La Notte del Diavolo
Pumpkins
Scare Me
Era la mattina del 31 ottobre e Londra si era svegliata nella morbida
umidità di una nebbia sottile.
Anche John Watson era sveglio e, per la precisione, si stava lavando i
denti quando gli spostamenti di Sherlock all'interno dell'appartamento
gli annunciarono che qualcosa stava accadendo, di nuovo, nella mente
inaccessibile
del suo coinquilino. Allora John sputò, si
sciacquò la
bocca, si asciugò il mento e lo raggiunse nel soggiorno.
Erano
un paio di giorni che Sherlock si comportava più stranamente
del
solito.
«Quando
esci?», domandò pizzicando le corde del suo
violino con lo
sguardo fisso verso i cerotti alla nicotina che John gli aveva nascosto
ma che lui, evidentemente, aveva trovato. John rilassò le
spalle, le braccia lungo i
fianchi, e chiuse gli occhi prima di dirgli una qualsiasi cosa.
"Mi sono appena
svegliato, dannazione!", si disse.
«Ho bisogno che lasci
l'appartamento», insisté Sherlock non ottenendo
immediata risposta dall'amico, evidentemente troppo lento quella
mattina per i suoi
gusti.
«Ho il
tempo di vestirmi o devo andare al lavoro in pigiama?»,
chiese
retorico il medico senza aggredirlo, tentando di non essere velenoso.
Era
conscio delle necessità
del consulente investigativo suo amico e faceva il possibile per
assecondarle
ogniqualvolta esse si manifestavano, ma non sempre gli risultava facile.
«Potrebbe
essere divertente. Verresti scambiato per un paziente
mentalmente instabile con la convinzione di essere un medico. Il
pigiama poco costoso farebbe loro pensare che le tue condizioni
economiche non siano tra le migliori, il che non è molto
lontano
dalla verità in effetti, dovresti chiedere un aumento o
accettare il denaro che Mycroft ancora ti offre in cambio di
informazioni sul mio conto, ma le unghie pulite e la barba rasata
di recente indicano tutt'altro che un uomo trasandato. Metodico,
piuttosto. Un ex militare in effetti, che ha perso la testa dopo aver
visto morire i suoi compagni.
Perciò concluderebbero che i
tuoi
parenti non hanno voglia di venire a farti visita troppo spesso e che
quindi
devi arrangiarti con i pochi indumenti di pessimo gusto di cui disponi.
Inoltre...».
«Ok
Sherlock. Basta così», disse John voltandogli le
spalle
per togliersi quanto prima quel "pigiama poco costoso e di pessimo
gusto", come lo aveva
gentilmente definito il suo amico qualche attimo prima.
«Fai in fretta. Devo
pensare».
John evitò di rispondergli e fece il possibile per non farsi
saltare i nervi, cosa nient'affatto semplice visto che
il
cuscino su cui aveva dormito era ancora tiepido, mentre Sherlock faceva
finta di suonare
il violino –
perché quando lo suonava sul serio era davvero bravo, ma in
quel
momento stava soltanto riempiendo le stanze di un suono sgraziato
che a stento si poteva dire appartenesse ad uno strumento come quello e
ad una persona come lui – in un ulteriore e chiaro invito, al
pari
delle offese gratuite di poco prima, ad
abbandonare
quanto prima l'appartamento. Quando ricomparve in salotto, John
usò la scusa di dover riporre il suo
portatile nell'apposita valigetta soltanto per recuperare invece la
scatola
dei cerotti, che si cacciò in tasca prima di uscire.
«Quelli sono
miei», disse Sherlock allungando le dita affusolate, senza
scomporsi più di tanto.
«Non direi. Sono nella
mia giacca, perciò mi appartengono»,
spiegò lentamente.
«Mi servono!»,
esclamò spazientito l'altro, le sopracciglia aggrottate e lo
sguardo
sottile. Era perfino adorabile nel suo essere capriccioso come un
bambino.
