A
Fairytale From Hell
La brezza trascinava il tiepido profumo dei
gelsomini in fiore attraverso l'intera area del giardino. Centinaia
di corolle ripiegate su se stesse sognavano caldi pomeriggi assolati
e lievi pioggerelline estive, mentre la velata luce della luna
vegliava sui loro sonni sereni.
Quieta trascorreva l'esistenza delle piante
cullate dalle nostalgiche note d'un violino nella sicurezza di quel
fiabesco parco circondato da mura di pietra ricoperte d'edera.
Erano candide le braccia dell'angelica creatura
che con eleganza strofinava l'archetto sulle corde tese dello
strumento. Strazianti guaiti si diffondevano dall'anima vuota della
cassa armonica.
Sottile era il collo che si curvava sullo
strumento, sul quale s'abbandonava lievemente una guancia incavata,
corvini i folti capelli che le ricadevano sul volto teneramente
accaldato.
Quell'angelo distribuiva all'universo,
racchiuso nel giardino, le sue melodie e scambiava, sotto il cielo
terso, segreti con il cieco sguardo della pallida luna.
Ma ben altri occhi la spiavano, celati fra gli
arbusti ed i roseti, in quella notte di primavera. Ferini, quegli
occhi sorbivano la deliziosa visione e quella musica sacra.
Le mani, simili alle zampe assassine d'un
grifone, tremavano dalla smania di stringere quel corpo giovane e
pulsante di calda vita.
Il suo naso fremeva nel captare la scia flebile
del suo odore. Deglutiva, cercando di controllare l'eccitazione,
mentre attendeva che il momento propizio si presentasse.
Per notti intere si era cibato di quello
spettacolo che lei, ignara protagonista assieme al suo violino, gli
concedeva. Aveva imparato ad attenderla ogni notte fino a quando le
luci della reggia in cui viveva, relegata, non si spegnevano una ad
una e le finestre si oscuravano come candele spente da un soffio di
fiato. Ed infine eccola apparire: vestita soltanto del candore di una
camicia da notte, la lunga capigliatura corvina che scivolava come un
mantello sul suo corpicino gracile. Il violino in un mano e
l'archetto nell'altra, passeggiava scalza lungo il selciato,
incurante della ghiaia che feriva quei piedi delicati ad ogni passo.
Conosceva il suo nome, aveva sentito un
domestico chiamarla una sera, e lei s'era affrettata a scomparire.
Ingoiata di nuovo da quella massiccia porta di legno che gli impediva
di entrare, di seguire i passi silenziosi di quell'angelo.
Era come un sospiro, il suo nome. Un suono
paradisiaco e musicale. In quel nome non c'era traccia di malizia o
perversione, vi era racchiuso tutto ciò che d'innocente esiste
al mondo: un ruscello, un giglio in fiore, un cielo azzurro. La
Bestia l'aveva ripetuto un'infinità di volte nella propria
testa, ma mai aveva osato ripeterlo ad alta voce, per il timore
d'inquinare qualcosa di così meravigliosamente puro.
Rimbalzava costantemente attraverso le pareti della sua mente,
infrangendosi contro le immagini di quella ragazza ripiegata sul suo
strumento. Una musicista, una martire, che contempla, che suona.
Dipinta, l'immagine, negli occhi di quell'animale, per quel che resta
dell'eternità.
Scivola, la bestia, silenziosamente, fuori dal
suo nascondiglio e si avvicina alla ragazza, che ignara continua a
suonare. Lei non lo sa, ma quella è la canzone ultima della
sua esistenza, la sua marcia funebre. Racconta, quella melodia. Come
una balia narra al figlioletto del padrone una fiaba, quella musica
lieve scrive nuove parole, nuove frasi, di una storia infinita.
C'era una volta, parevano
dire quei suoni nostalgici con voci mute, una Principessa
prigioniera di un palazzo. Un oscuro Re l'aveva rinchiusa nella torre
più alta ed inaccessibile del castello, per essere l'unico a
godere della sua bellezza.
Il Re era benvoluto da tutto il Popolo, ma
nessuno sapeva che a notte fonda strisciava nella stanza della
Principessa e sfogava sul suo corpo esile le sue frustrazioni. Le
note si facevano alte, quasi dolenti, come il guaito d'una belva
ferita, la Principessa non poteva far altro che osservare
la foreste oltre la quale s'estendeva il povero villaggio. Lontano.
Troppo lontano per potervi fuggire senza perdersi tra le pareti di
quel labirinto di querce che la foresta rappresentava.
