuminazione: gli Holmes non facevano mai nulla senza un
reale motivo, che non sempre era un buon motivo.
«Hortensia
Holmes. È il mio nome».
E intendeva dire "quello vero". Non l'aveva espresso ad alta voce, ma
John sentiva che era così. D'altra parte anni trascorsi
accanto
a Sherlock dovevano pur avergli insegnato qualcosa su quella stramba
specie forse-umana-oppure-forse-no catalogabile sotto il nome Holmes.
John Watson era sveglio da pochi minuti e si era visto coinvolto in ben
tre stramberie holmesiane: la giornata non prometteva niente di buono.
Hortensia
approfittò di un
momento di distrazione di Irene per portarsi un fazzoletto alla bocca e
vaporizzare il narcotico che teneva in borsa per qualunque evenienza.
La Donna le rivolse uno sguardo sconvolto - come di chi è
stato
tradito dalla persona più improbabile - prima di cadere,
profondamente addormentata, sull'ampio letto matrimoniale. La Holmes
era certa che la Donna non le avrebbe tenuto il muso troppo a lungo per
quel tiro mancino: lei stessa aveva tentato di giocargliene diversi nel
corso della loro inusuale frequentazione.
In passato, Hortensia
aveva perfino
assecondato i giochi di Irene posando completamente nuda per lei senza
mai esserlo veramente, - non si sarebbe privata delle lenti a contatto
marroni per niente al mondo - lasciandosi fotografare per
un personalissimo calendario sexy che la donna aveva appeso in bella
mostra nella stanza da letto della sua abitazione dell'epoca, la stessa
in cui avevano messo piede Sherlock e John la prima volta che l'avevano
incontrata. Quel giorno, però, la missione della gemella di
Sherlock aveva faccende più importanti da sbrigare.
Setacciò a
fondo la stanza
della Adler fino a trovare il misterioso biglietto scritto, ne era
certa, da suo fratello al fine di ottenere informazioni su di lei. Fu
in quel preciso istante che elaborò il piano di vendetta nei
suoi confronti.
Prima di
andarsene si
colorò le labbra con il rossetto di Irene, le
lasciò un
"Ti bacio... Un'altra volta" sull'enorme specchio che usava per
truccarsi e infine le stampò sulla guancia la perfetta
riproduzione, in tonalità rubino, della propria bocca.
La giovane Holmes si rigirò tra le dita un biglietto
piuttosto
sgualcito - segno che il precedente proprietario doveva averlo letto e
riletto diverse volte portandolo, con ogni probabilità,
sempre
con sé - prima di posarlo delicatamente sul basso
tavolinetto
tra le
due poltrone.
«Sherlock
sarà molto felice di conoscere il mio nome»,
mormorò lasciando spazio ad un mucchio di sottintesi.
John pensò che la ragazza avesse ragione dato che tutto
ciò che la riguardava era diventato per Sherlock una malsana
ossessione che lo spingeva ad immergersi in lunghe riflessioni
silenziose alternate a picchi d'ira e frustrazione, digitazione
frenetica di messaggi indirizzati a solo Dio sa chi e cerotti alla
nicotina. Quindi il dottore pensò che forse sarebbe stato
consono invitare Hortensia a fermarsi e provare a intrattenere una
conversazione con lei fino al ritorno di Sherlock il quale, era ormai
evidente, non si trovava in quell'appartamento da prima che la donna vi
arrivasse. Per un momento John si sentì nuovamente in preda
all'impaccio perché lei era stata in casa mentre lui dormiva
e, sebbene
Hortensia non avesse bisogno di un invito e sembrasse a proprio agio in
quell'appartamento, gli parve che la situazione avesse un che di
imbarazzante. Infine decise che sentirsi continuamente fuori luogo
quando
aveva a che fare con un Holmes che non fosse Sherlock non gli rendeva
giustizia, perciò dirottò i propri pensieri
indietro alla
questione principale, ovvero la rivelazione da parte di Hortensia del
proprio nome. A quel punto si accorse di aver già formulato
un'ipotesi in merito e si diede dello sciocco per essersi lasciato
distrarre; si ripeté che non poteva affatto essere un caso
se la
gemella aveva parlato in sua presenza chiamando poi in causa Sherlock:
se voleva metterlo a conoscenza del proprio nome perché non
l'aveva detto direttamente a lui?
Watson comprese e le sue labbra formarono
una O. Sembrava un bambino che assisteva allo spettacolo di un
illusionista o un adulto cui veniva svelata una verità
sconvolgente.
«Io
non... No», balbettò sollevando entrambe le mani
dinanzi a
sé volendo estraniarsi completamente dalla questione.
Lei sorrise e lui ebbe un sussulto impercettibile.
«Certo
che lo farai. E ti assicurerai anche che nessuno che non sia lui tocchi
questo biglietto, te compreso». Detto ciò lo
oltrepassò, recuperò quella che certamente era la
sua
tazza, la riempì e tornò indietro per
porgergliela
gentilmente in un'innegabile offerta di pace.