«Sono desolato,
Sherlock. Vado di fretta», rispose John rivolgendogli un
sorrisetto dispettoso mentre infilava la porta.
Scendendo le scale gli parve di sentire un'imprecazione, ma non se ne
preoccupò. Sherlock l'aveva letteralmente cacciato di casa,
perciò
una
piccola vendetta era il minimo che potesse riservargli. E poi era
Halloween.
Un bambino
uscì di casa in
fretta e furia perché non voleva andare a scuola,
specialmente quel giorno. Detestava
la scuola, ma i suoi genitori sembravano non comprenderne le ragioni
sebbene lui più volte avesse raccontato episodi poco
piacevoli
verificatisi con i suoi compagni di classe che non trascorrevano la
ricreazione con lui e non lo invitavano mai ai compleanni. I genitori
avevano provato in tutti i modi a scoraggiare il motivato senso di
antipatia del bambino verso i suoi coetanei e gli sembrava di esserci
riusciti visto che il piccolo si era infine convinto a non cambiare
istituto. La verità era che lui fingeva con tutti e se si
era
ormai
quasi abituato all'isolamento imposto dagli altri era solo
perché
sapeva che al
rientro
avrebbe trovato suo fratello pronto ad ascoltarlo e a tenergli
compagnia. Rimase quindi molto deluso e si sentì
profondamente
ferito
dall'atteggiamento severo di lui quella mattina. Non poteva credere che
proprio lui, suo fratello maggiore che sapeva ogni cosa, lo stesse
costringendo a recarsi in quell'inferno legalizzato che tutti
chiamavano scuola.
Sconvolto, era sfuggito
alla presa del
giovane adolescente e si era scagliato oltre la porta d'ingresso della
piccola tenuta in aperta campagna.
Mancava un giorno ad Halloween e il bambino non voleva vedere le facce
sorridenti dei suoi "amichetti" che pianificavano una festa
escludendolo
con ostinata cattiveria, quindi scappò verso il grande campo
che
aveva dinanzi a sé ignorando le voci che lo richiamavano.
Sherlock Holmes ripose delicatamente il violino, non avendo alcuna
voglia di suonarlo.
Si accostò alla finestra del suo appartamento condiviso e
osservò la gente passare.
"Passo svelto e occhiate
furtive. Un
fin troppo eccentrico foulard a celarle i capelli non basta a
nascondere la sua infedeltà nei confronti di un marito
che non la guarda nemmeno più. Divorzieranno nel
giro di
due mesi. Noiosa", commentò silenziosamente.
"Scarpe in pelle tirate
a lucido, ma
non nuove – il tacco è consumato da un lato solo,
indice di una postura
errata. Completo elegante e cravatta in tinta indicano che è
sicuramente un uomo d'affari, ma non ha portato un ombrello nonostante
il tempo incerto. È distratto, superficiale anche sul
lavoro,
ecco perché sta andando ad un colloquio con le scarpe
migliori
che ha non potendosi permettere di acquistarne un paio per l'occasione.
Verrà assunto e poi licenziato. Niente di
interessante", si disse ancora.
Quando fu la volta di un gruppo di adolescenti che aveva marinato la
scuola per andarsene in giro con delle stupide maschere da mostro sul
volto, Sherlock decise che era il momento di
barricarsi in casa e tagliare ogni contatto con il mondo esterno.
Ignorò le scartoffie sparse per tutto l'appartamento e si
diresse nella stanza di John. Gli aveva fatto credere di avere un caso
su cui lavorare, un caso che richiedeva l'utilizzo di cerotti alla
nicotina – ad insaputa dell'amico se ne era applicati due e
ne aveva
una scatola piena nascosta in un saggio, tra le cui pagine
aveva ritagliato uno spazio quadrato, sul moto dei pianeti.
Aprì il suo armadio e si
fermò ad inspirare l'odore dei suoi vestiti, ad occhi
chiusi,
provando un immediato sollievo, una serenità inaspettata.