La Principessa Prigioniera trascorreva le
sue giornate seduta presso la finestra, ricamando e cantando con voce
soave le vecchie ballate che ricordava aver udito dalla voce
d'usignolo di sua madre, la Regina, prima che ella passasse a miglior
vita. Le note rallentavano, in
malinconico crescendo. La Regina era morta molti anni or
sono, mentre la Principessa ancora si beava nella sua infanzia. Ogni
volta che la Principessa cantava, le ritornava in mente il ricordo
dei lineamenti
stanchi di sua madre, ma, assieme a questi,
anche i pomeriggi di primavera passati a correre attraverso prati
variopinti da fiori selvaggi.
Fu durante un pomeriggio di primavera,
quando nei campi sbocciavano i primi boccioli profumati, che un
nobile Cavaliere passando nei pressi del castello udì la voce
angelica della Principessa. Il suo canto parlava dell'amore e di
tutto ciò che di bello esisteva al mondo. Il Cavaliere fu
rapito da quella voce che era il primo suono delicato che gli
capitava di udire da molto tempo. Le sue orecchie non erano più
abituate ad ascoltare tale soave musica, troppo avvezze, ormai, al
cozzare delle spade in battaglia e alle urla strazianti di coloro che
erano in punto di morte. E i suoi occhi si riempirono di lacrime
quando si rese conto che qualcosa in grado di donargli la serenità
ancora
esisteva, ed era lì. Tanto vicino
che gli bastò alzare lo sguardo perché il suo cuore lo
raggiungesse.
<< Siete voi, Mia Signora, che cantate
con voce tanto soave? >> Domandò il Cavaliere nella
speranza che la sua voce giungesse fino a quell'angelo che ora
s'affacciava dalla più alta torre della Fortezza. La
Principessa abbassò lo sguardo verso il Cavaliere, il primo
uomo che le aveva rivolto la parola, dopo il Re. La
musica si faceva lieve, quasi gaia, diffondendo l'amore come una
malattia infettiva nei cuori del suo pubblico immaginario. Il
Cavaliere era molto diverso dal Re: era giovane, e forte, e bello, e
i suoi occhi lontani l'ammiravano con tutta la gentilezza dell'amor
cortese.
<< Sono io, Mio Signore. >>
Replicò la ragazza mentre il rossore si faceva strada sulle
sue guance paffute.
<< Scendi, te ne prego, >> La
supplicò il Cavaliere << così potremo parlare
faccia a faccia. >>.
La Principessa avrebbe desiderato correre
giù lungo le scale del palazzo e spalancare il portone
principale per incontrare quell'uomo che sembrava essere arrivato per
liberarla dal suo triste destino. Ma alla porta della sua camera era
stato imposto un pesante lucchetto e dalle pareti lisce della torre
non poteva calarsi, quindi, con un sospiro triste, scosse la testa <<
Non posso scendere. >> Gli spiegò.
<< E perché mai? >>
Domandò il Cavaliere, il quale, per poterla incontrare,
avrebbe addirittura volato sino a quell'alta finestra.
<< Sono prigioniera del Re. Questa
fortezza è un carcere e questa Torre è la mia cella,
Nobile Cavaliere. >> Pianse la Principessa e il suo viso si
contrasse in una smorfia di scoraggiamento.
<< Non piangere, Principessa. >>
La consolò il Cavaliere brandendo la sua spada lucente <<
Ucciderò il Re, e ti libererò. >> E davvero
pensava che la Principessa presto sarebbe stata libera, come
s'addiceva agli usignoli, che poco sono adatti a vivere nelle gabbie.
La musica si faceva più
rude, quasi bellicosa, lasciando intendere all'ascoltatore
l'imminente scontro. Il Cavaliere si
scagliò furente contro la facciata del castello strillando il
nome del Re, fino a quando questo non s'affacciò dalle mura.