«Non
puoi usarmi come un burattino per le tue faccende in sospeso con
lui». Era più semplice replicare degnamente se
quell'affascinante donna non si trovava a qualche centimetro da lui. «Grazie», aggiunse accettando
di buon grado la tazza fumante. Preferì non domandarsi come avesse
fatto a indovinare proprio quella che usava ogni mattina, tra le altre.
Improvvisamente determinato, l'ex soldato John Watson si mise sulla
difensiva e guardò Hortensia dritto negli occhi.
Pessima mossa.
Lei si fece più vicina e quegli occhi quasi color ghiaccio,
così familiari, così irresistibili e fin troppo
simili a
quelli di Sherlock, confusero John rendendolo più
vulnerabile
che mai.
Hortensia sapeva quel che faceva e non intendeva esattamente sfruttare
John o prendersi gioco di lui che chiaramente era il miglior amico di
suo fratello, anche se lei - e non era la sola - era convinta che fosse
un rapporto molto più complesso di un'amicizia profonda il
loro.
Trovarsi ad un soffio dalla bocca della versione femminile di Sherlock
non era di alcun aiuto a John mentre tentava di non perdere
completamente il controllo della situazione. Del resto si era abituato
ad aspettarsi di tutto dagli Holmes, - era davvero necessario ricordare
a se stesso di quando Sherlock aveva iniziato una relazione con Janine
soltanto per arrivare a Magnussen? O ancora di quando aveva sparato a
quest'ultimo rischiando di essere mandato lontano da Londra e
dall'Inghilterra? O di quando aveva inscenato la sua morte? -
anche se questa consapevolezza non gli era utile a capire cosa
esattamente aspettarsi di volta in volta. Per quel che ne sapeva,
Hortensia avrebbe potuto piantargli un coltello nel fianco,
addormentarlo, andarsene senza alcuna spiegazione, baciarlo...
"Baciarmi? John, concentrati!", si riprese mentalmente. La scomoda e
inopportuna domanda che sorse spontanea da chissà dove fu:
"Stai
pensando davvero a lei?". John scosse il capo per scacciare quel
pensieri e Hortensia interpretò il gesto come un ulteriore
diniego alla sua non-richiesta.
«Il
biglietto. Non dimenticartene», gli sussurrò
all'orecchio prima di dirigersi verso la porta. «Mrs Hudson ha preparato dei
biscotti», aggiunse uscendo.
Con un delizioso fagotto colmo di speciali cookies tra le mani,
Hortensia decise di raddrizzare il batacchio soltanto per indispettire
suo fratello e, sorridendo soddisfatta, si dileguò.
Quando Sherlock Holmes rientrò in Baker Street rivolse una
smorfia al batacchio raddrizzato e, come faceva tutte le volte, lo
spostò a suo piacimento.
Se uno psicologo decidesse, in un momento di pura follia, di mettersi
a studiare quello che passerebbe certamente alla storia come "lo
strano caso dei fratelli Holmes", finirebbe lui stesso in cura
da
uno psichiatra e alla fine entrambi, dopo accuratissime analisi, notti
insonni e crolli nervosi, sceglierebbero in comune accordo di mollare
tutto e
trascorrere il resto della vita seduti ad un bar a bere e rimorchiare.
In fin dei conti, però, a pensarci bene, la soluzione al
rompicapo è davvero semplice.
Tutti i dispetti e il continuo
punzecchiarsi altro non erano che la testimonianza di un sentimento che
entrambi si ostinavano a negare, ma che sapevano di provare l'uno per
l'altro.
Si volevano bene.
Che poi avessero un modo originale, a tratti forse anche piuttosto
infantile, di
dimostrarselo era un altro paio di maniche e, a dirla tutta, non
c'è neanche da stupirsi considerato che stiamo parlando
degli
Holmes. E in effetti Hortensia, pur non avendo avuto alcun contatto
diretto con la sua famiglia d'origine si portava comunque dietro un
bagaglio genetico che la rendeva molto simile ai suoi fratelli dal
punto di vista comportamentale.
Probabilmente il nostro psicologo di poco prima concluderebbe che gli
Holmes non sono così come appaiono a causa di
chissà
quali traumi infantili o adolescenziali, - oppure qualora ne abbiano
subìti, questi incidono soltanto in parte sulla loro
riluttanza
a frequentare altre persone - ma manifestano una spiccata sociopatia
per cause da ricercarsi quasi eslcusivamente nell'eredità
genetica ricevuta e, più in particolare, nelle evidenti doti
intellettive che, essendo decisamente sopra la media, fanno dei
fratelli Holmes degli esclusi a priori in quanto diversi dal resto
della popolazione sulla base di un campione di coetanei e forse anche
un po' più inquietanti di un qualsiasi soggetto
problematico.
Dopo aver stilato una simile diagnosi sulla cartella di riferimento, si
presume che lo psicologo abbia allentato la cravatta, si sia buttato la
giacca sulla spalla, abbia lasciato il proprio studio e si sia recato
dal suo amico psichiatra.
Fortunatamente John Watson era piuttosto resistente dal punto di vista
psicologico.