Intrufolò le lunghe braccia
oltre i tessuti alla ricerca del doppio fondo, di cui solo lui
conosceva l'esistenza, per recuperare un vecchio articolo di giornale
che lui stesso aveva nascosto lì.
TRAGEDIA
SFIORATA
TRA LE CAMPAGNE NEI DINTORNI DI LONDRA.
Bambino
di sette
anni viene ritrovato sano e salvo il giorno successivo alla sua
scomparsa.
Laddove
una squadra di agenti della polizia non è riuscita ad
arrivare
è arrivato invece l'indissolubile legame di sangue che
unisce
due fratelli.
|
Sherlock chiuse a chiave
la porta della stanza, si
sedette sul letto di
John e serrò gli occhi immergendosi nei ricordi.
Con la vista appannata
dalle lacrime incessanti, il bambino non si fermò
finché le sue ginocchia cedettero facendolo rovinare a
terra. Il suo pianto, se possibile, si fece ancora più
intenso perché al dolore del tradimento si era aggiunto
quello al gomito spellato e alle ginocchia ammaccate. Strinse a
sé lo zainetto che portava sulle spalle e decise che per
placare i singhiozzi avrebbe bevuto un po' d'acqua, come gli aveva
insegnato suo fratello una volta che aveva pianto per un'ora intera.
Parve funzionare e dopo qualche minuto il piccolo si calmò
potendosi così guardare bene in giro. Nella foga di fuggire
non
si era reso conto di essere finito nel bel mezzo del vasto campo di
zucche che la mamma gli diceva sempre di non attraversare da solo,
perché le zucche erano troppo grandi per lui e si sarebbe
perso facilmente.
Pensò che sua madre
avesse ragione, ma ritenne che, se
si fosse voltato e avesse iniziato a camminare nella direzione opposta
a quella che aveva preso per arrivare lì, sarebbe riuscito a
tornare a casa. Era un problema da risolvere con la logica e lui con
la logica andava d'accordo. Non si era ancora accorto, però,
di
aver corso per
più di quaranta minuti e per nulla in linea retta.
Il telefono di Sherlock
vibrò, spostando la sua attenzione.
1
sms.
Da: John
Greg è
passato in ambulatorio.
Voleva sapere se ci saremo alla
festa organizzata da Molly per stasera.
Perché non mi hai detto
niente? Ho fatto una pessima figura,
sai?!
Faremo i conti più tardi.
Ci andiamo?
John.
L'uomo sorrise per un
attimo. "Faremo i conti
più
tardi", si ripeté immaginando il tono di voce
che avrebbe usato il suo amico se fosse stato lì con lui. E
invece l'aveva mandato via perché doveva pensare, anche se a
nulla doveva pensare davvero. Poi la domanda conclusiva. Aveva un
sapore di intimità quel condividere una scelta che avrebbe
potuto riguardarli singolarmente anziché in coppia. Ma John
non sarebbe andato senza di lui, questo era il senso del suo parlare al
plurale, non l'avrebbe lasciato a casa per partecipare, da solo, ad una
stupida festa. Perché non gliel'aveva detto? "Perché non era
importante", si giustificò. "Perché non mi
piacciono le feste, men che meno Halloween e le sue stupide zucche",
si rispose più sinceramente. Con se stesso poteva essere
sincero fino in fondo.
Sherlock sospirò allontanando da sé il cellulare
senza rispondere al messaggio, preferendo accoccolarsi nel letto di
John
e starsene lì fino al giorno successivo.
Tornò con la mente alle vicende di quell'articolo.
Gli occhi gli bruciavano
terribilmente. Aveva pianto troppo ed ora pizzicavano come quando suo
fratello fumava davanti a lui. "Ma tu non farlo", gli diceva sempre,
"Non farlo mai". Dov'era suo fratello adesso? Lo stava cercando oppure
era andato in quella stupida scuola a prendere un altro ottimo voto che
avrebbe fatto felici mamma e papà? Perché non
l'aveva difeso, prima? Perché l'aveva lasciato andar via?
