Andata
e ritorno
Il
sole entrava dalla finestra violento, ignorando le tende che mi ero
dimenticata di arrotolare per bene. Il silenzio di quella stanza era
diventato fastidioso, ma a rallegrarmi giunse alle mie orecchie il
miagolio di Finger. Il gatto nero si lamentava affamato strusciandosi
contro la porta accostata della camera da letto. Guardai
all’orologio sul comodino che segnava le 8 di mattina e
sorrisi.
Mi
stiracchiai tra le coperte, allungando un braccio nel vuoto alla mia
destra. Accarezzai le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino
senza pieghe, strinsi il piumone tra le dita. Da lì a poche
ore non avrei più sofferto: mi eri mancato tanto. Mi erano
mancati il tuo sorriso, la tua allegria, le tue battutine la mattina e
il tuo orribile caffè. Da lì a poche saresti
tornato da me, tra le mie braccia, e avrei rivisto il tuo corpo
perfetto riflettersi nello specchio del bagno, mentre ti facevi la
barba. Dio, mi ero sentita dilaniare in quegli ultimi mesi. Parlare con
i nostri amici e sentirmi chiedere come stavi, o dove fossi finito. Ma
io non potevo rispondergli.
Mi
sollevai col busto, sedendo a gambe incrociate sotto le coperte.
Guardai il cielo azzurro fuori dalla finestra, ammirai il panorama di
New York e contai i suoi mille grattacieli luminescenti.
Quale
sarebbe stata la tua espressione nello scrutare la strada chiassosa
sulla quale affacciava il nostro appartamento?
Chissà
se ti saresti ancora lamentato di quanto il materasso fosse duro, ma
l’avevamo scelto insieme, tu mi avevi assecondata nel dirti
che lo preferivo così; e il mio animo spartano ti era sempre
piaciuto. Tu mi amavi, tu eri il mio piccolo grande eroe, il mio
barista preferito, la nocciola caduta nel cioccolato della mia vita.
-Miao-
piagnucolò Finger, e subito dopo balzò sul letto
infilandosi tra le mie gambe accavallate.
Lo
accarezzai fino alla punta della coda. Era il nostro gatto. Si chiamava
Finger perché mia zia aveva chiamato suo fratello James
Bond. Gold Finger era suo fratellino minore, ora il nostro gatto
nominato Finger per approssimazione. Una grattata dietro le orecchie:
il pelo lucido e nero, i baffi stirati e lucidi, gli occhi giallo
elettrico e le sue fusa infinite. Soffriva anche d’asma ogni
tanto, e mi ricordavo bene di come ti piacesse prenderlo a calci quando
tossiva palle di pelo nella stanza da letto. Nella nostra stanza da
letto.
Strinsi
il gatto a me e scivolai sul bordo del letto. Poggiai i piedi scalzi a
terra e mi sollevai sulle mie gambe con la bestiaccia poggiata su una
spalla.
Finger
si divincolò dalla stretta e si lanciò sul
pavimento di legno chiaro, scappando verso il salotto.
Sospirai,
osservando il mio riflesso sul vetro della grande finestra.
I
capelli ondulati, castano scuro, mi cadevano sulla schiena. Non erano
molto lunghi, ed eri stato tu a suggerirmi di tagliarmeli.
Sì, me li ero tagliati, ma otto mesi prima… ora
erano ricresciuti. Le mie labbra chiare e allungate in un sorriso
malinconico, i miei occhi stanchi che ti immaginavano lì al
mio fianco, che mi stringevi a te. Mi mancavi tanto… poche
ore, mi ripetevo, potevo resistere.
Il
mio corpo sentiva la tua mancanza peggio del mio animo. Sì,
scommetto che lo senti anche tu, pensai: le tue carezze timide sul mio
collo, le tue labbra sulle mie. Ragazzo, quanto mi mancavi! Lo gridai
in me tante volte, l’avevo gridato tante volte. Ma tu non
potevi sentirmi, chiuso nella stanza in cui ti tenevano prigioniero.