Passeggiava lentamente attorno alle due poltrone, quasi fosse sul serio
a guardia del biglietto, con ancora la tazza ormai vuota tra le mani,
suo unico appiglio alla realtà che lo circondava. I suoi
pensieri, infatti, erano molto lontani da quell'appartamento e
somigliavano molto ad un campo di battaglia. Benché fossero
trascorse circa due ore da quando Hortensia l'aveva lasciato solo con
il piccolo foglio ripiegato di cui lui non conosceva neanche per
sbaglio il contenuto, John Watson non era riuscito a stabilire quale
fosse il modo migliore per informare Holmes di quanto era successo. Non
si era neanche ricordato di vestirsi, così quando Sherlock
rientrò lo trovò in pigiama.
I due si guardarono per un attimo prima che il consulente investigativo
sottoponesse l'intera stanza ad un'ispezione profonda in cerca di quel
dettaglio che aveva evidentemente turbato l'amico. I suoi occhi chiari
si fissarono sul tavolinetto tra le due poltrone. Sherlock si
chinò sulle ginocchia e inspirò a pieni polmoni
diverse
volte prima parlare senza staccare lo sguardo dal cartoncino.
«È
stata qui mentre io non c'ero», mormorò
più a se
stesso che a John prima di annusare nuovamente l'aria. «Si
è seduta qui prima che tu ti svegliassi visto l'attuale
stato in
cui ti trovi. La vostra conversazione ha riguardato sicuramente me.
È evidente che se non l'hai invitata a fermarsi è
perché sei tu il custode di tutte le informazioni che devo
avere».
Detto ciò sollevò
le iridi verso l'alto per cercare un contatto visivo con Watson.
Quest'ultimo si mise a riflettere su quanto la mania di Sherlock di
radiografare qualsiasi ambiente e persona gli stesse tornando utile in
quella situazione: non era stato necessario rivelargli
alcunché
della visita di Hortensia, almeno per ora, perciò -
ritenendo
che se la donna gli avesse raccomandato di far avere a Sherlock quel
pezzo di carta doveva pur esserci una ragione - decise di tentare la
fortuna.
«Sì.
Hai ragione. Ho custodito per voi questo prezioso rettangolino e ora mi
faccio una doccia», disse con ironia e un pizzico di timore,
desiderando soltanto sparire dalla circolazione.
Non aveva neanche finito di dirlo che lo sguardo di Sherlock era
già incollato sul misterioso contenuto.
John non riuscì a muovere un passo così come il
volto del suo amico parve farsi d'un tratto di cera.
Il biglietto, oltre al vecchio messaggio scritto da Sherlock, recava
un'aggiunta dal tratto bello e sottile.
H.W.H.
Chiedi al dottore.
«H.W.H.», scandì il consulente investigativo
dopo mezzo minuto di totale silenzio. «Perché dovrebbe significare
qualcosa per te?», chiese.
«Sherlock...
Io proprio non ne ho idea», gli rispose John, confuso,
facendo scattare in piedi l'amico.
«E allora
perché c'è scritto di chiedere a te?»,
fece lui mostrandogli la bella grafia di sua sorella.
John sbiancò. Avrebbe dovuto aspettarselo da una come
Hortensia.
Evidentemente era più scaltra di quanto sia lui che Sherlock
pensavano se, pur non conoscendo da molto Watson, era stata in grado di
non prendere sul serio in considerazione l'eventualità che
lui
avrebbe assecondato il suo gioco costringendo, però,
contemporaneamente John a credere che lei contasse esclusivamente sulla
sua partecipazione al piano. Invece si era affidata ad astuto giochetto
psicologico che avrebbe presto mandato fuori di testa sia Sherlock che
John, il quale infine avrebbe ceduto pur di sfuggire all'insistenza del
primo.
Sherlock non si aspettava certo una risposta dal momento che la sua
domanda era retorica, eppure l'irritazione fu palese. Si
cacciò
il biglietto nella tasca del cappotto e quasi si
lanciò di
peso sul divano in pelle, diede le spalle a John in un gesto
decisamente infantile e mise il broncio.
«Tu sai il
suo nome e non vuoi dirmelo», piagnucolò.
Sembrava un bambino.
John sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona:
la tortura era appena iniziata.
N.d.A.
Nel caso in cui qualcuno di voi si stesse interrogando su una
possibile liaison Hortensia/John, la risposta è no. Non
intendo
commettere lo stesso "errore" (mi perdoneranno gli eventuali fan)
commesso in Elementary. Se proprio una relazione Holmes/Watson deve
essere esplicitata, che sia la Johnlock e nessun'altra.
Quindi perché ho creato questa sorta di tensione tra la
Holmes e
il dottore? Semplice. Lei è pur sempre la molto somigliante
versione femminile di Sherlock e ha su John un effetto decisamente
strano.
Ancora una volta ringrazio di cuore la mia amica Amalia,
senza il cui supporto mi sentirei persa.
E naturalmente grazie a voi che siete arrivati fin qui, che abbiate o
meno deciso di lasciare traccia del vostro passaggio.
Alla prossima!
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