Tutte queste domande, la stanchezza della corsa e dello sfogo e
l'essere ruzzolato tra le grandi foglie dell'ortaggio, intristirono il
bambino che si sentì improvvisamente perso. Non aveva idea
di quanto tempo fosse passato da quando era caduto e aveva deciso di
tornare indietro senza successo, ma il suo stomaco brontolava e questo
poteva voler dire soltanto che l'ora di pranzo era vicina, se non era
addirittura già passata. Provò a tendere
l'orecchio nella speranza di poter sentire una voce conosciuta, ma
attorno a lui c'era soltanto un inquietante silenzio che sembrava
sibilare tra le enormi zucche arancioni. "Dove sei? Vieni a prendermi",
pensò e aveva di nuovo gli occhi lucidi. "Ho paura".
Senza mai smettere di camminare, seppure lentamente ormai,
mangiò un po' dei biscotti che sua mamma gli aveva dato per
fare merenda a scuola e bevve un po' della preziosissima acqua che gli
sarebbe dovuta bastare fino al rientro a casa. "Troverò la
strada. Io sono intelligente. Non hai mentito, vero, mentre me lo
dicevi?", si disse pensando ancora, incessantemente, a suo fratello. Si
arrampicò su una zucca convinto che sovrastando tutte quelle
foglie sarebbe riuscito ad orientarsi, ma non vide altro che zucche,
zucche e ancora zucche.
Il telefono di Sherlock si mise a squillare con insistenza.
Lo ignorò. Si strinse le ginocchia al petto, in posizione
fetale, e lasciò che il tempo gli scivolasse addosso.
Non c'era il sole quel
giorno, ma nemmeno pioveva. La luce si era fatta sempre più
intensa mentre lui si perdeva e poi aveva iniziato ad affievolirsi
sempre di più fino a sparire. E con il buio erano tornate
anche le lacrime.
Aveva fame e sete e
paura. Non sapeva dove fosse la strada di casa, non sapeva dove fosse
suo fratello. Attorniato da quelle zucche che sembravano farsi via via
più grandi e spaventose, il bambino si convinse che i
familiari lo avessero abbandonato per punirlo a causa dei suoi capricci
e del suo essere così problematico. "Lui è
migliore di me", si disse asciugandosi le lacrime con la manica del
cappotto. "Sono stato cattivo, ma non lo farò
più. Andrò a scuola tutti i giorni e non
picchierò più quelli che mi prendono in giro, non
dirò più cose cattive sui loro genitori. Lo
giuro. Lo giuro! Ti prego, vieni a prendermi". Tremava così
tanto per la paura e per la temperatura che si stava abbassando, da non
riuscire neanche a tenersi compagnia con la propria voce.
Continuò a vagare alla cieca fino a sentire male ad ogni
singolo muscolo, finché sedersi non fu una
necessità più grande che continuare a muoversi.
Quindi si sistemò a terra, tra foglie e tralci che si
snodavano per
metri lungo quell'immenso campo, appoggiando le spalle ad una di quelle
odiose zucche.
«Mycroft,
dove sei?», mormorò prima di addormentarsi.
John aveva fatto molto tardi al lavoro, non era rientrato per pranzo, e
Sherlock non aveva risposto ai cinque sms né alle dodici
telefonate, anzi tredici se John intendeva considerare anche
quell'ultima, fatta prima di aprire il portone d'ingresso. Il suo
intento era
quello di fiondarsi direttamente nell'appartamento e riempire Sherlock
di insulti immaginando che avesse lasciato il cellulare a qualche metro
da sé e gli seccasse alzarsi per prenderlo e degnarlo della
sua preziosa attenzione, ma quando si imbatté in Mrs Hudson
pensò bene di domandare a lei prima.
«Salve signora Hudson, ha visto
Sherlock?».