Andai
in bagno. La tavoletta del gabinetto era abbassata. Risi,
perché ricordavo ti piacesse indispettirmi lasciandola
apposta alzata. I tuoi asciugamani erano rimasti gli stessi e dove li
avevi lasciati senza utilizzarli per otto mesi, raggruppati sulla
mensola in modo casuale e disordinato. Un’occhiata
alla doccia. Potevo sentirla scrosciare di quando c’eri tu
dentro ed io ti preparavo la cena in cucina. Mi ricordai di quanto ti
piacesse girare per casa con solo l’asciugamano allacciato
alla vita a coprirti. Ti vantavi dei tuoi muscoli e mi ronzavi attorno
come se stessi tentando di abbordarmi come la prima volta. Che stupido,
ero stata io a sudare per farmi notare da te, che prima
d’incontrarmi eri così altezzoso e con la testa
tra le nuvole, sognando roba da ragazzini come una macchina lussuosa e
tante donne. Io ero la tua unica donna, la tua ragazza preferita, e tu
con me avevi condiviso tutto, ogni parte di te e di quello che la tua
ignota famiglia ti aveva lasciato. Io, in cambio, ti avevo trascinato
in casa un gatto che scattava al miagolio sulla mezza notte circa.
Finger
saltò sul lavandino e cominciò a fissarmi con le
sue pupille sottili. M’implorava di dargli da mangiare, ma
non si aspettava che lo facessi: ero molto stronza, a riguardo. Eppure,
ero certa che la sua ciotola in cucina fosse ancora piena di
croccantini. E l’umido costava un botto di soldi.
C’era
il tuo spazzolino accanto al mio, e avevi la mania di usare il mio
stesso dentifricio costringendomi ad usare il tuo quando il nostro
prediletto finiva. Quanto eri stupido, ed erano i tuoi atteggiamenti
trasandati e ottusi che mi facevano impazzire di te. Mi mancavi.
Perché
non riuscivo a sentirti vicino quando sapevo che tu percepivi lo stesso
di me? Perché le nostre menti erano così
distanti, nonostante entrambe fossero in astinenza
dall’altra? Eravamo come i gemelli.
Cominciai
a spogliarmi della canottiera nera e dei pantaloni bianchi del pigiama,
ripiegando tutto per bene.
Entrai
nella doccia… l’acqua calda chiamava il dolce
ricordo di quando l’avevamo fatto in quello stretto spazio
chiuso da due pareti di plastica. La violenza del getto mi pungeva la
pelle, la condensa oscurò lo specchio e Finger
scappò nel corridoio di corsa.
Terminato
il lavaggio, mi avvolsi nell’asciugamano bianco e raggiunsi
la cucina.
Misi
l’acqua calda sul fuoco, preparai la tavola per uno
afferrando una tazza dagli scaffali in alto, accanto ai fornelli.
Quando il bollitore prese a fischiare, mi stavo asciugando i capelli
col phon nella nostra stanza da letto. Staccai la spina poco
soddisfatta della pettinatura, e corsi a prepararmi il the.
Immersi
la bustina nell’acqua calda che avevo versato nella tazza e
accompagnai la colazione con alcuni biscotti.
Finger
balzò sul tavolo, avvicinandosi al biscotto vicino al mio
gomito. Annusò con cautela prima di allungare la lingua, ma
lo fermai in tempo gridando: -Micio! No!-.
Il
gatto fuggì dietro al divano del salone.
Che
silenzio assurdo. Avevo voglia della tua presenza, un gatto o un cane
non mi bastavano! Era come desiderare un videogioco nuovo…
Mi
guardai attorno. Ti desideravo seduto su uno dei due divani sistemati
ad U accanto alle vetrate e davanti alla televisione. Oppure a giocare
alla play station tranquillo e sorridente. Ed io avrei voluto essere
lì a sfidarti a Resistence. Erano otto mesi che non toccavo
joistik, spazzavo regolarmente le ragnatele, ma quando fossi tornato
avrei dovuto regalarti l’ultima uscita Sony. Ormai la nostra
console sapeva di vecchio.
L’ingresso,
oltre il quale erano passati pochi corpi incluso il mio. Avevo cercato
di consolarmi invitando quanti più conoscenti abitavano
ancora questo distretto della città. Ero finita per
deprimermi al meglio, perché senza di te non c’era
mai stata la vera festa. Anche quando organizzavi dei party al pub e tu
eri quello che si era sentito male la sera prima. Io ti restavo
accanto, come un’infermiera, ma ricevevo chiamate continue
dei nostri amici che si lamentavano di quanto il servizio al bar fosse
scadente senza di te. Loro ci scherzavano, ci ridevano quando ti
portavano i loro saluti mentre tu eri sdraiato a letto con la febbre.
