V.
Michela le aveva mandato un
paio di messaggi da che era partita da casa sua per accertarsi che Erica non
avesse avvisato i suoi genitori, ma Erica lo sapeva che non avrebbe dovuto
farlo e aveva preferito seguire il suo istinto, lasciando dormire gli affittuari
del 13/B. Era uscita in fretta, un’ora dopo la chiamata di Michela, e aveva
preso la prima corsa della metropolitana da Flaminio, per raggiungere la
stazione Termini. Erica aveva preso la patente con fatica, ma non aveva più
guidato da allora perché aveva il terrore delle strade romane, della gente, del
traffico e dell’imprevedibilità del guidatore medio.
Era salita sulla metro, quindi,
ricordandosi che Roma, quel giorno, cambiava faccia perché sarebbe iniziato il
dannato Giubileo che le impediva di viaggiare tranquilla con tutti quei
militari che avevano l’effetto contrario su di lei, quella sicurezza ostentata,
quel leggero sentore di panico che accumunava i più sensibili che si
ritrovavano a guardarsi ogni volta che incrociavano lo sguardo di uno di quei
militari col fucile spianato.
Aveva deciso di vestirsi solo
perché avrebbe dovuto attraversare mezza stazione per rivedere Michela, ma
aveva ancora i capelli devastati da due giorni di incuria e le occhiaie viola
per quelle nottate di studio senza sosta. Ma per Michela questo e altro, e lo
sapeva.
Non aveva mai visto la stazione
così vuota. Alle sei della mattina non c’era davvero nessuno e dire che i treni
non avevano smesso un attimo di arrivare e ripartire sempre con qualche
viaggiatore a bordo. Se lo doveva aspettare che la fuga di Michela non sarebbe
durata in eterno. Michela non era fatta per i “per sempre”. Michela era incline
ai “per un po’ di tempo”, “prendiamoci una pausa”, “la prossima volta andrà
meglio”. Perché Michela ha paura di chiudere. Ha paura di chiudere qualsiasi
cosa; che siano relazioni umane, un libro appena finito, una conversazione.
Michela ha il terrore di apparire scortese, finendo di sua sponte qualcosa.
Michela vive nel terrore degli sbagli e nemmeno questa sua nuova partenza verso
Roma durerà in eterno, Erica lo sa mentre fissa il tabellone degli arrivi e
vede comparire il treno da Milano. E allora Erica non corre, perché sa che non
durerà affatto. Erica non corre perché è cresciuta e sa che verrà delusa di
nuovo, solo perché ha allungato la mano verso Michela, di nuovo.
Storia vecchia.
Capitoli già letti.
Trama desueta.
Michela,
probabilmente, si era cambiata nel bagno del treno perché non sarebbe mai
andata in discoteca con una tuta sformata e il trucco sbavato. Aveva pianto sul
treno, in quelle tre ore di vuoto e silenzio mentre tornava alle origini e
sapeva di aver sbagliato ancora una volta. Lo sa anche Michela, Erica glielo
legge negli occhi, che è solo provvisorio, momentaneo.
Michela
era provvisoria e momentanea.
Michela
ed Erica erano provvisorie e momentanee.
Erica
alza un mano e l’agita, per farsi vedere ma Michela l’ha già vista, la sta
guardando, ma non l’ha ancora salutata perché vuole godersi la visione di Erica
con quei capelli color noce moscata/marroni/rossicci, quell’aria da
menefreghista sociale e quel corpo da ragazzina cresciuta troppo in fretta.
Michela ama la figura di Erica. Michela ama Erica ed essere scesa a patti con
questa cosa, nel momento stesso in cui l’ha vista di nuovo dopo un anno e un
mese di distanza, non le fa più trattenere il fiato e sobbalzare lo stomaco.
È
rassicurante sapere di amare Erica.