«È
di sopra, mio caro. Non è uscito oggi», rispose
lei con
quel suo tono gentile accompagnato da un sorriso quasi materno.
John la ringraziò e salì al piano superiore con
una tale energia che avrebbe potuto sfondare perfino la porta, ma
quando entrò vi trovò nient'altro che un silenzio
assoluto. Nessuna traccia di Sherlock. Il dottore sentì il
sangue gelarglisi nelle vene per un momento, poi si costrinse a fare
mente locale, a guardarsi attorno in cerca di un particolare, di un
biglietto, di qualcosa. Notò la custodia del violino e
l'aprì accertandosi che era stato riposto con cura insieme
all'archetto. Toccò i cuscini del divano e poi quello della
poltrona di Sherlock per verificare se fossero caldi, ma
anziché sentirsi intelligente come il suo coinquilino si
sentì immensamente sciocco. Sbirciò in cucina, ma
non c'era nessuno, né c'era traccia del cellulare di
Sherlock. Sbuffò, spazientito da tutta quella situazione. "Insomma, mi caccia di casa a
prima mattina dicendomi che deve pensare e poi quando rientro nemmeno
lo trovo! Ora mi sente, oh, eccome se mi sente!", si disse
John in attesa di decidere il da farsi. La giornata in ambulatorio era
stata pessima: aveva visitato un mucchio di anziani brontolanti affetti
da un banalissimo raffreddore stagionale e per tutto il tempo non aveva
desiderato altro che rientrare a casa.
Valutò l'ipotesi di telefonare a Mycroft, ma temeva che
scomodarlo non fosse l'idea migliore considerato che qualora fosse
successo qualcosa lui l'avrebbe saputo prima di chiunque altro e
avrebbe mandato Anthea, o come diavolo si chiamava, a prelevarlo
immediatamente. "Ovunque
sia, sta bene. Sì. Starà bene finché
resta lontano da me", si convinse
John, minacciando mentalmente l'amico, dirigendosi poi verso la propria
camera da letto per togliersi i vestiti
che sapevano di anestetico e medicinali. Quando posò la mano
sulla maniglia, in un flash ricordò di non aver chiuso la
porta
quella mattina, solo accostata, ma scelse di non dar peso a quella
considerazione che
poteva essere il risultato di memorie alterate dalla fatica accumulata,
finché si rese conto che era chiusa a
chiave. Dall'interno. Sentì l'aria incastrarsi nei polmoni e
lì restare, immobile.
«Sherlock?»,
soffiò debolmente. Inspirò.
«Sherlock?!»,
chiamò
con più voce cercando di agire sulla maniglia.
«Sei lì dentro? Apri subito questa
porta!».
Oltre la porta Sherlock non si mosse,
né parlò.
«Apri
questa maledetta porta, oppure io...», minacciò
senza riuscire a terminare la frase, perché pensieri cupi si
affacciarono alla sua mente all'improvviso. "Che sia ferito? E se fosse
svenuto? Se uno dei suoi esperimenti fosse andato storto e lui ne
stesse pagando le conseguenze? Ma perché diavolo chiudersi
nella mia stanza?"
John Watson decise che era arrivato il momento di telefonare a Mycroft
giacché era tutto il giorno che Sherlock lo escludeva
volutamente dai suoi problemi.
Indolenzito e
infreddolito, il bambino si svegliò con il levarsi del sole
e, realizzando che niente di ciò che ricordava era stato un
orrendo incubo, si mise a piangere disperatamente urlando a gran voce
il
nome di suo fratello. Si concesse un sorso d'acqua mentre si rimetteva
in piedi e sgranocchiò l'ultimo biscotto tra i singhiozzi
sperando con tutto
se stesso di poter tornare a casa quella mattina stessa. A vedere tutte
quelle zucche gli venne la nausea. "Io odio Halloween. Odio le
feste. Odio tutti. Tutti! Tranne te", pensò riprendendo a
camminare
senza sapere se e quando sarebbe uscito da quel maledetto campo di
zucche.