Sì, mio caro, sapevamo bene entrambi che ti piaceva uscire
con indosso solo il tuo giubbotto anche a –20°. Eri
un folle, eri la mia pazzia.
Che
tristezza mi facevano quei quadri della mia famiglia. Guardarli senza i
tuoi commenti sfacciati sul volto del mio trisavolo era come fissare il
vuoto dell’oceano. Mi ci perdevo, negli occhi della mia
famiglia, come mi perdevo nelle foto sui mobili. Mi arrampicavo su di
esse scivolando da un ricordo ad un altro della nostra adolescenza che
non sarebbe mai finita. In quelle foto, dove c’eravamo solo
io e te, amavo perdermi, ma con te affianco. Eri un tipo superficiale,
non davi certo ascolto alle mie parole di scrittrice di romanzo quando
rovesciavo dalla prosa la nostra vita. Amavo rinfacciarti
l’aspetto poetico del nostro amore e tu, come tuo solito,
sbuffavi; per poi abbracciarmi e baciarmi con voracità.
Avevo
voglia dei tuoi baci, dei tuoi tocchi rabbiosi su di me quando ti
facevo arrabbiare. Sì, sì. Era deciso: non appena
fossi tornato a casa, ti avrei fatto incazzare di brutto. tu mi avresti
gridato contro, ma saremmo comunque finiti a farlo sul tappeto del
corridoio.
Terminata
la silenziosa bevuta e la raccolta della mia vita, mi alzai, gettando
la tazza nel lavandino e allungandomi verso la nostra stanza.
Mi
vestii in fretta, notando che tirando un pensiero dopo
l’altro si erano già fatte le 11 di mattina.
Ripiegai
il letto con cura. Quella notte mi sarei addormentata su di te, cosa
che in quegli ultimi otto mesi non avevo fatto altro che sognare.
Sbattei
i cuscini e spiegai per bene il copri letto, accertandomi che non ci
fosse alcuna piega se non quelle che causò Finger
accoccolandosi sul tuo cuscino.
Corse
letteralmente nel corridoio. Una volta all’ingresso, mi
avvolsi del mio cappottino nero e presi le chiavi di casa cacciandomele
nella tasca dei jeans scuri assieme al cellulare.
Quante
volte avevo provato a chiamarti ma non mi era stato concesso parlarti?
E perché? Oggi avrei saputo la verità su di te e
su cosa ti era successo, giurando sulla mia fedina penale e la mia
stessa vita che non avrei rivelato nulla a nessuno.
C’era
un biglietto di cartoncino bianco sopra la posta. Conoscevo bene quel
biglietto, e anche il marchio argentato che vi era sopra.
Lo
strinsi tra le dita, girandolo.
02/04/2013
Ore
12.30
Freedom
Way (NY)
Ti
ridaremo il ragazzo
Ero
spaventata.
Freedom
Way, davanti a Liberty Island. C’era un parcheggio,
l’avevo visto su google maps. Era piuttosto lontano, ma mi
ero studiata per bene la strada di andata e ritorno.
Uscii
di casa, battendomi nervosamente il cartoncino sulla coscia.
Quei
pazzi mi avrebbero ridato il mio Desmond.
Mi
parcheggia attenta tra le strisce bianche. Arrestai il motore, e fui
certa che anche il mio cuore aveva perso un colpo.
C’era
un’auto nera parcheggiata lontano da tutte le altre vetture,
compresa dalla mia. Era una 4x4 spaziosa dai finestrini oscurati.
Scesi
e chiusi la portiera nel più silenzio possibile. Il
cartoncino nella tasca dei pantaloni mi pareva stesse prendendo fuoco
per quanto ero terrorizzata.
Mossi
i primi passi in quella direzione, sotto il sole cocente del
mezzogiorno. Dei bambini facevano il giro del quartiere in bicicletta,
un gruppo di adulti si stavano fumando una sigaretta ciascuno
appoggiati al muro dell’edificio alle spalle mie spalle.
Per
te avrei fatto qualunque cosa, anche puntare contro ai tuoi rapitori
un’arma. Perché non ci avevo pensato prima?!