Furente il Cavaliere lo sfidò a scendere e con la spada
sguainata lo invitò a farsi avanti, che mai più avrebbe
avuto il diritto di sfiorare la bella Principessa. Le
note strisciavano lente e solenni, quasi regali. Il
Re fece la sua uscita dal rigoglioso parco a bordo di un destriero
nero come la notte, che scalpitava furioso mentre il sole rifletteva
I suoi raggi sulla lama della spada lucente. Il cavallo candido del
cavaliere mosse qualche cauto passo in avanti: entrambi pronti a
morire per quella pallida bellezza che piangeva seduta alla finestra
della sua prigione. Uno stridio
struggente si diffuse con impeto nel giardino e sulle guance rosee
della fanciulla scivolarono calde lacrime. Quale destino attendeva la
Principessa? Il Re caricò il suo
avversario puntando su di lui la sua letale spada, pronto ad
affondarla con tutte le sue forse nell'armatura del Cavaliere. Il
Cavaliere era, però, sopravvissuto ad un'aspra battaglia e non
aveva certo intenzione di perdere la vita durante lo scontro con
quell'anziano carceriere. Non aveva certo intenzione di perdere la
vita prima di aver potuto sfiorare una sola volta la bella
Principessa. La lama tempestata di pietre preziose si diresse con
fatale precisione verso il punto in cui il cuore innamorato del
Cavaliere palpitava, ma il braccio dell'uomo si eresse, come
tempestivo ostacolo, per deviare quella mossa che stava per segnare
la sua fine. Il Re era però subdolo e avvezzo a sfruttare
meschini tranelli: con un movimento fulmineo colpì il cavallo
bianco dell'avversario e si preparò
ad infliggere il corpo finale mentre il destriero si lasciava cadere
stremato. Il sangue rosso insudiciava il manto niveo dell'animale
come un fiore che si espandeva con rapidità preoccupante con
lo scorrere dei secondi. La musica
rallentava progressivamente e la sua intensità scemava con
malinconico languore, trasformandosi in un lugubre marcia funebre. La
belva cominciò a scivolare tra le ombre del giardino,
avvicinandosi alla fanciulla, ancora posseduta da quella musica
dall'anima celestiale. Il Cavaliere
accarezzò il manto del suo inseparabile compagno, che ora
nitriva disperato, sentendo la vita che scorreva via dalle sue membra
possenti tra acute sofferenze. Per l'uomo era una tortura vedere
quell'animale fiero spirare in maniera tanto umiliante, sotto lo
sguardo sprezzante del nemico. Ne aveva visti tanti di compagni, in
guerra, perire nella stessa mortificante maniera. La
melodia aveva ripreso velocemente tono, e rimbombava, ora, in quel
malinconico giardino, ai suoi occhi sognanti, teatro d'una sanguinosa
battaglia. La Bestia strisciò alle sue spalle senza emettere
alcun suono, era assuefatto dall'odore della fanciulla e la sua gola
bruciava per la sete. Il Cavaliere si
voltò, brandendo con decisione le sue armi e fissò il
suo sguardo colmo d'ira negli occhi superbi del Re. Quale orrore era
la vista di quegli occhi! Resi lucidi dal dolore e dalla rabbia,
ardenti per il desiderio di vendetta, cremisi per le lacrime che, con
tutta la sua forza di volontà, aveva ingoiato. La
Bestia respirò. Un rantolo profondo e sibilante, un suono che
poteva provenire soltanto dai meandri del più tenebroso
Inferno. La musica s'interruppe e le spalle della ragazza furono
scosse da brividi incontrollabili. Lentamente si voltò
trovandosi faccia a faccia con la Bestia. Lo sguardo della ragazza
divenne vacuo come quello d'una bambola senz'anima quando incontrò
quello della Bestia. Quale orrore era la vista di quegli occhi! Resi
lucidi dalla follia e dal desiderio, ardenti dalla smania di
nutrirsi, cremisi per le lacrime di sanguinosa linfa vitale che, con
tutta la sua voracità, aveva sorbito.
Il violino cadde a terra fracassandosi sui
ciottoli con un rumore assordante, le schegge volarono in ogni
direzione sparpagliandosi attorno alle due figure che si fissavano
immobili, inquiete. Quando il silenzio piombò nuovamente anche
l'archetto scivolò dalle mani della ragazza, atterrando sul
terreno con un lieve tonfo. Sotto il nero maleficio della Bestia le
pareva di non poter più formulare un pensiero di senso
compiuto, poteva solo fissare quegli occhi e perdersi nei vortici
fiammeggianti di quell'Inferno senza nome. Non aveva memoria, la
ragazza, del suo stesso nome o del suo passato mentre precipitava tra
i demoni caduti e gli angeli ripudiati. Non poteva capire, la
ragazza, che il suo futuro compiva passi traballanti sull'instabile
filo della vita mentre l'abisso della morte s'apriva burrascoso sotto
di lui.
La Bestia posò le mani sui suoi fianchi
esili e avvicinò il suo volto al collo di lei. La carotide
pulsava sotto la pelle sottile. La poteva quasi percepirne il
fragore, come un fiume che, nascendo dal suo cuore affannato, si
diramava impetuoso in ogni sua estremità; poteva quasi vedere
quel fiume scarlatto che scorreva in quel corpo, potente, attraverso
le sue vene.