Sentiva le labbra secche almeno quanto la gola, le ginocchia gli
dolevano e il maglione si era impigliato nella screpolatura che si era
procurato il giorno prima all'altezza del gomito.
«Mycroft!
Mycroft dove sei?!», chiamava senza sosta e senza mai
ottenere
alcuna risposta.
Quando il sole era già piuttosto alto nel cielo e la sua
voce ormai roca, il piccolo sentì qualcosa che lo
rianimò istantaneamente.
«Sherlock! Per amor del cielo, rispondimi! Sono io, tuo
fratello. Sherlock vieni fuori!».
Al bambino sembrò che tutto girasse vorticosamente e la
vista gli si appannò, ma realizzò di non aver
più bisogno di vedere la terra sotto ai propri piedi
perché gli sarebbe bastato seguire quella voce.
«Mycroft!
Sono qui!», urlò con quanto fiato aveva in gola.
Incespicò, ma si rialzò coraggiosamente.
E insieme al richiamo di suo fratello arrivarono anche i passi, sempre
più forti, sempre più vicini.
«Oh
Sherlock», mormorò Mycroft quando finalmente lo
vide, ammaccato e visibilmente stanco.
Il piccolo Sherlock si fiondò tra le braccia di suo fratello
e affondò volentieri il viso nel suo cappotto dal taglio
elegante.
«Mycroft...»,
mugugnò tra le lacrime.
«Sono
qui, Sherlock, non preoccuparti. Andiamo a casa adesso»,
sussurrò lui sollevandolo amorevolmente e portandolo
finalmente via da quel posto orribile.
Sherlock ascoltò la telefonata di John
a Mycroft e si aspettò che da un momento all'altro lui
piombasse nell'appartamento, non senza aver prima raddrizzato il
batacchio, come al suo solito. Non senza aver prima bevuto un sorso di
liquore da un prezioso bicchiere di cristallo lavorato. Non senza
mascherare perfettamente la preoccupazione. Perché Mycroft
sapeva. Lui sapeva ogni cosa.
Sherlock riaprì gli occhi e lesse un passaggio di
quell'articolo che lo riguardava.
«Mio
fratello... Mio fratello Mycroft è il mio eroe! Lui mi ha
sentito, lui mi ha trovato, perché lui è
speciale. E poi adesso i miei compagni di scuola non dovranno neanche
più preoccuparsi di invitarmi alla festa per Halloween. Io
detesto Halloween e le sue zucche e non lo festeggerò mai e
poi mai!», ha dichiarato il piccolo di sette
anni
guardandomi con grandissimi occhi chiari colmi di incanto. Non
dimenticherò mai quello sguardo così vivo,
né il legame che
ha
permesso a Mycroft Holmes, il maggiore dei due, di imboccare la
direzione giusta e trovare per primo il suo fratellino salvandogli la
vita.
|
Si concesse un sorriso
mentre
rileggeva ciò che il se stesso di sette anni pensava del
fratello maggiore.
Dietro la porta intanto, John provava ancora a bussare per farsi
aprire,
cercando di tenere sotto controllo la preoccupazione. Mycroft sembrava
aver capito esattamente cosa fosse accaduto senza che lui gli dicesse
niente visto che niente era ciò che sapeva di quella vicenda
e
gli aveva assicurato che non c'era da temere. Aveva aggiunto che
sarebbe arrivato quanto prima in Baker Street per risolvere di persona
la questione. Quando John aveva cercato di spiegargli che al mattino
Sherlock gli aveva fatto credere di avere un caso su cui riflettere in
segreto, Mycroft aveva risposto senza mezzi termini che ovviamente era
stato preso in giro.
Ovviamente.
Quell'ovviamente lo aveva punto non poco.
Come promesso, Mycroft entrò nell'appartamento non molte
decine
di minuti più tardi accompagnato dall'elegante quiete che lo
contraddistingueva.