C’era una 9 millimetri nel cassetto del comodino accanto al
tuo lato del letto. Desmond, sto venendo a prenderti, a mani nude, ma
sto venendo e vorrò sapere tutto quello che ti è
successo, così da far bollire in me il doppio della rabbia
che ho tenuto dentro in tutti questi mesi.
La
porta del passeggero della jeep si aprì, ne uscì
un uomo in giacca e cravatta nera che venne verso di me con una
valigetta stretta nella mano.
Indietreggiai,
spaurita.
L’uomo
indossava degli occhiali da sole, le scarpe linde ed impeccabili. Mi
porse la valigetta e io l’afferrai tremante. –Alex
Viego?- domandai in un sussurro.
L’uomo
annuì, e mi strinse l’altra mano. –Nella
valigia troverà i suoi effetti personali. Desmond Miles
è stato utile al Paese, Signorina Forks- sorrise.
-Dov’è?-
lanciai un’occhiata alle spalle di Alexander.
-Oh,
il mio assistente gli sta illustrando le ultime novità-
disse. –Pazienti ancora qualche istante-.
Non
diedi ascolto alle sue parole, piuttosto feci scattare le serrature
della valigia.
Dentro
il piccolo bagaglio c’erano dei quaderni, dei libri, qualche
penna e dei fogli scarabocchiati. Se il mio Desmond si era messo a
leggere, voleva solo dire che si era annoiato parecchio.
C’era
una foto che riconobbi bene, buttata lì come gli altri
oggetti e stropicciata. Eravamo noi sull’ingresso del tuo
bar, con i nostri amici attorno. Tu sorridevi stringendomi sotto
braccio. A quel tempo non stavamo ancora insieme, ma eravamo grandi
amici. I migliori amici…
Mi
vennero le lacrime, ma cercai di trattenermi, richiudendo la valigia di
fretta.
Voltandomi,
mi luccicarono gli occhi.
Eri
tu, che venivi verso di me e il signor Viego con il tuo solito passo
neutrale. Il tuo viso scuro, il tuo mento perfetto e il naso che
più volte aveva sfiorato il mio si avvicinavano. Oh,
Desmond, vederti sorridere nel notarmi mi fece fare un tuffo in
Paradiso. Indossavi gli abiti con cui ti avevo visto l’ultima
volta: la felpa bianca, candida e i tuoi soliti jeans. Per otto mesi
con gli stessi vestiti, non m’importava quanto avrei dovuto
strofinarti la schiena per farti tornare pulito!
Mi
lasciai scivolare di mano la valigia e ti corsi incontro trattenendo il
fiato.
A
pochi passi da te, spiccai un balzo e mi appiccicai al tuo collo.
Colto
alla sprovvista, facesti un passo indietro riacquistando
l’equilibrio.
Sospirai
quando le tue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi e le tue
mani mi accarezzarono la schiena. Mi erano mancate quelle mani.
Profumavi,
e mi avvinghiai con più forza a te facendo aderire
completamente il mio corpo al tuo. Immersi il viso accaldato
nell’incavo del tuo collo, inspirando a fondo
l’odore della tua pelle. –Desmond…-
sussurrai il tuo nome nelle lacrime, affondando le unghie nella stoffa
della felpa. Riuscii a crederci a stento.
-Ciao,
piccola- dicesti tu, spingendo la tua guancia contro la mia fonte.
–Mi sei mancata- aggiungesti, e ascoltai la tua voce tremare
dalla commozione almeno quanto la mia.
-Anche
tu!- e a quel punto scoppiai a piangere, davanti a te e a quel certo
Alex Viego che si allontanava verso la macchina. L’uomo
rimontò in sella e la 4x4 scomparve su Freedom Way.
Già… la via della libertà.
-Sono
libero!- gioisti tu guardandomi negli occhi. –E…
voglio raccontarti ogni cosa- t’incamminasti e raccolsi la
valigia con i tuoi effetti personali.
Mi
passai la manica della giacca sul volto, asciugando l’acqua
che calava sul mio volto. –Sì, lo vorrei tanto!-
sbottai in un misto di divertimento e paura.
Tu
mi stringesti ancora, fin quando non ci accertammo entrambi che quello
non fosse un sogno.
Mi
tenesti sottobraccio nel raggiungere la mia macchina, e ti accomodasti
al volante.
-Otto
mesi di merda- borbottasti, ed io pensai la stessa identica cosa nel
guardarti mettere in moto.