È
rassicurante sapere di non amare più Michela; lo realizza nell’attimo stesso in
cui alza la mano e l’agita per salutarla. Michela continua ad essere bella,
come lo è sempre stata con i suoi capelli neri come l’inchiostro e gli occhi
verdi come il veleno. Stretta in quella tuta da ginnastica che comunque le
mette in risalto le forme, il trucco sbavato e rovinato, gli occhi lucidi di
pianto e il naso rosso per lo sbalzo termico, Michela è comunque bellissima ma
Erica crede di non amarla più come prima.
Erica
non sente più quel fuoco prepotente e distruttivo dentro che le impediva di
stare nella stessa stanza di Michela e non guardarla mentre arrotolava una
ciocca di capelli attorno all’indice.
«Non
sei cambiata per niente» le sussurra Michela, a poca distanza dal suo naso. Ha
il respiro freddo.
«È passato solo un anno» le risponde
Erica, trattenendosi dal toccarla. Michela lo nota e prende la mano di Erica
abbandonata lungo il fianco e la stringe forte, le bacia il dorso ed Erica si
costringe a non baciarla, a non saltarle addosso per sentire il corpo nervoso
di Michela contro il suo.
«Ti
si legge ancora tutto in faccia, Erica».
«Puoi
biasimarmi, forse?».
«No.
Non stavolta».
E
quando è Michela a baciare Erica, il mondo sembra fermarsi ed Erica realizza
che erano tutte cazzate perché Michela non è provvisoria.
Lei
accanto a Michela è per sempre. Questo loro contatto nuovo e vecchio come il
mondo, come l’uomo, come la vita, come la religione, come Dio è incredibilmente
giusto perché, altrimenti, gli uomini non ci avrebbero pensato a baciarsi e a
trovarlo fottutamente giusto ed eccitante. La lingua di Michela contro il suo
palato, le sue mani che stringono il maglione e se le sente sulla pelle della
schiena. Il respiro irregolare nella bocca, contro gli zigomi e poi sugli
occhi, quando glieli bacia e le chiede perdono in quella stazione Termini mezza
vuota.
E
quando è Erica a staccarsi da Michela, a riprendere fiato per prima, vede solo
le verdi paludi profonde che sono gli occhi dell’altra e si chiede come abbia
fatto a raccontarsi tante cazzate durante quell’anno passato a sentirsi
incompleta e infelice. Quando vede la sua bocca tumida e si chiede come cazzo
hanno fatto a finire in quella situazione, di nuovo. E improvvisamente hanno
senso anche i pomeriggi interi passati in facoltà a studiare senza capire, ad
ammazzarsi per rincorrere autobus e farsi spintonare sulla metropolitana. Con Michela
tutto acquista senso ed Erica si maledice e si benedice, si uccide e risorge
fra le braccia esili ancora strette attorno alla sua vita.
«Parlami»
la implora Michela, rincorrendo il suo sguardo di corteccia e terre umide. Ed Erica
rimane in silenzio, le accarezza la linea della mascella e va a morire nella
piega del collo, dietro l’orecchio, fra i capelli neri legati di fretta. La guarda
negli occhi e vede la tristezza, la gioia e l’infinito nelle iridi di veleno.
«Lo
sento che vuoi chiedermi qualcosa, Erica».
Abbassa
lo sguardo e guarda il loro abbraccio, senza parlare, per paura che possa
finire tutto, che possa svegliarsi da un momento all’altro e rendersi conto che
quello è stato solo un incubo bellissimo che le avvelenerà la mente perché ha
il colore degli occhi di Michela.
«Perché?».
Perché sei andata via. Perché sei
tornata. Perché vuoi farmi del male. Perché vuoi farmi sperare. Perché mi
abbracci. Perché mi baci.
Perché adesso e non quando ne avevo
bisogno.
Perché Michela.
«Perché
no».
Perché non dovrei farti del male.
Perché non dovrei farti bene. Perché non dovrei baciarti. Perché non dovrei
abbracciarti e sentirti dentro, fuori, ovunque.
Perché non adesso.
Perché no, Erica.
«Andiamo
a casa, Michela».
«Sì.
A casa».