Era bella la Bestia, agli occhi della
fanciulla. Aveva le stesse sembianze che, nella sua mente, aveva
attribuito al Cavaliere. Eccezion fatta per gli occhi. Le iridi del
cavaliere erano come un'antica foresta: castane all'esterno, ma
quando il sole le colpiva si tingevano di verde scuro in prossimità
delle pupille. Ed il suo sguardo era, generalmente, colmo d'una
serenità e d'una gentilezza profonda. Le iridi della Bestia
erano cremisi, e si scurivano in prossimità delle pupille,
tanto che era impossibile distinguere dove iniziassero le une e
finissero le altre. Ed il suo sguardo era privo di sentimenti, I suoi
occhi erano due specchi che non riflettevano l'anima di una persona,
ma l'istinto
bestiale d'una fiera. Ma, nonostante quegli
occhi fossero rivoltanti, la fanciulla non poté fare a meno di
reprimere un sentimento d'incondizionata fiducia nei confronti di
quel misterioso individuo: era il suo Cavaliere, venuto da lontano
per salvarla.
Le mani della Bestia risalirono con lentezza
calcolata I fianchi della della ragazza ed indugiarono sul voluminoso
nastro che chiudeva la leggera camicia da notte. Le mani della stessa
fanciulla corsero al fiocco e ne tesero un'estremità,
sciogliendo delicatamente il nodo e lasciando che la veste scivolasse
lieve a terra, scoprendo così le sue forme pubescenti. Era una
situazione bizzarra ed estremamente eccitante, lei nuda, nel suo
giardino, nella sua prigione, esposta, così inerme, così
vulnerabile, allo sguardo di uno sconosciuto.
La Bestia chinò il capo e appoggiò
le sue labbra gelide sul petto della fanciulla, appena sopra la
morbida curva dei seni appena accennati. La ragazza sospirò
eccitata sentendo il respiro caldo dell'uomo sul suo petto. La lingua
della Bestia accarezzò con la maestria d'un amante la pelle
vellutata di quel corpo pulsante di vita, la sua gola ardeva dalla
sete e le sue mani tremava per la smania, sapeva che non sarebbe
potuto resistere ancora a lungo. Scivolò fino all'incavo della
spalla sulla quale fino a pochi minuti prima era posato il violino e
le baciò lascivamente il collo. La ragazza si morse le labbra
con impazienza. Il bacio della Bestia divenne più profondo e i
suoi canini acuminati affondarono nella carne della giovane
sorbendone la superba linfa vitale.
Era valsa la pena di aspettare tanto a lungo e
di giungere allo stremo delle proprie forze per banchettare con un
pasto tanto sublime. Il suo sangue era come un vino pregiato: dolce
come il miele, ma non stucchevole, dal retrogusto incisivo e
raffinato. Il suo sangue era come un bouquet fiorito: inizialmente il
suo profumo era penetrante, ma velocemente s'affievoliva lasciando
solamente una gradevole scia in sottofondo. Il suo sangue era come la
musica del suo violino: cominciava con aggressività e foga, e
repentinamente scemava in uno struggente accordo. Il suo sangue era
semplicemente tutto ciò che la Bestia avrebbe potuto mai
desiderare, una leccornia degna degli Dei dell'Olimpo, una bevanda
per ubriacare gli Amorini lassù in Paradiso.
La testa della fanciulla era pesante, e una
foschia confusa le attanagliava la mente. Davanti ai suoi occhi
ballavano figure sfocate, come in un macabro Sabbath. Le sue
ginocchia stavano cedendo e le mani, che con tanta tenacia s'erano
aggrappate al corpo virile della Bestia, stavano abbandonando la loro
salda presa. Le sue palpebre si abbassavano, tremando, creando una
barriera tra la sua coscienza e quel mondo cupo e lussurioso che
l'aveva brutalmente convinta a perdersi al suo interno. Ogni cosa
sfumò nel nero.
La Bestia lasciò cadere dalle proprie
braccia il cadavere bianco della fanciulla, era ancora caldo mentre
la morte trascinava la sua anima immacolata verso la destinazione
ultima. Sul suo collo si aprivano due fori rossicci, che apparivano
come punture d'un insetto. Sulle labbra, sul mento della Bestia si
erano sparse macchie di sangue che erano gocciolate sulla candida
camicia e sul nero panciotto.