I
tuoi occhi incontrarono ancora i miei, ma avevi un atteggiamento
diverso, uno sguardo che non seppi decifrare. Cosa volevi intendere
fissandomi così? Perché durante tutto il tragitto
verso casa non mi rivolgesti più la parola? Stavi forse
mettendo in ordine le idee? Come avrei potuto aiutarti? Desmond, io
volevo sapere cosa ti era capitato! Ma soprattutto, sapevo che dopo
quello che ti era successo saresti radicalmente cambiato. Nonostante
ciò, avrei lottato con le unghie per riaverti come ti
ricordavo e come ti avevo amato. Desmond, non voglio allontanarmi da te
a causa di questo ignoto Progetto Animus di cui so poco e niente.
Desmond, raccontami! Ma tu non dicesti nulla, neppure quando salimmo
nel nostro appartamento e tu ti guardasti attorno come non riconoscendo
dove ti trovavi.
Sperduto
come un bambino che cammina per la prima volta, ti aggiravi per la casa
tentando di riacquistare familiarità coi sapori di dolcezza
che avevamo passato assieme tra quelle mura.
Io
ti osservai in silenzio, appoggiata alla parete del corridoio
con le chiavi e il cellulare ancora nella tasca dei
pantaloni, ripensando al cartoncino che il giorno seguente avrei
bruciato per strada.
Finger
venne a strusciarsi sulla tua gamba, e tu lo issasti tra le tue
braccia. Lo accarezzasti poco e lo riappoggiasti a terra.
-Ti
prego- ti venni vicino. –Ora devi dirmi tutto. La notte non
chiudevo occhio e ogni giorno, pesandoti lontano quando il sole
brillava nel cielo, la mia paura cresceva. La gente implicata in queste
storie non ne esce mai viva!- balbettai, e la mia pena ti fece
avvicinare a me, così che il tuo corpo avvolse ancora una
volta il mio.
-Fai
bene ad avere paura di questa gente- mi sussurrasti
all’orecchio. –Per tornare qui ho
dovuto… fare quello che non credevo possibile-.
Io
mi scansai da te lentamente, colpendoti col mio sguardo confuso.
Tu
proseguisti: - Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’anno
fatto. Al posto della mia vita, li ho messo nelle mani quella di
qualcuno più importante. Una spia infiltrata nel progetto.
Lavorava come segretaria all’uomo che si occupava di me e di
quello a cui servivo. Si chiamava Lucy. Lei non aveva nessuno, io avevo
te. Raccontando che Lucy era il pezzo grosso di
un’associazione… clandestina, quelli del progetto
l’hanno presa e sbattuta chissà dove se non
ammazzata. È stata lei a chiedermelo, è stata lei
ad offrirmi la libertà. Le dobbiamo tutto questo
entrambi…- dicesti serio.
Restammo
in silenzio, perché non c’era molto da dire. Forse
domandare oltre non era una buona idea, mi dissi, perché il
mio ragazzo mi sembrava stanco.
-Ora
scusa, davvero…- mi dicesti sfiorandomi la guancia appena.
–Non… mi sento… bene- andasti verso la
stanza da letto, muovesti dei passi verso le lenzuola e ci crollasti
sopra di schiena. Ti sfuggì un sospiro di sollievo, come se
le tue giovani gambe da bambino non fossero più in grado di
portarti oltre. Desmond, avrei voluto che mi dicesti di più,
ma potevo capirti bene. Eravamo sconvolti, entrambi, e questo avrebbe
pesato per sempre sulla nostra vita che non sarebbe più
stata la stessa.
-Vuoi-
mi appoggiai all’ingresso della camera, e tu sollevasti poco
il viso verso di me.
-Hmm?-
domandasti con gli occhi.
-Vuoi
che ti prepari qualcosa da magiare? O un the… insomma, ti
vedo… sciupato- ti confessai e tu, per mia sorpresa,
annuisti, dandomi l’ordine di andare in cucina e lasciarti da
solo.
Eri
alla mia portata, e non volevo di già allontanarmi da te!
Desmond, eri davvero capace di farmi questo? Non mi leggevi nel corpo e
nell’animo che avevo bisogno di molto di più! Ed
io, egoista, non avevo pietà di nessuno di noi. Ti prego,
perdona la mia impazienza, ma da lì a poche ore sarebbe
accaduto molto altro.
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