I due si guardarono per qualche secondo, poi John indicò la
porta chiusa a chiave e scosse il capo allargando le braccia in segno
di resa e mostrando all'uomo il numero – aumentato nel
frattempo – di
telefonate ed sms senza risposta.
Inaspettatamente, da dietro la porta, Sherlock diede il primo segno di
vita.
«Mycroft...»,
mormorò.
Quest'ultimo sospirò e sembrò essere sinceramente
sollevato, quasi che avesse ipotizzato scenari peggiori.
«Sono
qui, Sherlock», disse semplicemente, ma a John parve che
dietro
quelle poche parole ce ne fossero moltissime altre a lui inaccessibili,
come la maggioranza delle vicende private che riguardavano gli Holmes.
Accadde che la chiave girò nella toppa e che Sherlock
aprì la porta con l'aria di chi ha un reale motivo per
essere
profondamente triste.
«Già»,
rispose distogliendo lo sguardo da suo fratello.
John non capì niente di ciò che stava succedendo
tra i
due, ma si rese conto di dover lasciar loro un momento di
intimità, perciò si allontanò e decise
di andare a
fare un po' di compagnia e quattro chiacchiere con Mrs Hudson, al piano
inferiore.
«Quei
due ne avranno ancora per molto, caro, sappiamo come sono fatti.
Avanti, metta qualcosa sotto
i
denti o quel bel visetto si sciuperà», disse Mrs
Hudson
offrendo a John un muffin alla zucca, fuori misura, che la donna aveva
preparato quella mattina stessa insieme ad una quantità
spropositata di biscotti, lecca-lecca e caramelle di ogni sorta in
attesa dei bambini che avrebbero bussato per il consueto "Trick or Treat".
Il dottore fu incapace di rifiutare e si complimentò con la
donna trovando il dolce davvero ottimo e ringraziandola affettuosamente
per la premura che manifestava sempre nei confronti suoi e di Sherlock.
Lei sorrise lusingata e accompagnò l'imbarazzo con un
gesto
della mano come a voler dire che non era nulla, che lo faceva
volentieri anche se era solo la padrona di casa e non la governante o
la cameriera. Lui le voleva bene ed anche Sherlock, ne era certo.
Fu in quel momento che il suo cellulare vibrò annunciando un
messaggio.
1
sms.
Da: Sherlock
Le zucche mi fanno paura.
Niente festa di Halloween per noi.
SH.
John aggrottò
le sopracciglia, chiaro segno di quanto avesse trovato strano quel
messaggio. Decise che era meglio non chiedersi nulla, non indagare, non
sapere.
«Quelle caramelle non saranno troppo dolci?»,
domandò indicandole.
«Lo sono quanto basta», rispose lei porgendogli il
secchiello a forma di zucca in cui le aveva sistemate.
«Avanti, le assaggi e mi dica», lo invitò.
«Sarà meglio che io lo faccia», concluse
gustando la prima di una lunga serie.
N.d.A.
L'unica cosa che mi era chiara quando ho iniziato a scrivere questa
storia era il tema portante, ovvero Halloween.
La prima stesura dell'incipit nell'appartamento era completamente
diversa e contemplava un caso da risolvere, ma qualcosa è
cambiato ancor prima che mi lanciassi in un'ipotesi di scenario. Solo a
metà lavoro ho capito il perché di questo
mutamento repentino e radicale: Mycroft. Ancora lui. Sempre
così presente nelle mie storie. Se avessi seguito la linea
originaria probabilmente lui non avrebbe preso parte alla storia ed
evidentemente il mio cervello questo non è riuscito ad
accettarlo.
È la prima volta che mi concentro quasi esclusivamente su
Sherlock e la cosa mi spaventa un po'. Avere a che fare con lui non
è stato facile, ma spero di aver fatto un buon lavoro.
Vi ringrazio per essere arrivati fino a qui e se vorrete dirmi la
vostra non potrà farmi altro che piacere.
Alla prossima!
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