Abbandonò il giardino a passi felpati
mentre già i fiori si preparavano per schiudersi agli accenni
dei primi raggi di sole. Le sue membra erano intorpidite dalla
sazietà e dall'imminente arrivo del mattino e la sua mente
faticava a richiamare gli intricati sentieri che, attraverso la
foresta conducevano al vecchio cimitero. La notte stava concludendosi
e ormai tra i fitti rami che s'alzavano in preghiera verso il cielo
non si celava più ombra alcuna, davanti agli occhi della
Bestia danzavano visioni di donne meravigliose: si libravano nel
vento e lasciavano correre le loro risa spensierate all'udito
dell'animale. Lui le vedeva, con le loro vesti da camera candide che
svolazzavano dietro ai tronchi e ai cespugli e I loro capelli
luminosi, e le sentiva, con i loro canti e le loro risate
cristalline, ma non riusciva a percepirne la fragranza. Erano così
irreali, eppure così solide, nella mente della Bestia.
Le gambe erano deboli, e procedevano con
lentezza esasperante, incespicando maldestramente tra le radici
seminascoste nel terreno. Le mani della Bestia si aggrappavano al
tronco degli alberi, incidendo con disperata foga. Aveva ormai perso
la speranza di ritrovare la strada del vecchio cimitero e, mentre i
primi raggi di luce già dipingevano lievi sprazzi dorati nella
penombra della foresta, lui agognava della placida ombra del vecchio
mausoleo, luogo di eterno riposo della sua decaduta casata.
Migliaia di spilli si piantarono nella candida
carne della sua mano quando fu investita da un pallido raggio di
sole, e, quando si ritirò nell'ombra, essa era rossa e gonfia,
coperta di umide vesciche. L'esposizione non era durata più di
pochi secondi.
La Bestia si sentiva ormai come un prigioniero
braccato da migliaia di cani feroci mentre, coperto dalla giacca, si
spostava attraverso le pozze di luce alla ricerca della quieta ombra
delle querce. Strilli di dolore si levavano dalla sua gola quando un
raggio lo sfiorava e si diffondevano attraverso i boschi e le
campagne, fino a giungere alle orecchie dei contadini che
s'apprestavano a cominciare la loro giornata di duro lavoro nei campi
e nei pascoli.
La Bestia squadrò ogni angolo della
foresta, per quanto la sua visuale offuscata dal sonno lo consentiva,
alla febbrile ricerca di un luogo sicuro in cui addormentarsi. Ma
attorno a lui si estendevano solo letali fasci di luce. Un dolore
sordo s'impossessò prepotentemente del suo corpo, partendo
dalle mani e dalle ginocchia, quando cadde a carponi sul terriccio.
Chinò il capo e si rannicchiò su
se stesso, pregando che qualche miracolo lo salvasse da quella
situazione senza via d'uscita. Lacrime di sangue rigarono le sue
guance marmoree mentre il sole avanzava verso di lui come un fatale
nemico, brandendo la sua spada luminosa, pronto ad infliggere la
ferita mortale.
La luce danzò lentamente fino alla sua
vittima, sembrava schernirlo, mentre s'avvicinava inesorabile,
gloriandosi della sua mortificazione mentre si rannicchiava
nell'ultimo insignificante briciolo d'ombra, ormai conscio di non
potersi più salvare. Di fronte ai suoi occhi continuavano ad
apparire quelle meravigliose fanciulle, ma ora non rideva più
allegramente. Ora camminavano verso di lui con occhi gelidi e ghigni
malefici dipinti sulle labbra. I bei volti distorti da smorfie
crudeli mentre si avvicinavano pronte a linciarlo per avere la loro
vendetta, per trovare la loro eterna serenità.
Apollo lo investì con le scintille del
suo glorioso astro.
La pelle della belva divenne paonazza e gonfia,
nel giro di pochi secondi miliardi di vesciche si formarono ed
esplosero. Un caldo infernale stava invadendo ogni cellula del suo
essere e il sangue traspirava da ogni poro della sua pelle e da ogni
orifizio, colando sulla pelle ustionata come lava incandescente. Dai
vestiti si levarono fitte spirali di fumo, ed infine, da un'innocente
scintilla, divampò un incendio che divoro interamente la
creatura, lasciando al suo posto una macabra scultura di cenere.
Durante gli ultimi istanti dell'agonia la Bestia le aveva distinte
chiaramente. Le ragazze, quelle dannate ragazze, stavano ridendo
spensierate, cantavano e danzavano attorno al falò delle sue
carni.
Il sole della prima mattina baciò con
gentilezza le carni candide della dormiente Eva che, in eterno,
giaceva nel suo giardino ove è sempre primavera. Riposava,
nella morte, la meravigliosa fanciulla, cullata dal suo abito candido
e dai frammenti del violino, che ora sempre tace.
Quando il Cavaliere incrociò la sua
strada, baciò quelle labbra imbronciante con gentilezza, per
non turbare quei sogni lievi.
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